52mo Karlovy Vary International Film Festival

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52mo Karlovy Vary International Film Festival
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52kviff poster430 giugno  – 8 luglio 2017

sito web:http://www.kviff.com/en/homepage

I numeri delle edizioni non debbono ingannare, il Festival di Karlovy Vary, nella Repubblica Ceca, è la più vecchia manifestazione cinematografica dopo quella di Venezia. L’attuale rassegna porta il numero 52 mentre questa rassegna fu fondata nel 1946, ma ha subito per molto tempo le limitazioni conseguenti alla politica imposta dall’URSS. Nel 1953 e nel 1955 non ebbe luogo, mentre dal 1956 al 1994 si tenne solo ogni due anni, poiché si alternava con il Festival di Mosca, creato nel 1959. Negli anni sessanta, in coincidenza con la nova vlna (nuova ondata) cecoslovacca ebbe un periodo di grande splendore, ma sua fama internazionale subì un duro colpo nel 1968 con la repressione sovietica della Primavera di Praga. Nei decenni settanta e ottanta presentò programmi composti quasi esclusivamente dalle opere dei cineasti ufficialmente approvati dai sovietici e questo contribuì non poco a diminuire l'attenzione nei suoi confronti.

Dopo un periodo di transizione seguito ai cambiamenti politici del 1989, l'organizzazione del Festival di Karlovy Vary è passata nelle mani di una fondazione indipendente, di cui erano membri Jirí Bartoška, attuale Presidente del Festival, ed Eva Zaoralová, che da allora ne è il Direttore Artistico. Da quel momento si è affermato come una delle maggiori e più interessanti rassegne europee proponendo opere ingiustamente snobbate dai maggiori festiva come Cannes e Berlino.
Ecco il programma di quest’anno:

Concorso

Arrhythmia (Aritmia), regia: Boris Khlebnikov (Russia, Finlandia, Germania, 2017, 90 min.)
Breaking News (Ultime notizie), regia: Iulia Rugina (Romania, 2017, 81 min.)
The Cakemaker (Il fabbricante di torte), regia: Ofir Raul Graizer (Israele, Germania, 2017, 104 min.)
Ciara (La linea), regia: Peter Bebjak (Repubblica Slovacca, Ucraina, 2017, 108 min.)
Corporate (Aziendale), regia: Nicolas Silhol (Francia, 2016, 95 min.)
Daha (Di più), regia: Onur Saylak (Turchia, 2017, 115 min.)
Keep The Change (Tieni il resto), regia: Rachel Israel (Usa, 2017, 94 min.)
Khibula (Khibula), regia: George Ovashvili (Georgia, Germania, Francia, 2017, 98 min.)
Križácek (Il piccolo crociato), regia: Václav Kadrnka (Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Italia, 2017, 90 min.)
Muškarci ne placu (Gli uomini non piangono), regia: Alen Drljevic (Bosnia Erzegovina, Slovenia, Croazia, Germania, 2017, 98 min.)
Ptaki spiewaja w Kigali (Gli uccelli cantano a Kigali), regia: Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze (Polonia, 2017, 120 min.)
Ralang Road (Via Ralang), regia: Karma Takapa (India, 2017, 112 min.)

East of the West (L’est dell’ovest)

Concorso

Absence blízkosti (Mancanza di vicinanza), regia: Josef Tuka (Repubblica Ceca, 2017, 65 min. - Film d’apertura -)
Blue Silence (Silenzio blu), regia: Bülent Öztürk (Turchia, Belgio, 2017, 93 min.)
Dede (Dede) regia: Mariam Khatchvani (Georgia, Gran Bretagna, 2017, 97 min.)
Kak Vitka Chesnok vez Lecha Shtyrya v dom invalidov (Come Viktor, detto "l'aglio", ha portato Alexey detto "il cucciolo" alla casa delle infermiere), regia: Alexander Hant (Russia, 2017, 90 min.)
Keti lõpp (La fine della catena), regia: Priit Pääsuke (Estonia, 2017, 81 min.)
Marita (Marita), regia: Cristi Iftime (Romania, 2017, 100 min.)
Minu näoga onu (L’uomo che mi assomiglia), regia: Katrin Maimik e Andres Maimik (Estonia, 2017, 100 min.)
Nina (Nina), regia: Juraj Lehotský (Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca, 2017, 86 min.)
Strimholov (Caduta), regia: Marina Stepanska (Ucraina, 2017, 105 min.)
T'padashtun (Non desiderato), regia: Edon Rizvanolli (Kossovo, Olanda, 2017, 85 min.)
Tas (La pietra), regia: Orhan Eskiköy (Turchia, 2017, 96 min.)

 Documentari

Concorso

Another News Story (Un’altra nuova storia), regia: Orban Wallace (Gran Bretagna, 2017, 90 min.)
Atelier de conversation (Laboratorio di conversazione), regia: Bernhard Braunstein (Austria, Francia, Lichtenstein, 2017, 72 min.)
Avant la fin de l'été (Prima della fine dell’estate), regia: Maryam Goormaghtigh (Svizzera. Francia, 2017, 80 min.)
A Campaign of Their Own (Una campagna del proprio), regia: Lionel Rupp (Svizzera, 2017, 74 min.)
Land of the Free (La terra dei liberi), regia: Camilla Magid (Danimarca, Finlandia, 2017, 95 min.).
A Memory in Khaki (Un ricordo in Kaki), regia: Alfoz Tanjour, (Qatar, 2016, 108 min.)
Moj život bez zraka (La mia vita senz’aria), regia: Bojana Burnac, (Croazia, 2017, 72 min.)
Muchos hijos, un mono y un castillo (Un mucchio di bimbi, una scimmia e un castello), regia: Gustavo Salmerón, (Spagna, 2017, 90 min.)
Ouale lui Tarzan (I testicoli di Tarzan), regia: Alexandru Solomon, (Romania, Francia, 2017, 105 min.)
Richard Müller: Nespoznaný (Richard Müller: sconosciuto), regia: Miro Remo (Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca, 2016, 90 min.)
Svet podle Daliborka (Il mondo bianco secondo Daliborek), regia: Vít Klusák, (Repubblica Ceca, Polonia, Repubblica Slovacca, Gran Bretagna, 2017, 105 min.)

(U.R.)


 

The Big SickPer la serata di apertura della edizione 52 del KVIFF è stato scelto un film interessante e, a tratti, originale che difficilmente otterrà il grande successo di pubblico. The Big Sick di Michael Showalter, diretto dal comico americano Michael Showalter la cui opera del debutto – anche come sceneggiatore ed interprete - è stato l’interessante The Baxter (2005). Un Baxter, come definito dal film, è il ragazzo simpatico e noioso che in una commedia romantica viene lasciato alla fine della storia per il protagonista. Fa vedere come il Baxter viene abbandonato ambientando la sua scalogna in diversi tipi di commedia romantica. Tutto ruotava attorno alla vita di Elliot Sherman durante le due settimane prima del suo matrimonio, mentre combatte duramente la maledizione del destino di perdente. In questa occasione, si è messo completamente a disposizione del collega di cabaret ed amico Kumail Nanjiani che assieme alla moglie Emily V. Gordon ha scritto la sceneggiatura. È una pellicola romantica che parla in maniera autobiografica del corteggiamento tra Kumail ed Emily. Da notare che lei, prima di lavorare come sceneggiatrice (suoi diversi testi per la televisione), faceva la terapista per coppie e da questa sua esperienza ha tratto la capacità di conosce anche dal di dentro le crisi sentimentali. Il film ha avuto la sua prima mondiale al Sundance Film Festival il 20 gennaio 2017 e uscirà nelle sale a fine luglio. La tradizionale famiglia musulmana pakistana dell’uomo è insoddisfatta del suo rapporto con Emily, una donna bianca americana che non ha nessuna caratteristica che possa andare bene a loro. La madre gli continua a presentare ragazze perfette e lui archivia le loro foto in uno scatolone. Quando Emily sparisce nel nulla, per lui è difficile difenderla e continuare ad amarla. Lei era scomparsa perché, affetta da grave malattia, non voleva farlo soffrire. La donna in coma, lui l’affianca per seguirla continuamente in ospedale ai parenti e, alla fine, il doppio lieto fine della guarigione e del matrimonio. La sceneggiatura ha la stessa causticità ebraica, ci si diverte in certi momenti fino alle lacrime per poi farsi trascinare nel dramma dei protagonisti. Il film diviene un po’ ostico perché basato su dialoghi che intensamente riempiono le sue due ore di durata, ma non perde mai attrattiva ed interesse. Kumail Nanjiani come attore è capace di rara umanità. Un viso attonito e da buono, la certezza che l’amore trionferà su tutto. È incredibilmente attivo in televisione ed è una stella del cabaret. Pakistano di nascita, trentanovenne, a diciotto anni si è trasferito negli Stati Uniti studiando in Arts School ma rimanendo molto legato alle tradizioni. Il ruolo di Emily è stato affidato alla bravissima Zoe Kazan candidata anche agli Emmy e di grande capacità espressive. È una donna comune che l’amore – e la grave malattia – trasformano in un’eroina. Tutti gli altri sono stati scelti molto bene.

