Festival di Karlovy Vary 2005

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Festival di Karlovy Vary 2005
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Vincono Luca Zingaretti e un’attrice che interpreta un ruolo maschile

sito ufficiale: http://www.iffkv.cz/desktopdefault.aspx?tabId=40
ImageIl dato più interessante emerso dalla 40ma edizione del festival di Karlovy Vary, in Repubblica Ceca, è nella distribuzione dei premi agli attori. Luca Zingaretti ha ottenuto quello per la migliore interpretazione maschile, grazie al ruolo di Padre Puglisi da lui sviluppato in Alla Luce del Sole di Roberto Faenza, riconoscimento ottenuto ex – aequo con l’attore israeliano Uri Gavriel che incarna, in Eize Makom nifla (Che posto meraviglioso), la parte di un ex-poliziotto divenuto controllore di prostitute per conto di un boss di Tel Aviv. Sempre nel settore attoriale, tuttavia, la maggiore e condivisibile sorpresa è legata al premio per la migliore attrice, andato all’ottantacinquenne Krystyna Feldman, una delle veterane della scena polacca con all’attivo oltre cinquanta ruoli tra film e telefilm.
Questa volta il suo compito è apparso particolarmente arduo in quanto chiamata a dare corpo ad un uomo, il pittore naif Epifan Drowniak detto Nikifor (1895 - 1968), la cui storia assomiglia in modo impressionate a quella d’Antonio Ligabue (1899 – 1962).
Il film, che ha vinto il maggior premio della rassegna e quello per la migliore regia, s’intitola Mój Nikifor (Io Nikifor) ed è stato diretto da Krzysztof Krauze. Vi si raccontano, in modo abbastanza tradizionale, gli ultimi anni di vita del pittore naif, seminfermo di mente, ma dotato di un senso straordinario per la composizione e il colore. Parte finale dell’esistenza che visse sotto la tutela di Marian Wlosinski, artista poco dotato, ma che aveva intuito la grandezza dell’uomo che gli era stato affidato. Ciò che manca nel film é il mondo esterno, quella Polonia realsocialista in cui il lavoro d’autori come questo era del tutto strumentalizzato sia per fini d’esaltazione del popolo, sia per acquisire allo stato risorse in valuta sfruttando l’ingenuità degli artisti e l’entusiasmo dei collezionisti occidentali. Il film naviga verso una tranquilla solidità professionale facendo leva più su psicologie e sentimenti che sulla raffigurazione complessa di un’epoca e degli intellettuali che l’hanno vissuta.
Che posto meraviglioso ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria ed é il ritratto del melange razziale e dei problemi di criminalità con cui deve fare i conti Israele. Un controllore di prostitute arrivare dall’est Europa s’innamora di una fragile ucraina sino a farla fuggire dal bordello – galera in cui é rinchiusa. Parallelamente a questa ci sono altre due storie: una ha per protagonista un grasso agricoltore tradito dalla moglie con un funzionario governativo che, a sua volta deve badare ad una padre paralizzato, l’altra ruota attorno ad un gruppo d’immigrati tailandesi che sognano di celebrare degnamente il compleanno del loro re. Anche se non poche sequenze rimandano ad altri due film israeliani, Promised land (La terra promessa, 2004) d’Amos Gitai e Ha-chaverim shel Yana (Gli amici di Yana, 1999) d’Arik Kaplun, interpretato da sua moglie Evelyn che ha qui il ruolo d’interprete principale, ma sono riferimenti che rappresentano altrettante citazioni consapevoli. Nel complesso si tratta di un’opera forte e interessante, cui si perdonano facilmente le non poche scivolate sentimentali e le situazione troppo prevedibili.
