52mo Karlovy Vary International Film Festival - Pagina 7

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52mo Karlovy Vary International Film Festival
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9526-ninaA dimostrazione che il lavoro fatto dai selezionatori quest’anno è stato particolarmente felice, anche i titoli proposti nella seconda giornata sono quantomeno interessanti. Un classico sulla crisi dei figli di coppie separate e un colloquio col taglio alla Sex and Zen basato su due giovani con problemi sentimentali che si incontrano una sera, forse si piacciono, sicuramente sono attratti uno dal altro. Temi sufficientemente generalisti trattati con delicatezza ma anche con un attento taglio drammatico, meglio il primo ma anche il secondo merita di essere visto. Nina (idem, 2017) diretto da Juraj Lehotský, è coproduzione della Repubblica Slovacca e della Repubblica Ceca. Il quarantaduenne regista di Bratislava ha una solida esperienza nel documentario e ha debuttato nel lungometraggio con Miracle (Miracolo, 2013), film che aveva anche ottenuto la menzione dalla Giuria di East to West di Karlovy Vary di quell’anno. Nel primo si era occupato di una quindicenne grintosa, qui racconta di una dodicenne con pari caratteristiche. Il suo vuole essere un discorso di denuncia nei confronti del mondo degli adulti, un universo assolutamente incapace di capire le esigenze di figli considerati bambini e non piccoli adulti. Documenta con bravura i dissimili ambienti di lavoro dei genitori di Nina, la differente cultura, le cause di una separazione nata per insoddisfazione e non certo per problemi di vitale importanza. Non si pensa ai danni che subirà la figlia, ma al proprio benessere. La giovane ha quasi dodici anni e il suo mondo sereno è appena andato in frantumi poiché il matrimonio dei genitori è finito e stanno ottenendo il divorzio. Le è negata una vita normale fatta di piccoli successi sportivi, di amicizie, di coccole. Farà cose sbagliate ma che, forse, riavvicineranno i genitori. Il film è un dramma intimo in cui lo spettatore affronta il mondo e il comportamento egoista e senza visione degli adulti con gli occhi di una bambina di 12 anni. Una ragazza che è resistente e bellicosa, ma anche vulnerabile e altrettanto fragile come il mondo miniatura che crea per sé stessa nel capanno del giardino.
a150-fallingStrimholov (A capofitto, 2017) è un complesso dramma psicologico diretto da Marina Stepanska, qui al debutto nel lungometraggio. È un film ucraino ma l’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi parte del mondo. La regista inserisce nella costruzione narrativa la sua esperienza teatrale – ha seguito anche corsi per dirigere attori non professionisti – e questo l’aiuta a dare credibilità ai personaggi ma, nello stesso tempo, riduce notevolmente il ritmo dell’azione creando una certa noia ed insoddisfazione. Il personaggio più importante, il nonno del protagonista, è male appoggiato dalla sceneggiatura che lo costringe a momenti quasi grotteschi. Questo limita notevolmente lo spessore del racconto che, in certi momenti, si limita ad un dialogo senza fine tra i due ragazzi pieni di problemi esistenziali con un grave carico emotivo soprattutto su quelli sentimentali. Parole, discorsi, scene fin troppo dilatate, perdita di mordente. Tutti gli interpreti sono bravi e, forse, meritavano sceneggiatura e regia migliori. Un giovane, appena uscito da un centro di disintossicazione da droghe e alcool, vive lontano dalla città assieme al nonno che cerca di aiutarlo in questo difficile recupero. Una sera fugge a Kiev e qui incontra una ragazza piena di problemi, soprattutto legati alla relazione con un fotografo tedesco. Si capiscono e, forse, sapranno aiutarsi. Oltre a questo, il film vorrebbe raccontare della voglia dell’Ucraina di uscire dal oscurantismo che la l’ha contraddistinta per troppi anni, ma non ci riesce mai.
F.F.