Ogni anno si attende quale sarà l’idea per creare uno spettacolo d’apertura coinvolgente: questa volta si è giocato sul horror (anche i cambi di immagini avvenivano cancellandoli col sangue) creando anche il balletto iniziale in maniera intelligente ed originale. Mentre l’orchestra sinfonica suonava i temi più adatti, sedici ballerine appese sul sipario, inserite in file di quattro per quattro in buste trasparenti, hanno interpretato una coreografia verticale di ottima presa raffigurando le vittime di qualche pazzo violentatore ed uccisore di vergini. Tra i tanti ospiti gli attori Uma Thurman e Casey Affleck oltreché l’otto volte candidato all’Oscar, il musicista James Newton Howard.
F.F.


men-dont-cryMuš Muškarci ne plaču (Gli uomini non piangono) è un dramma da camera firmato dall’esordiente bosniaco Alen Drijevič e prodotto da Bosnia Erzegovina, Slovenia, Croazia e Germania. Un gruppo di veterani della guerra che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia si riunisce in un albergo semideserto posto in una zona montana della Bosnia per tentare, sotto la guida di uno psicologo,  di superare la lacerazioni che li hanno dilaniati quando si battevano su fronti opposti. Molti di loro hanno ripotato ferite fisiche terribili, c’è chi ha perso una gamba e chi è costretto su una carrozzella. Ancora maggiori sono i segni psicologici che si portano appresso legati ad azioni infamanti che hanno compiuto e a eventi terribili di cu sono stati testimoni. Lo scopo di chi li ha radunati è di ricondurli ad una esistenza normale, stemperando le tensioni che ancora li muovono causando feroci conflitti fra mussulmani e cristiani, serbi e bosniaci. Solo alla fine il tentativo avrà successo davanti alla tomba della madre del giovane paraplegico mussulmano e alla constatazione, rappresentata dai giovani calciatori che si apprestano a giovare una partitella immemori di quanto è accaduto dieci anni prima e ha segnato in maniera indelebile un’intera generazione. Il film si sviluppa quasi per intero all’interno di poche stanze e si basa prevalentemente sulle pratiche di rimozione del passato messe in atto dal terapeuta. Pratiche che, in verità, appaiono piuttosto grossolane. È un modo di affrontare un tema drammatico come quello delle guerre balcaniche facendone una sorta di calderone di casi singoli e di psicologie individuali turbate. Restano fuori sia le ragioni, spesso ataviche, che hanno spinto questi popoli, tenuti assieme faticosamente e a volte con metodi decisamente brutali da Josip Broz Tito (1892 – 1980) a scannarsi ferocemente, sia le motivazioni, spesso opportunistiche, che spinsero i paesi occidentali a schierarsi con l’uno o con l’altro o, molto più spesso, a chiudere entrambi gli occhi davanti a ciò che accadeva. Nessuno chiede a un film di trasformarsi in un saggio storico, ma la riduzione del conflitto jugoslavo a una collana di traumi personali appare davvero riduttiva.

fd90-arrhythmiaMeglio, allora, Aritmya (Aritmia) del russo Boris Khiebnikov in cui un paramedico che lavora sulle ambulanze e sua moglie, dottoressa del pronto soccorso, arrivano alla quasi rottura a causa degli stress imposti da un sistema che disconosce ogni merito umano e tratta il loro lavoro alla stregua di un qualsiasi impiego misurabile in termini di pseudo efficienza e profitto. Intorno una società che ha perso ogni connotato umano, costringe i mezzi di soccorso a misurarsi con un traffico sempre più caotico, disprezza chi aiuta gli altri, riconosce solo i deliri alcolici e il sesso. È proprio grazie alla reciproca attrazione fisica che, alla fine, la coppia si salverà del naufragio e approderà ad una solitudine a due riscaldata dalla passione. Un piccolo film che emana sincerità e dolore anche grazie ai due intrepreti, Irina Gorbacheva e Alexader Yatsenko, che danno voce e volto a questi operai della sanità che ancora credono nella necessità del loro lavoro.

U.R.


 

0f10-pomegranate-orchard 1Un buon inizio per la sezione East to West che ha proposto un paio di titoli di ottimo interesse. Nar baği (Frutteto di melograni) proviene dall’Azerbaijan, paese della cui cinematografia conosciamo ben poco e che, nel periodo russo, non ha dato vita a film importanti perché molto limitata dalla censura. Lo stesso regista, il quarantaduenne Ilgar Najaf qui alla sua seconda opera, aveva subito da parte del regime pesanti imposizioni che portarono la famiglia ad essere espulsa dal paese alla fine degli anni ottanta. Documentarista di livello, autore televisivo, dimostra grande sensibilità soprattutto nel raccontare il disagio dei più piccoli – nella sua opera del debutto (Buta, 2011), raccontava le fantasie di un bimbo di sette anni – tanto da creare con questo delicato nuovo titolo, presentato qui in prima mondiale, è una magia che dura novanta minuti. Protagonista un quarantenne che ha molte cose da spiegare alla sua famiglia. Gabil torna a casa nella fattoria, circondata da un frutteto di antichi alberi di melograno, dopo un’improvvisa partenza dodici anni prima: da quel momento non era mai stato neppure una volta in contatto con loro. Pensa forse di essere subito perdonato dal vecchio padre che ha mantenuto per quel tempo la nuora ed il nipotino che ora ha problemi di vista. L’uomo ha amici poco affidabili, probabilmente deve del denaro a persone pericolose. La moglie inizia a credere in lui, il figlio cerca di recuperare il suo affetto ma viene ripagato in maniera negativa, ed è l’unica vera vittima di una situazione in cui gli adulti scelgono per lui. È un dramma privato immerso in un paesaggio pittoresco che racconta di ingiustizie che emergono sotto la superficie dell'apparente innocenza, serenità. Il finale lascia pochi dubbi sulla vera rettitudine del uomo. Ottimamente interpretato da attori molto conosciuti e capaci di una recitazione assolutamente naturale, è un piccolo grande film da assaporare scene dopo scena con immagini volutamente senza effetti o preziosismi: quello che conta è la storia.
dedeDede (idem, 2017) è film intenso, drammatico che mette in discussioni tradizioni che non permettono alla società di progredire verso un futuro socialmente più accettabile. Per la ambientazione ed i temi trattati è un film georgiano ma nasce da una complessa produzione internazionale che coinvolge, oltreché la Georgia, Qatar, Irlanda, Paesi Bassi e Croazia. La vicenda narrata inizia nel 1992, al termine di una terribile guerra che aveva distrutto psicologicamente i reduci. La giovane Dina vive in un villaggio di montagna dove la vita è strettamente governata da secoli di tradizione. Ritorna l’uomo a cui è stata promessa ed il suo dovere sarebbe quello di sposarlo, ma lei e innamorata di un altro e non vuole rinunciare a questo sogno d’amore. Dopo grandi scontri va col suo uomo nell’altro villaggio, ha un figlio ma c’è chi non dimentica e fa iniziare una faida da cui tutti escono sconfitti. È possibile sfidare l'ordine stabilmente stabilito? In caso affermativo, quale prezzo deve pagare una persona a farlo? La debuttante regista Mariam Khatchvani ha realizzato il suo primo film a Svaneti, la regione montuosa rigogliosa nella Georgia nord-occidentale dove è nata e ci presenta un autentico ritratto di una serie di costumi e tradizioni associate a questa provincia. La sua sensibilità Le permettono di immedesimarsi nel mondo delle donne per certi versi ancora oggi considerate inferiori agli uomini. È un’occasione per scoprire luoghi ma, soprattutto, costumi a poco noti.
F.F.