Vediamo ora gli altri titoli in concorso. Chinaman (Il cinese) del danese Henrik Ruben Genz è il ritratto di un idraulico in crisi esistenziale, abbandonato dalla moglie. L’uomo riesce a ritrovare una speranza di vita in un giovane cinese, cugina del proprietario di un piccolo ristorante etnico. All’inizio accetta di sposarla solo per farle avere il permesso di soggiorno e in cambio di un bel po’ di soldi con cui chiudere le pendenze del precedente matrimonio. Poco a poco, tuttavia fra i due nasce un forte legame sentimentale che supera la sua prestazione interessata e i pudori della donna. Quando le cose sembrano volgere al meglio la ragazza, affetta da una grave malformazione cardiaca, muore. Ora lui è nuovamente solo, anche se l’ex – moglie da segnali evidenti di volere tornare sui suoi passi. Il film è molto ben equilibrato, le parti ironiche non contrastano, ma si sommano armonicamente a quelli tragici. Un film d’ottima fattura e denso di materia su cui riflettere, non solo in direzione psicologica.
Atemetetlen halott (L‘uomo insepolto) è ultima opera di Márta Mészáros, cineasta conosciuta anche in Italia per la serie Napló gyermekeimnek (Diario per i miei figli, 1982), Napló szerelmeimnek (Diario per i miei amori, 1987), Napló apámnak, anyámnak (Diario per mio padre e mia madre, 1990), in cui percorre la sua vita d’orfana di uno scultore comunista rifugiatosi in Unione Sovietica per sfuggire alle persecuzioni dei fascisti ungheresi ed inghiottito dall’orrore dei lager stalinisti. Con questo nuovo film affronta uno dei nodi più drammatici della storia ungherese: la rivolta del 1956. Lo fa focalizzando il racconto sulla figura d’Imre Nagy, il capo del governo rivoluzionario detronizzato dai carri armati del Patto di Varsavia. Ricordiamo sommariamente alcuni momenti di quella tragedia. Subito dopo il 4 novembre 1956, giorno dell’occupazione sovietica di Budapest, il Primo Ministro, i suoi collaboratori più stretti e i familiari ottennero asilo nell’ambasciata iugoslava. Da qui uscirono il 23 novembre fidando in un lasciapassare emesso dal nuovo governo di Janos Kadar. Immediatamente arrestati, furono internati nel villaggio rumeno di Svagov dove rimasero, in condizione di domicilio coatto, sino ai primi mesi del 1958. Quindi furono ritraspostati a Budapest e sottoposti ad un processo farsa il cui giudizio era stato deciso da tempo fra le mura del Cremino. L’ex premier, il generale Pál Malatèr e il giornalista Miklós Gimes subirono la condanna morte, gli altri imputati, che avevano chiesto la grazia, ebbero lunghe pene detentive. I corpi dei giustiziati furono sepolti, in gran segreto, nella prigione in cui era avvenuta l’esecuzione, solo nel 1987 furono riesumati e seppelliti, sempre in modo più che discreto, in un cimitero di Budapest. Nel 1989, dopo la caduta del regime, le salme ebbero un funerale solenne, a cui parteciparono migliaia d’ungheresi e decine di leader politici europei. La scelta di mettere al centro del film il primo ministro, una figura sicuramente importante e affascinante, ha avuto come conseguenza la messa in ombra degli altri condannati. La cosa che ha destato accese polemiche da parte dei parenti e dei pochi sopravvissuti. In altre parole la regista costruisce la sofferta agiografia di un martire e lo fa anche a costo di perdere definizione e disegnare un personaggio storicamente generico, quanto generoso. Il film risente di questo taglio eroico, che oscura la complessità del fronte rivoluzionario in cui convivevano posizioni diversissime, dai nostalgici del fascismo horthista, ai comunisti che avevano capito come la sola via d’uscita dalla crisi, apertasi dopo la destalinizzazione, era un reale allargamento della democrazia. Lo capì subito un osservatore non sospetto, Indro Montanelli, inviato de Il corriere della sera, che sconcertò i suoi lettori più conservatori parlando sin dalle prime ore di scontro fra comunisti sulle diverse idee di costruzione del socialismo. Ecco è questo che manca nel lavoro di Márta Mészáros e, per un film con ambizioni di ritratto storico e d’insegnamento ai giovani che non sanno, è un grave difetto.