Festival di Karlovy Vary 2006

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Festival di Karlovy Vary 2006
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A Karlovy Vary vince una donna sola

sito ufficiale: http://www.kviff.com/?lang=en
ImageLa 41ma edizione del Festival Internazionale di Karlovy Vary si è chiusa con un bilancio quantitativamente molto positivo: oltre 11 mila gli accreditati, di cui quasi 600 giornalisti, 474 le proiezioni e 135.820 gli spettatori, 268 i titoli in cartellone, 226 dei quali lungometraggi narrativi. Sono cifre che confermano la forza di una rassegna insediatasi saldamente al secondo posto fra le manifestazioni cinematografiche centroeuropee, dopo il Festival di Berlino. Sul versante qualitativo il livello medio dei film in concorso, non era altissimo, ma ciò è più che spiegabile con le difficoltà imposte a qualsiasi selezionatore dalla crisi del cinema a livello mondiale.
Ha vinto Sherrybaby di Laurie Collyer, già positivamente segnalato al Sundance Film Festival, che racconta di un’ex drogata uscita dalla prigione dopo una condanna per rapina. La donna tenta di riprendere i rapporti con la figlioletta che, nel frattempo, è stata data in affidamento al fratello. Il suo è un difficile tentativo di reinserimento fra ricatti sessuali di coloro a cui chiede lavoro, ricerca di rapporti con altri compagni, violenze di poliziotti cinici e ricadute nella tossicodipendenza. Ogni tentativo fallirà e sarà lei stessa a capire che la bambina sta meglio con la nuova famiglia che non con lei. È un bel ritratto femminile intriso di disperazione e da cui emerge una donna inquieta, ma sostanzialmente onesta che cerca un punto d’aggancio con una realtà tutt’altro che benevola. È un film con il classico taglio da cinema indipendente americano, girato molto bene e con un’interprete, Maggie Gyllenhaal, d’altissimo livello a cui è andato anche il riconoscimento per la migliore interpretazione femminile.
I premi speciali della giuria sono stati assegnati, ex- aequo, a Obarnata elha (Albero di Natale sottosopra) dei bulgari Ivan Cherkelov e Vassil Živkov e a Kráska v Nesnázich (Bellezza nei guai) del ceco Jan Hřebejk. Il primo, segue il percorso di un enorme albero di Natale dalle montagne a Sofia. E’ il filo conduttore che cuce sei storie di vita contadina e zingara che formano un bel mosaico della realtà del paese. S’inizia con una donna che ritorna in patria dall’estero per rivedere l’uomo che ama, ma che non sembra curarsi di lei. Il finale sarà segnato dall’uccisione del classico vitello grasso: qualcuno paga sempre per il ritorno del figliol prodigo. Il secondo episodio, largamente il migliore della serie, segue una ragazzina incinta che arriva nella capitale, cacciata dai parenti, per trovare una chiesa che accolga, come accadeva nell’antichità, il frutto del suo ventre. Non sarà così e lei dovrà ritornare sui suoi passi, unendosi ad una sorta di processione laica e fanatica che disegna girotondi in alta montagna. La terza parte punta sul filosofico - surreale, mettendo in scena la morte di Socrate, vista attraverso i discorsi di due soldati imprigionati in un carcere militare. È la parte più ricercata, ma anche quella meno riuscita. Il quarto episodio racconta di una famiglia zingara che va a vendere cestini e cucchiai sulle affollate spiagge del Mar Nero. Due ragazzini, per gioco, fanno finire in mare un’escavatrice, non prima di aver raso al suolo una parte del loro accampamento. Il gioco è sulla contrapposizione fra questo corpo estraneo (i dialoghi fra i gitani non sono tradotti né sottotitolati) e il resto della società, una rivendicazione di diversità e, nello stesso tempo, un segnale della complessità sociale del paese. Il quinto episodio racconta il suicidio di un battelliere che vive da solo con il ricordo di una donna che non ha avuto il coraggio d’amare e che si è uccisa sotto i suoi occhi. La sua maggiore proprietà è un maiale, che dovrebbe funzionare da riproduttore, ma svolge male il suo ruolo. Solo, disperato, davanti ad una vita priva di senso, si uccide in modo crudele. Il sesto episodio fotografa una festa paesana con i banchi di giocattoli miseri e le danze contadine. Lo stile è fluido e controllato, il racconto procede con un ritmo lento come quello della società contadina a cui è dedicato. Il giudizio sul film ceco è assai meno positivo. Bellezza nei guai è una commedia a lieto fine, con tanti personaggi accattivanti, sempre allegri, anche se devono fronteggiare situazioni spiacevoli. Il tutto immerso in umore moralista, piuttosto difficile da digerire. Una giovane moglie con due figli, avuti da una precedente relazione, vive con un meccanico che ricicla auto rubate. Un giorno gliene portano una dotata di sistema di sicurezza satellitare e lui finisce in galera. Negli uffici della polizia la donna incrocia il proprietario della macchina, un distinto signore ceco che vive in Toscana ove possiede una ricca vigna. E’ un gentiluomo altruista e gentile, sino alla caricatura, che finisce per ospitarla in una sua casa praghese e condividerne il letto. Finale conciliatorio, ma con uno sbuffo di zolfo: nell’ultima immagine lei sta telefonando all’ex marito e si masturba. Il film è piuttosto modesto, superficiale e di stampo culturale, stilistico e tematico nettamente televisivo. L’alloro per la miglior regia è andato a Reprise (Ripresa) del norvegese Joachim Trier che descrive giovinezza, crisi e successo di uno scrittore e dei suoi amici. Siamo alla metà degli anni settanta e un gruppo di ragazzi sta scegliendo la strada per il passaggio dall’adolescenza alla maturità. C’è chi diventerà un autore scritture ci culto, chi navigherà ai limiti della fama, chi entrerà in una tranquilla vita borghese. E’ un film ben costruito, interessante nel cesello d’alcuni personaggi di sfondo, come lo scrittore famosissimo che rifiuta ogni mondanità; un personaggio che ricorda Jerome David Salinger, autore de Il giovane Holden (1951). Lo stile mescola suggestioni da film d’attualità con una scorrevolezza d’immagini molto moderna.