 

CorporateIl cinema francese si sta interessando non da oggi alle condizioni e ai problemi del mondo del lavoro. Corporate (Aziendale) di Nicolas Silhol segna una parziale novità in questa direzione con la focalizzazione dell’interesse dai piani bassi alle decisioni e alle manovre che coinvolgono il vertice manageriale. La responsabile delle Risorse Umane (ricordate il film con questo titolo del 1999, scritto e diretto da Laurent Cantet?) di una multinazionale va in crisi quando un dipendente si cui lei aveva la responsabilità si suicida gettandosi dalla finestra dell’ufficio. Questo dopo aver subito innumerevoli pressioni da parte della direzione affinché si dimetta in quanto troppo anziano e improduttivo. Lo stato di malessere porta la donna a cercare supporto in un’ispettrice del lavoro e a guidarla verso la denuncia delle pratiche oppressive e inumane messe in atto nei confronti di quanti non si adeguano agli standard di profitto aziendale. Non c’è molto di nuovo in un film girato quasi per intero in interni e denso di dialoghi e di sigle il cui significato potrebbe anche sfuggire allo spettatore meno avvertito. Di positivo c’è l’interesse per un tema troppo spesso trascurato e l’interpretazione, davvero magistrale, di Céline Sallette che ricostruisce i turbamenti, le paure e la determinazione di una donna che, come dice lei stessa, porta a casa centomila euro l’anno, ma non ha del tutto dimenticato la voce della propria coscienza.
1496215223427 0570x0400 1496215257893Il georgiano George Ovashvili era stato coronato con il Globo di Cristallo in questo festival nel 2014 ove aveva presentato Simindis kundzuli (L’isola del granoturco), film che vinse premi importanti in altre sedici rassegne cinematografiche. Quest’anno ha firmato Khibula, nome del luogo in cui morì (o fu ucciso) Zviad Gamsakhurdia (1939 –1993) il primo presidente, dal 1992 al 19992, della Repubblica della Georgia dopo il distacco dalla morente Unione Sovietica e la dichiarazione dell’indipendenza (1991). La sua figura, come quella del suo predecessore - l’ex ministro degli esteri dell’URSS, il gorbacioviano Eduard Shevardnadze (1928 – 2014) - è storicamente discutibile. C’è chi lo considera un eroe e chi non dimentica le sue responsabilità nella marcia su Tskhinvali (23 novembre 1989) contro gli Osseti, popolazione che fu al centro di aspri conflitti sino alla divisione in Ossezia del nord, politicamente integrata nella Federazione Russa, e Ossezia del Sud, collegata alla Repubblica della Georgia. Il regista racconta la drammatica fuga dell’uomo politico, assume ad un pugno di fedelissimi, sulle montagne innevate georgiane, fra continue paure di cattura da parte delle milizie golpiste che avevano preso il potere a Tbilisi. Tutto si conclude nel villaggio di Khibula con la morte del politico, ancor oggi non si sa se per suicidio o fucilazione da parte di alcuni uomini della sua stessa scorta. Ne nasce un film in cui il paesaggio e i sogni del fuggitivo hanno la meglio su tutto il resto e che appare più accettabile nella parte realistica che in quella onirica. Come spesso capita in casi del genere la psicologia dei personaggi fa premio sul contesto storico, in questo caso complesso più che mai. Più che un film collocato in una precisa prospettiva come, seppur in piccola parte, accadeva nel precedente, un’opera che lascia ben poco spazio alla Storia, intesa con la S maiuscola.

U.R.


La lineaČiara (La linea) è una produzione slovacco – ucraina firmata da Peter Bebjak, un veterano del cinema e della televisione che ha un particolare interesse per il genere gangsteristico. In questo caso racconta il conflitto fra due bande che operano lungo la frontiera tra la Repubblica Slovacca e quella Ucraina. La gang capeggiata da Adam Krajňák è dedita al traffico delle sigarette che arrivano in Austria passando per la Slovacchia. Disdegna il commercio della droga e si dedica, saltuariamente al passaggio di migranti che dall’Afghanistan cercano di sbarcare in Europa. Quando il trattato di Schengen trova applicazione anche da quelle parti, la sua attività entra in crisi. A questo punto si fa avanti un altro capobanda che non ha mai disdegnato il commercio di stupefacenti e che propone di dare vita ad un’unica organizzazione sotto il suo controllo. Adam rifiuta anche perché spinto da una madre, con la quale ha un rapporto ambiguo, particolarmente feroce e che già in passato aveva messo mano a omicidi e traffici vari. Ne nasce una serie di ammazzamenti, pestaggi, affogamenti e tagli di dita sino ad un finale in cui sembra che il protagonista riesca, quasi magicamente, a sconfiggere l’avversario. Sembra, perché la parte finale potrebbe anche essere un semplice sogno di Adam mentre sta sprofondando, incatenato, in una sorta di lago. Il dato migliore del film è nella mescolanza fra le immagini di un paesaggio magnifico e le sequenze di grande violenza. La parte che dovrebbe interessare maggiormente, quella relativa al traffico di migranti, è relegata quasi in sottofondo, mentre hanno spazio le violenze e gli scontri fra i malviventi. In altre parole un film realizzato con grande professionalità e decisamente inserito in un genere a cui non apporta alcun nuovo contributo.
moreSi parla di migranti anche in Daha (Di più) film di debutto del turco Onur Saylak. Anche in questo caso ci aggiriamo dalle parti del cinema criminale, con un camionista, il violento Ahad, che usa il suo camioncino per trasportare uomini e donne che fuggono dalla Siria con la speranza di raggiungere l’Europa. Lui e il figlio quattordicenne vivono in una piccola città sulle rive del mare da cui le persone che trattano e alloggiano, malamente e provvisoriamente, s’imbarcheranno verso i paesi che sognano. Le condizioni imposte ai migranti sono davvero inumane: devono dormire tutti assieme, non esclusi i bambini, in uno stanzone ricavato sottoterra, mangiano poco e male, subiscono stupri e violenze. Tutto questo indigna il giovane Gaza che, fra l’altro ha una predisposizione per gli studi scientifici e che il padre costringe a rinunciare alla scuola. Il ragazzo ingoia violenza su violenza fino al momento che la misura è colma e cerca di fuggire, dopo aver derubato il padre dei denari accantonati con il losco traffico, con la speranza di raggiungere un prestigioso liceo di Istanbul di cui si è conquistato l’ammissione. Il padre prima lo picchia a sangue, poi lo fa arrestare da un poliziotto corrotto. A questo punto il ragazzo si è indurito al punto di diventare peggio del genitore. Fa uccidere il padre e riorganizza il soggiorno dei migranti usando telecamere e monitor. Ora la loro presenza, così come le sofferenze che subiscono, non hanno nulla da invidiare alle torture praticate nei lager nazisti. Il film è costruito molto bene e testimonia un itinerario, dalla solidarietà alla violenza, che costituisce un esempio di cinema del presente. L’evoluzione, meglio l’involuzione, di questo ragazzo marca un quadro di grande suggestione e ricco di spunti di riflessione non solo sul presente e sulla criminalità che si arricchisce sulle spalle di migliaia di disperati in fuga da fame e guerre.
U.R.   


9526-ninaA dimostrazione che il lavoro fatto dai selezionatori quest’anno è stato particolarmente felice, anche i titoli proposti nella seconda giornata sono quantomeno interessanti. Un classico sulla crisi dei figli di coppie separate e un colloquio col taglio alla Sex and Zen basato su due giovani con problemi sentimentali che si incontrano una sera, forse si piacciono, sicuramente sono attratti uno dal altro. Temi sufficientemente generalisti trattati con delicatezza ma anche con un attento taglio drammatico, meglio il primo ma anche il secondo merita di essere visto. Nina (idem, 2017) diretto da Juraj Lehotský, è coproduzione della Repubblica Slovacca e della Repubblica Ceca. Il quarantaduenne regista di Bratislava ha una solida esperienza nel documentario e ha debuttato nel lungometraggio con Miracle (Miracolo, 2013), film che aveva anche ottenuto la menzione dalla Giuria di East to West di Karlovy Vary di quell’anno. Nel primo si era occupato di una quindicenne grintosa, qui racconta di una dodicenne con pari caratteristiche. Il suo vuole essere un discorso di denuncia nei confronti del mondo degli adulti, un universo assolutamente incapace di capire le esigenze di figli considerati bambini e non piccoli adulti. Documenta con bravura i dissimili ambienti di lavoro dei genitori di Nina, la differente cultura, le cause di una separazione nata per insoddisfazione e non certo per problemi di vitale importanza. Non si pensa ai danni che subirà la figlia, ma al proprio benessere. La giovane ha quasi dodici anni e il suo mondo sereno è appena andato in frantumi poiché il matrimonio dei genitori è finito e stanno ottenendo il divorzio. Le è negata una vita normale fatta di piccoli successi sportivi, di amicizie, di coccole. Farà cose sbagliate ma che, forse, riavvicineranno i genitori. Il film è un dramma intimo in cui lo spettatore affronta il mondo e il comportamento egoista e senza visione degli adulti con gli occhi di una bambina di 12 anni. Una ragazza che è resistente e bellicosa, ma anche vulnerabile e altrettanto fragile come il mondo miniatura che crea per sé stessa nel capanno del giardino.
a150-fallingStrimholov (A capofitto, 2017) è un complesso dramma psicologico diretto da Marina Stepanska, qui al debutto nel lungometraggio. È un film ucraino ma l’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi parte del mondo. La regista inserisce nella costruzione narrativa la sua esperienza teatrale – ha seguito anche corsi per dirigere attori non professionisti – e questo l’aiuta a dare credibilità ai personaggi ma, nello stesso tempo, riduce notevolmente il ritmo dell’azione creando una certa noia ed insoddisfazione. Il personaggio più importante, il nonno del protagonista, è male appoggiato dalla sceneggiatura che lo costringe a momenti quasi grotteschi. Questo limita notevolmente lo spessore del racconto che, in certi momenti, si limita ad un dialogo senza fine tra i due ragazzi pieni di problemi esistenziali con un grave carico emotivo soprattutto su quelli sentimentali. Parole, discorsi, scene fin troppo dilatate, perdita di mordente. Tutti gli interpreti sono bravi e, forse, meritavano sceneggiatura e regia migliori. Un giovane, appena uscito da un centro di disintossicazione da droghe e alcool, vive lontano dalla città assieme al nonno che cerca di aiutarlo in questo difficile recupero. Una sera fugge a Kiev e qui incontra una ragazza piena di problemi, soprattutto legati alla relazione con un fotografo tedesco. Si capiscono e, forse, sapranno aiutarsi. Oltre a questo, il film vorrebbe raccontare della voglia dell’Ucraina di uscire dal oscurantismo che la l’ha contraddistinta per troppi anni, ma non ci riesce mai.
F.F.  


3a79-the-cakemakerThe Cakemaster (Il fabbricante di torte) è una produzione tedesco – israeliana diretta da Ofir Raul Graizer. Vi si racconta l’amore appassionato fra il pasticcere berlinese Thomas per Oran e un israeliano, sposato, in trasferta nella capitale tedesca presso la filiale di una grande azienda del suo paese. I due si amano appassionatamente, convivono serenamente, ma la loro relazione si spezza quando l’ebreo deve ritornare a casa per un breve periodo e muore a Gerusalemme in seguito ad un incidente automobilistico. A questo punto è il tedesco a prendere la strada per il paese mediterraneo, a trovare lavoro, in incognito, nel negozio della vedova dell’amato, esercizio che rilancia alla grande con le sue torte e biscotti, anche questa nuova produzione fa perdere alla titolare la qualifica di pasticceria casher, cioè che vende solo prodotti approvati dai custodi della religione. Si comporta coì bene nella vita e sul lavoro da far innamorare la donna che gli si concede sino al momento in cui scopre la sua passata relazione con il marito defunto. Lui è costretto a partire, ma qualche tempo dopo è la vedova ad andare a cercarlo a Berlino, lo vede, ma non parla con lui. Forse lo farà dopo, ma su questo il film lascia il discorso in sospeso. È una bella storia d’amore in parte compromessa dalla statuaria, ma inespressiva, bellezza di Tim Kalkhof che dice più che esprimerle i turbamenti che lo hanno accompagnato nella pratica omosessuale. Assai più convincente la franco -israeliana Sarah Adler che passa gradualmente dal lutto alla sensualità. Sullo sfondo un universo chiuso e bigotto, quello della comunità ortodossa d’Israele, capace di essere particolarmente opprimente. Per contrapposizione il clima berlinese appare tollerante e accogliente, quasi una rivincita sulle diffidenze che ancor oggi accompagnano le relazioni fra ebrei ortodossi e tedeschi.
71cd-birds-are-singing-in-kigaliC’era molta attesa per Pitaki špiewają w Kigali (Gli uccelli cantano a Kigali), una produzione polacca firmata da Joanna Kos-Krauze che l’ha portata a termine dopo la morte del marito, il regista e attore Krzysztof (1953 – 2014). Lo spunto lo offre il genocidio consumato in Ruanda fra l’aprile e il luglio del 1994, uno dei più massacri sanguinosi della storia dell'Africa. In queste settimane furono massacrati - a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati - fra 800 mila e un milione di Tutsi ad opera della maggioranza etica del paese, gli Hutu. Fra i due gruppi, grazie alla politica attuata dai colonialisti belgi, esisteva da tempo tensione, ma il genocidio nacque dalla morte del presidente – dittatore  Juvénal Habyarimana, il 6 aprile, il cui aereo fu abbattuto da un missile terra-aria, mentre era di ritorno da un colloquio di pace che si era tenuto nel Burundi. Gli Hutu incolparono subito i Tutsi di questo attentato e scatenarono una pulizia etnica che non ha precedenti nella storia africana. Questi i fatti sommariamente illustrati all’inizio del film, con l’avvio di una storia che ha come protagoniste la tutsi Claudine e l’ornitologa polacca Anna che la salva dalla morte, anche perché figlia di un suo collega vittima, con tutta la famiglia, della follia sanguinaria hutu. Passano gli anni, la situazione ruandese si ristabilisce con i tutsi che riprendono il potere e Claudine rinuncia al sicuro stato di rifugiata politica per ritornare in Africa a cercare i corpi dei familiari per dar loro dignitosa sepoltura. Un ritorno che diventa vero e proprio trasferimento quando l’africana rinuncia a salire sull’aereo che riporta in patria l’amica. Il film risente del forzato cambio di mano registica e lo si vede dalle molte elissi narrative, dalla scelta di tenere la macchina da presa quasi sempre lontana dai volti dei personaggi, che la regista preferisce spesso inquadrare di spalle o in scorci quasi da immagini di telefonino. Il film presenta, miscelate in maniera non omogenea, due storie che potrebbe essere davvero interessanti, ma lo fa in maniera in gran parte insoddisfacente.
U.R.


photo1 bigGiornata caratterizzata dalla presentazione di due titoli che continuano a rendere arduo il lavoro dei giurati data la qualità medio alta di quello che fino ad ora è stato presentato. Anche se i temi, soprattutto quello del disagio dei più giovani, si ripete in vari titoli, il modo di affrontarlo film dopo film appare originale. Absence blízkosti (Assenza di vicinanza, 2017) interamente prodotto in Repubblica Ceca, ci fa conoscere un mondo esistente anche qui e a noi poco noto, in cui esistono persone affermate, ricche, prive di vero amore e, soprattutto, madri incapaci di capire questo ruolo che la vita ad alcune impone. Opera del debutto del talentuoso regista di Brno Josef Tuka - che ha partecipato e vinto a vari Festival coi suoi corti - parla del difficile rapporto tra madre e figlia, ambedue sbandate, incapaci di intendersi per davvero. Intelligentemente, ha realizzato un film di un’oretta, poco più lungo di un suo usuale short. Facendo così, ha trovato la maniera giusta per raccontare questa storia dal taglio teatrale in cui i pochi personaggi hanno l’esatta visibilità con scene mai melodrammatiche e vivono in maniera convincente quello che poi sfocia, almeno per uno di loro, in un dramma probabilmente senza ritorno. Dopo un'altra relazione fallita, Hedvika prende la figlia Adélka di tre mesi e il suo cane per andare a vivere nella villa della madre assieme all’attuale compagno della donna. La ragazza non ha mai amato la madre e lei non ha mai saputo darle altro se non egoismo. Lei ha 25 anni e tanta rabbia in corpo. Un giorno trova alcuni diari che il padre morto quando lei aveva otto anni. In queste pagine scopre molto di lei stessa, del padre che poco conosceva, della madre che cerca ora di amare, ma con grande fatica. Belli i personaggi molto realistici, ottima la sofferta performance di Jana Plodková.
fe01-the-stoneTaş (La pietra, 2017) è diretto dal trentasettenne Orhan Eskiköy, che è anche produttore e sceneggiatore di corti, alcuni dei quali da lui diretti sono stati presentati in Festival importanti, incluso in questo di Karlovy Vary. È un’intensa storia coprodotta dal KVIFF attraverso la sezione Works in progress della scorsa edizione. Potremmo definirlo un thriller psicologico, una storia d’espiazione, un’introspezione nel mondo dei dubbi, delle cose sottese, di altre dette e non pensate, in un crescendo che porta ad un logico, e drammatico finale. Tutti i personaggi nascondono qualcosa, hanno paura delle verità che li segnerebbero. Ogni cosa è resa ancora più drammatica dall’uso di uno splendido bianco e nero che rende i volti ancora più sofferenti. Durante una notte un ragazzo che cerca rifugio in casa isolata. La moglie del padrone crede sia il figlio scomparso tempo prima. L’uomo l’asseconda ma in maniera non sempre convinta perché conosce una verità che non può e non vuole dire. Con loro la figlia che poco ricorda del fratello e che pone domande imbarazzanti. È quasi impossibile distinguere la vera speranza dall'auto-delusione o dalla più assoluta falsità. A tutto si aggiunge misteriosa pietra che dovrebbe portare ad un tesoro indicato dal padre del uomo come criptica mappa: sembra l’abbia rubata l’uomo e la sorella cerca di dimostrarlo. Attorno a questa azione un uomo misterioso, da nessuno conosciuto, ma che sembra sapere molto.

F.F.


Breking NewsBreaking News (Ultime notizie) della rumena Iulia Rugina affronta un tema di grande importanza nel mondo della comunicazione odierna: la corsa delle televisioni, ma non solo di queste, a dare le notizie prima degli altri anche a costo di mettere a rischio la sicurezza dei propri inviati o di fornire informazioni destinate ad essere smentite di lì a poco. Il film inizia con una mini - troupe, un cameramen e un giornalista, che accorre in una fabbrica ove si è verificato uno scoppio. I due s’intrufolano fra i soccorritori e le macerie, senza alcuna autorizzazione o cautela. Una seconda esplosione li colpirà in pieno uccidendo l’addetto alla cinepresa e ferendo seriamente il collega. A questo punto i responsabili della rete, valutati i rischi legali del caso, decidono di spostare il giornalista ad un incarico apparentemente più tranquillo: dovrà registrare una serie di interviste da utilizzare per un necrologio del collega da mandare in onda il giorno del funerale. Compito apparentemente di routine, ma che si scontra subito con la decisione dei parenti, in particolare della giovane figlia, di non prestarsi alla bisogna. Il giornalista cerca in ogni modo di convincere la ragazzina e, alla fine, ci riesce. Tuttavia per ottenere il risultato ha compiuto un percorso che ha rivelato la vera personalità, sociale e familiare, del defunto. Un tragitto che ha finito con mettere in discussione anche le sue certezze. È davvero un bel film dalle cui sequenze s’intravvede un mondo e un groviglio di problemi che vanno ben oltre i confini della Romania. È una prova aggiuntiva della forza di questa cinematografia e della sua capacità di tenere banco sulle situazioni più difficili e comuni al nostro mondo.
Il piccolo crociatoKrižácek (Il piccolo crociato) del ceco Václav Kadrnka è stato realizzato anche con il sostegno della regione Sardegna, ove sono state realizzate alcune sequenze. È una storia, vagamente ispirata alla crociata dei fanciulli, una serie di eventi, in parte documentati e in parte mitici, avvenuti nel 1212 e che ebbero un esito tragico con l’annegamento di una parte dei crociati in erba nei pressi dell'Isola di San Pietro, in Sardegna, mentre gli altri furono venduti dai mercanti di Marsiglia, a cui i giovani guidati dal pastorello francese dodicenne Stefano, ad alcuni commercianti musulmani che ne fecero degli schiavi. Nel film il regista sposta l’attenzione sul rapporto fra il cavaliere Bořek e il piccolo Jan che il crociato considera un figlio e che ricerca per campagne e villaggi dopo che è scomparso. In questo modo il fulcro del film diventa quello del rapporto fra padre e figlio, meglio fra adulto e discepolo. Il tutto realizzato con una fotografia che sfrutta sino in fondo la suggestione del paesaggio e un racconto che fa dei silenzi uno dei punti espressivi di maggior forza. In altre parole un prodotto di alto livello espressivo ma in cui non mancano i compiacimenti e il gusto per la narrazione fine a sé stessa.

U.R.


69e9-blue-silenceIn questa giornata sono stati presentati nella sezione East to West film con tematiche e sviluppi complessi, autentici film da Festival che difficilmente trovano circuitazione in circuiti cinematografici. Sono film belli, intensi, spesso originali che poco concedo allo spettatore a cui è richiesta sensibilità e grande partecipazione. Blue Silence (Silenzio Blu, 2017) è diretto dal turco Bülent Öztürk, nato in un remoto paesino da una famiglia in cui erano tredici fratelli. L’essere stato espulso dal suo paese per ragioni politiche lo ha aiutato a provare nuove esperienze ed a divenire uomo di cinema. Rifugiato in Belgio ad Anversa, ha avuto la possibilità di studiare sceneggiatura, regia e quant’altro divenendo autore di vari corti e di documentari realizzati anche per la televisione belga. A quarantuno anni ha debuttato nel lungometraggio con un film innegabilmente difficile in cui si raccontano e fanno vivere le gravi difficoltà psichiche e sociali di un uomo per tre anni relegato in un ospedale militare per guarire da ferite non solo fisiche. Il regista sceglie tecniche visive che trasformano in ombre le immagini maggiormente complesse, utilizza il colore in accezioni che rendono ogni cosa drammatica. La narrazione è unicamente attraverso le emozioni dell’uomo, le sue paure, l’incapacità di riconquistare un posto nella società da cui è stato emarginato per ragioni di salute. Dopo essere stato dimesso dall'ospedale militare dove ha ricevuto il trattamento per un trauma che lo ha definitivamente segnato, Hakan tenta di riprendere una vita normale. Incontra chi lo conosceva, ha l’aiuto di chi gli vuole bene ma viene rifiutato dalla moglie e, con suo grande dolore, dalla figlia adolescente. Il regista si prone in una performance mature: il film mette in evidenza l'anima ferita di Hakan e sottolinea i suoi sforzi violenti per liberarsi dalla prigione privata. Problema è che non sempre si riescono a seguire le sue ricostruzioni di una psiche ferita.
MaritaMariţa (idem, 2017) è una commedia in cui tutto è basato sui dialoghi limitando la possibilità di un vero coinvolgimento che i sottotitoli, forzosamente i più scarni e la brevissima durata di ogni frase, rendono a tratti quasi impossibile intendere lo spirito di quanto detto. Diretto dal trentottenne rumeno Cristi Iftime, ha come protagonista un anziano padre molto estroverso, dall’animo ribelle e anticonvenzionale, amato dai figli anche se divorziato da moltissimi anni, anni in cui non ha mai cercato troppo di incontrarli. Sono tre, due vivono con la madre, uno con la sua ragazza a Cluj. La giustificazione per quanto succederà nel corso di un film a tratti anche divertente e coinvolgente è legata al figlio indipendente, il trentenne Costi che, dopo avere litigato con la fidanzata, sceglie di trascorrere qualche giorno con la sua famiglia e decide di tentare una difficile riunione unendo i suoi genitori, i fratelli, la cognata e un nipotino. Va a trovare il padre e non incontra molta resistenza alla sua idea. Prendono la vecchia auto familiare, una Dacia senza servosterzo affettuosamente conosciuta come Mariţa e si dirigono verso la casa della madre. In questo iniziale on the road i due imparano a conoscersi, rispettarsi, volersi bene. Giunti a destinazione ogni cosa appare perfetta con la ex moglie che ha sempre continuato ad amare l’uomo ma che lo ha lasciato per la sua incapacità di comportarsi da adulto. Lungo incontro familiare, nessuno scontro. Non è necessario che tutti i film siano drammatici, ma la mancanza assoluta di tensioni, sorprese, momenti da ricordare limitano l’interesse.
F.F.


 

Tieni i restoKeep the change (Tieniti il resto) dell’americana Rachel Israel è una delicata storia d’amore fra due persone diversamente abili, come si deve dire oggi pena l’essere accusati di razzismo. David proviene da una famiglia facoltosa, Sarah ha origini più umili, ma è più spigliata e sensibile. Si incontrano in un gruppo di supporto per persone con i loro stessi problemi, fanno amicizia, si fidanzano, finiscono a letto per iniziativa della donna, partecipano ad una festa della buona borghesia newyorchese dove si rompe il loro rapporto a causa dell’insistenza di lei, che ha una bella voce, a cantare una canzone anche oltre i limiti temporali imposti dalla buona educazione. Si ritrovano, fanno pace e si avviano, finalmente, a una felice convivenza. È un film che la regista ha tratto, ampliandolo, da un suo cortometraggio del 2013 con gli stessi interpreti ed è anche una storia leve, una commedia sentimentale di quelle che strappano qualche lacrimuccia alle persone più sensibili. Il merito maggiore dell'opera è di presentarsi per quello che è, senza pretendere di impartire lezioni di morale o dare il via a pistolotti sociali. La regista si è diplomata alla scuola superiore di design, un dato che traspare dall’eleganza dell’impaginazione e della sensibilità nel tratteggio dei caratteri dei personaggi. Non ci sono momenti di cedimento, né sul versante patetico, né su quello moralistico e la storia procede facendo dimenticare quasi subito che i protagonisti sono due persone con problemi. In questo un contributo fondamentale nasce dai due interpreti principali, l’attrice e cantante Samantha Elisofon e Brandon Polansky, che non cedono neppure per un momento a mossette o a scorciatoie fisiche.
Ralang-RoadQualcuno potrebbe definire Ralang Road (La strada di Ralang), opera prima del regista indiano Karma Takapa, il classico film da festival in quanto complesso nella struttura, non sempre chiaro e destinato a una circolazione per soli addetti ai lavori. Noi preferiamo parlare di un prodotto confuso, a tratti incomprensibile e passabilmente presuntuoso. Stando alle note stampa dovrebbe trattarsi di quattro personaggi le cui vite si incrociano nella regione himalaiana del Sikkim ove capitano o vivono. Uno è un maestro di città in rotta con la moglie che attende un figlio (lo scopriamo da una serie di flash back non del tutto chiari e collocati in maniera quasi casuale), un altro è il proprietario della sala da bigliardo locale con una propensione neppur troppo nascosta a menare le mani. Gli ultimi due sono una coppia di giovinastri locali pronti ogni nefandezza pur di procurarsi denaro. Tutto questo è immerso in lunghe sequenze di non facile comprensione, alternate con immagini di animali in fuga o in caccia. Con un po’ di vergogna dobbiamo confessare che abbiamo capito ben poco anche se siamo rimasti in sala, fra i pochissimi che hanno resistito sino alla fine del film.

U.R.


53a2-the-man-who-looks-likemeMancano pochi titoli alla conclusione della Sezione East to West e già’ si ipotizza chi potrà essere il vincitore. In questa edizione, numero 52, del KVIFF molti sono stati i titoli interessanti e, sicuramente, anche negli ultimi ancora non visionati qualche sorpresa apparirà. È un piacere avere conferma che paesi produttori meno noti come l’Estonia siano in grado di proporre bei momenti di cinema. Sono stati presentati oggi due film estoni che parlano di umorismo ma anche di umanità. Dietro ad un taglio apparentemente comico, vengono presentate situazioni umane, momenti di autentica drammaticità. Minu näoga onu (L'uomo che sembra come me, 2017) è diretto dai fratelli Katrin Maimik e Andres Maimik, che avevano già realizzato il riuscito Kirsitubakas (Tabacco alle ciliege, 2014) su una ragazza di città che s’innamora di uomo molto più adulto di lei. Oggi racconta di un critico musicale che sta attraversando una crisi dopo il divorzio e si concede una pausa per finire di scrivere il suo libro. Quando il padre, un trombonista jazz con una vita fatta di stranezze e stravizi, improvvisamente appare sulla soglia di casa sua, diventa chiaro che la sua vita sta per andare in una direzione diversa. C'è di mezzo anche una psicoterapeuta che, in maniera differente, trasformerà la vita di ambedue. Una storia tragicomica sui genitori, sui figli, sui loro errori e le manie condivise. In questi cento e passa minuti succede di tutto, si ride molto ma c’è anche l'occasione per meditare su argomenti non occasionali.
985a-the-end-ofthechainKeti Lõpp (La fine della catena Keti, 2017) è un film a tratti surreale scritto, diretto e interpretato da Priit Pääsuke, noto autore di Tallinn che ha realizzato questo film anche grazie al Festival di Karlovy Vary ottenendo l'appoggio di Works in Progress, sezione in cui vengono selezionati titoli non ancora realizzati in maniera completa. Il simpatico regista quarantaduenne è molto attivo in varie forme di espressione visiva, per il cinema ha realizzato un paio di corti interessanti. Nella costruzione su una sceneggiatura scritta a quattro mani con Paavo Pilk, mette fin troppe idee ma la scelta di raccontare la storia attraverso brevissimi episodi risulta vincente e riesce a fornire ad ognuno dei personaggi una propria visibilità. La location è un enorme locale di fast - food. L'unica dipendente è molto nervosa e ben presto si capisce la ragione: il locale sta per chiudere i battenti – quella sera stessa – per sempre. Si alterna umana varietà: dai bimbi felici che giocano nel mare di palline che poi vengono utilizzate da un uomo (il regista) non esattamente in buone condizioni psichiche. C'è la coppia che litiga, le due ragazzotte vestite in maniera esagerata che devono andare ad una festa, un anziano probabilmente privo di denaro. A questi si aggiunge un ragazzo greco che cerca lavoro e diventa confidente, aiutante, amico per una notte della ragazza che ha difficoltà a fingere quando le fanno una visita a sorpresa gli orgogliosi genitori (lei è il direttore del negozio senza dipendenti). Si ride moltissimo, ma si pensa ancora di più. L'amarezza che traspare da ognuno non lascia indifferenti, sono non personaggi ma persone vere con problemi che accomunano tanti di noi. Bello, intenso, ben girato, ottimamente interpretato. È una commedia ad alta voce, sul peggio che possa succedere quando si sta servendo dall'alba al crepuscolo. Esamina anche i dilemmi esistenziali, l'egoismo nascosto e l'essenziale desiderio di compassione.
F.F.


af6b-unwantedL'ultimo giorno di East to West propone due film dissimili come argomenti e modo di narrarli, ma molto simili per piacevolezza. Temi complessi, atmosfere drammatiche per il primo, piacevolmente grottesche per il secondo. T'padashtun (Non desiderato, 2017) prodotto da Kossovo ed Olanda – i due paesi più importanti per il regista – è un film lineare nello sviluppo che racconta con bravura e sensibilità le atmosfere di tensione che tutt'ora creano non pochi problemi tra popoli che fino all'inizio degli anni '90 erano dichiaratamente nemici. Dirige il kosovaro Edon Rizvanolli che debutta nel lungometraggio con grande esperienza teatrale, documentaristica, di corti: vive nei Paesi Bassi da oltre un decennio. Pur essendo di parte racconta gli scontri tra i suoi compatrioti ed i serbi senza prendere posizione. È vero, il cattivo non è kosovaro, ma questo può essere giustificabile. Tutto si svolge attraverso il sincero amore di due giovanissimi che si incontrano, si piacciono, si innamorano. Lui tende ad essere uno sbandato ma torna nella legalità grazie al sentimento che prova per Ana. Inizialmente, anche la madre che ha cresciuto il figlio senza l'aiuto di un padre, è contenta, ma scopre che il genitore della ragazza è serbo, cerca di dissuaderlo e, addirittura, vorrebbe cambiare città. In questo passaggio, dalla tristezza si giunge alla gioia – Ana, nonostante tutto, è benvoluta dalla donna – e sembra che finalmente siano superati i confini che separano i due popoli. Causa un tatuaggio dell'uomo, crolla la possibilità di un'unione tra i due ragazzi. Bella la frase del figlio della donna: siamo ambedue cittadini olandesi, e il passato non esiste più, ma certe tensioni difficilmente saranno superate in pochi anni. Molto bella la location in Amsterdam, ben lontana da quanto visitano i turisti ma anche da certi racconti drammatici della delinquenza che si vive in certa periferia. Il regista fa sperare in un lieto fine – forse utopistico – per poi imporre quanto la realtà impone.
0b14-how-viktor-thegarlic-took-alexey-thestud-tothenursing-homeJak Víťa Česnek vezl Ljochu Vrtáka do důchoďáku (Come Viktor "l'aglio" ha preso Alexey "il perno" alla clinica Kak , 2017) – è una commedia russa dal sapore agrodolce in cui sono molte le occasioni per sorridere e ridere, ma dove è particolarmente importante la vis drammatica. Il protagonista è esagerato, a tratti improponibile nel suo modo di comportarsi, ma è assolutamente umano e possibile. È simpatico, coinvolgente ma fondamentalmente solo ed infelice. È un uomo che non ama la moglie, non si occupa del figlio e trascorre il suo tempo libero tra il bere e la compagnia di ragazze di dubbia moralità. Piccolino, riesce a stendere i suoi avversari con un gancio micidiale. Il padre ha lasciato la famiglia quando era piccolo, la madre si è suicidata. Con queste premesse, sembra impossibile che l'opera prima di Alexander Hanton possa essere tanto divertente, con un umorismo nero che affascina e coinvolge. Il film offre un insieme di personaggi selvaggi rappresentanti degli strati sociali più bassi, visti attraverso un bilanciamento che trova equilibrio tra la dimensione profondamente umana del racconto e il suo stile ironico che dileggia la società contemporanea. Il padre anziano ed il figlio sono persone fondamentalmente negative, eppure riescono a essere piacevoli per lo spettatore. Quarantenne libertino ha la vita compromessa dall'arrivo del padre che lo aveva abbandonato bimbo. È su di una sedia a rotelle, si impianta in casa sua e lui cerca di trovare una casa di riposo che lo accetti. Questa esiste, ma è lontanissima. I due iniziano un viaggio in cui incontreranno personaggi pazzi e problematici come loro ma, soprattutto, impareranno a conoscersi ed accettarsi per quello che sono.
F.F.


a3f5-the-nile-hilton-incidentCome è ormai tradizione dei grandi festival anche la 52a edizione della rassegna di Karlovy Vary ha messo in campo una mole massiccia di titoli, dispersi nelle varie sezioni in cui si è articolato il festival. Citiamo due film che ci sono parsi particolarmente interessanti. The Nile Hilton Incident (L’incidente capitato all’Hotel Nilo Hilton) è una coproduzione del 2016 fra Svezia, Germania e Danimarca firmata da Tarik Saleh. Vi si racconta, sotto la formula del noir, l’investigazione condotta dal maggiore, poi colonnello, Naredin sulla morte di una bella cantante trovata sgozzata in una stanza dell’Hilton, a Il Cairo. L’indagine condurrà alla scoperta dell’assassino, nei panni di un alto funzionario dei servizi segreti che aveva ricevuto l’incarico di eliminare la donna diventata scomoda per il regime dopo che un parlamentare e grande costruttore immobiliare si era innamorato di lei. Lo scenario è quello dei giorni che precedono la caduta del dittatore Iosli Mubarak e nel film sono presenti complicità e fermenti che segarono quei giorni di speranza e, poi, di delusione con la salita al potere di un altro dittatore, il generale Al Sissi. È un film realistico in molti particolari, anche se girato in Marocco, a Casablanca. Vi primeggia la figura del poliziotto tracciata in maniera verista: non è un eroe senza macchia né colpe, deruba sfacciatamente gli arrestati, assiste indifferente alle torture dei fermati, fuma spinelli a tutt’andare. Un agente in carne e ossa che, tuttavia, segue una sua morale, non si piega alle decisioni dei potenti, accetta la promozione, ma non smette per questo di indagare. Sarà proprio lui ad essere travolto dalla protesta popolare, mentre i suoi capi, in prima luogo uno zio che comanda la stazione di polizia in cui lui lavora, troveranno modo di riciclarsi alla luce del nuovo potere. È un film dal taglio classico e dalla struttura professionalmente precisa, forse non innova nulla nel campo del linguaggio, ma apre una finestra abbastanza significativa su fatti di cui sappiamo poco.
U.R.

a-ghost-story-poster-trailer-teased-696x464Uno degli eventi speciali di questa edizione del KVIFF è stato legato all'assegnazione di un premio a Casey Affleck. Presente anche il regista, è stato proposto l'originale A Ghost Story (Una storia di fantasmi, 2017), film che mischia l'ironia, il grottesco a temi dal sapore del horror. Girato in 1.37:1 con un sapore di antico che è ben presente in tutto lo sviluppo del film, è stato realizzato con autofinanziamento utilizzando interpreti praticamente non pagati e tecnici qualificatissimi che hanno lavorato ai minimi contrattuali. Del resto nel mondo standarizzato di Hollywood alcuni che hanno sempre cavalcato questa ricca onda trovano piacere nel tentare vie diverse, dal sapore a tratti goliardico. A dirigere il talentuoso trentasettenne David Lovery, di cui ricordiamo il recente Il drago invisibile (Pete's Dragon, 2016) e Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints, 2013) di cui erano protagonisti Casey Affleck e Rooney Mara, gli stessi che interpretano A Ghost Story. E' stato girato in grande segreto perché sia il direttore/sceneggiatore che gli interpreti  avevano più di un dubbio sul risultato finale, visto che tutto è realizzato come fosse un film di anteguerra, volutamente molto ingenuo in alcune trovate, ad esempio l'esemplificazione visiva del fantama di Affleck coperto di lungo lenzuolo bianco e con due tagli all'altezza degli occhi. In realtà, questa scelta è sia artistica che per esigenze del lavoro del attore che, in questa maniera, appare pochissimi minuti. Il film ha avuto la sua prima mondiale al Sundance Film Festival con ottimo successo di critica, successo che ha confortato i produttori convincendoli a tentare un'uscita ufficiale prevista in questi giorni negli Stati Uniti con un numero di sale limitato. Questo prodotto volutamente ingenuo riesce a divenire una meditazione poetica sul tempo, la memoria e ha argomenti per dimostrare l'esistenza di uno spirito dentro di noi. Musicista in difficoltà vive con la moglie in una semplice casa di periferia. Una notte sentono un pesante rumore provenire dal pianoforte ma non ne riescono a capirne la ragione. Avviene un grave incidente d'auto in cui lui muore, ma si sveglia come un fantasma e, mentre cammina in ospedale, nessuno riesce a vederlo. Torna a casa, osservala la moglie che non si dà pace per la sua dipartita e vorrebbe confortarla. Scopre un altro fantasma all'interno della casa di fronte che sa di dovere attendere qualcuno ma non si ricorda chi. Da questo momento, si trova a vivere a ritroso la propria vita, quella dei suoi avi, la storia stessa della casa che per lui è ragione di speranza di abbandonare lo stato di fantasma per trasformarsi in anima salita in cielo. Il film è poetico, divertente, con situazioni che trovano chiarezza solo nel loro sviluppo tutto ben coordinato da una sceneggiatura in cui nulla è detto che non abbia ragione per lo sviluppo della storia. Difficilmente diventerà un campione di incassi, ma sicuramente merita di essere visto, avendo voglia prima di scoprire quale è lo spirito voluto creare da David Lovery, qui anche montatore. Per chi afferma che Casey Affleck è mono espressivo e non ama i film da lui interpretati, qui il problema non esiste: il suo volto è quasi sempre coperto da un lenzuolo.
F.F.


Il piccolo crociatoI PREMI

SEZIONE UFFICIALE

CONCORSO
GRAN PREMIO – GLOBO DI CRISTALLO CON UNA DOTAZIONE DI 25 000 DOLLARI DA DIVIDESI FRA RGISTA E PRODUTTORE.

Křižáček (Il piccolo crociato) regia: Václav Kadrnka (Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Italia)

PREMIO SPECILE DELLA GIURIA CON UNA DOTAZIONE DI 15 000 DOLLARI DA DIVIDESI FRA RGISTA E PRODUTTORE.

Muškarci ne plaču (Gli uomini non piangono) regia: Alen Drljević (Bosnia Erzegovina, Slovenia, Croazia, Germania)

PREMIO AL MIGLIOR REGISTA

Peter Bebjak for the film Čiara (La linea) (Repubblica Slovacca, Ucraina)

PREMIO ALLA MIGLIORE ATTRICE

Jowita Budnik e Eliane Umuhire ex-aequo per I ruoli interpretati nel film Ptaki śpiewają w Kigali (Gli uccelli cantano a Kigali) regia Joanna Kos-Krauze, Krzysztof Krauze (Polonia)

PREMIO AL MIGLIOR ATTORE

Alexander Yatsenko per l’interpretazione in Arrhythmia (Aritmia) regia: Boris Khlebnikov (Russia, Finlandia, Germania)

MENZIONI SPECIALI DELLA GIURIA
Per il miglior film narrativo

Keep the Change (Tieni il resto) regia: Rachel Israel (Usa)
USA, 2017

Per il miglior nuovo debutto

Voica Oltean, attrice in Breaking News (Ultime notizie) regia: Iulia Rugină (Romania)


EAST OF THE WEST

CONCORSO

GRAN PREMIO CON UNA DOTAZIONE DI 15 000 DOLLARI DA DIVIDESI FRA RGISTA E PRODUTTORE.

Kak Vitka Chesnok vez Lecha Shtyrya v dom invalidov (Come Viktor "l'aglio" ha preso Alexey "il perno" alla clinica Kak) regia: Alexander Hant (Russia)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA CON UNA DOTAZIONE DI 10 000 DOLLARI DA DIVIDESI FRA RGISTA E PRODUTTORE.

Dede regia: Mariam Khatchvani (Georgia, Qatar, Irlanda, Olanda, Croazia)

 

DOCUMENTARI

CONCORSO

GRAN PREMIO PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO CON UNA DOTAZIONE DI 5.OOO DOLLARI DA ASSEGNARE AL REGISTA DEL FILM.
Muchos hijos, un mono y un Castillo (Molti ragazzi, una scimmia e un castello) regia: Gustavo Salmerón (Spagna)

PREMIO SPEIALE DELLA GIURIA

Atelier de conversation (Officina di conversazione) regia: Bernhard Braunstein (Austria, Francia, Liechtenstein)


PREMIO DEL QUOTIDIANO PRÁVO

Wind River (Fiume selvaggio) regia: Taylor Sheridan (Usa)

GLOBO DI CRISTALLO PER IL CONTRIBUTO ARTISTICO AL MONDO DEL CINEMA

Ken Loach (Gran Bretagna)

GLOBO DI CRISTALLO PER IL CONTRIBUTO ARTISTICO AL MONDO DEL CINEMA
Paul Laverty Gran Bretagna)

GLOBO DI CRISTALLO PER IL CONTRIBUTO ARTISTICO AL MONDO DEL CINEMA
James Newton Howard (Usa)

PREMIO DEL PRESIDENTE DEL FESTIVAL
Uma Thurman (Usa)

PREMIO DEL PRESIDENTE DEL FESTIVAL
Casey Affleck (Usa)

PREMIO DEL PRESIDENTE DEL FESTIVAL
Jeremy Renner (Usa)

PREMIO DEL PRESIDENTE DEL FESTIVAL PER IL CONTRIBUTO ALLA CINEMATOGRAFIA CECA

Václav Vorlíček (Repubblica Ceca)

PREMI NON STATUTARI

PREMIO DELLA GIRURIA FIPRESCI (International Federation of Film Critics).
Keep the Change (Tieni il resto) di Rachel Israel (Usa)

PREMIO DELLA GIURIA ECUMENICA
The Cakemaker (Il fabbricante di torte) di Ofir Raul Graizer (Israele, Germania)

PREMIO FEDEORA (FEDERAZIONE DEI CRITICI EUROPEI E MEDITERRANEI) RISERVATO AQLLA COMPTIZIONE NELLA SEZIONE East of the West
Mariţa di Cristi Iftime (Romania)
Menzione speciale a
Blue Silence (Il silenzio blu) di Bülent Öztürk (Turchia, Belgio)

PREMIO ETICHETTA CINEMA RISERVATO AL MIGLIO FILM EUROPEO PRESENTE NALLE SEZIONI UFFICIALI DEL CONCORSO E DI QUELLO DI EAST OF THE WEST.

Muškarci ne plaču (Gli uomini non piangono) di Alen Drljević (Bosnia Erzegovina, Slovenia, Croazia, Germania)