01 Luglio 2019
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54mo Karlovy Vary International Film Festival |
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sito web:http://www.kviff.com/en/homepage
Karlovy Vary, (in tedesco Karlsbad, letteralmente Terme di Carlo) è una città della Repubblica Ceca che trae il nome dall'imperatore Carlo IV di Lussemburgo che la fondò nel 1370. Oggi è una grande località termale, la principale delle tre che compongono il triangolo del benessere (le altre due sono Mariánské Lázně – cinematograficamente più nota col nome tedesco di Marienbad - e Františkovy Lázně). La città è posta a pochi chilometri dalla frontiera con la Germania per cui è una delle mete del turismo tedesco. Qui dal 1948, ma la fondazione data dal 1946, si tiene un Festival internazionale del cinema che è più importante nella Repubblica Ceca e uno dei maggiori appuntamenti cinematografici mondiali. Il programma propone ogni anno una dozzina di film che partecipano alla competizione, oltre a qualche altro fuori concorso.
L’edizione 2019 porta il numero 54 e presenta, nella sezione competitiva :
The August Virgin (La virgine d'agosto) di Jonás Trueba, Spagna.
Bashtata (Il padre) di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, Bulgaria / Greecia.
Polsestra (Sorellastra) di Damjan Kozole, Slovenia / Macedonia / Serbia.
Küçük şeyler (La bella indifferenza) di Kıvanç Sezer, Turchia
Lara di Jan-Ole Gerster, Germania.
Nech je svetlo (Che la luce sia) di Marko Škop. Repubblica Slovacca/Repubblica Ceca.
El hombre del futuro (L'uomo del futuro) di Felipe Ríos, Cila / Argentina.
Monsoon (Monsone) di Hong Khaou, Gran Bretagna.
Ma sai ke shao nü (Ritratto a mosaico) di Zhai Yixiang, Cina.
Oda sa wala (Ode al nulla) di Dwein Baltazar, Filippine.
Patrick (Patrick) di Tim Mielants. Belgio
To the Stars (Verso le stelle) di Martha Stephens
La sezione l’est dell’ovest riservata alle produzioni dei paesi meno conosciuti comprenderà:
Shpia e Agës (La casa di Agata) di Lendita Zeqiraj, Cossovo / Croazia / Francia / Albania.
Arest (Arresto) di Andrei Cohn, Romania.
Byk (Il Toro) di Boris Akopov, Russia.
Tiché doteky (Un certo tipo di silenzio) di Michal Hogenauer, Repubblca Ceca/ Olanda / Lettonia.
Akher Ziyarah (Lultima visita) di Abdulmohsen Aldhabaan, Arabia Saudita..
Mamonga di Stefan Malešević, Serbia / Bosnia Herzegovina / Montenegro.
Moi dumki tikhi (I miei pensieri sono sileziosi) di Antonio Lukich. Ukraina.
Nova Lituania di Karolis Kaupinis, Lituania.
Görülmüştür (Approvato dal censore) di Serhat Karaaslan, Turchia, Germania, Francia.
Skandinaavia vaikus (Silenzio scandinavo) di Martti Helde, Estonia / Francia / Belgio.
Hluché dni (Giorni silenziosi) di Pavol Pekarčík, Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca.
Zizotek di Vardis Marinakis, Grecia.
La sezione competitiva del 54 festival internazionale del cinema di Karlovy Vary si è aperta con due film che hanno vari elementi in comune. Monsoon (Monsone) del cambogiano Hong Khaou racconta il viaggio nella madrepatria di Kit, di nazionalità inglese, ma di origini vietnamite, che decide di visitare, per la prima volta il suo paese natale. Sposato e con due figli, ma con forti pulsioni omosessuali, parte con il proposito di trovare un luogo ove spargere le ceneri dei suoi genitori. Approfitta del viaggio per una lunga serie di incontri con amanti occasionali e, cosa particolarmente importante, per mettere alla prova e meglio conoscere sé stesso. La macchina da presa indugia a lungo sul volto e sul corpo del protagonista svelando come quelli che un tempo erano considerati nemici per antonomasia della cultura occidentale, siano diventati partner importanti del commercio e del turismo del nostro mondo. Ciò che più conta sono gli sguardi e i silenzi, momenti di un confronto fra oriente e occidente in cui i due mondi di integrano e influenzano reciprocamente.
L’altro titolo, La virgen de Agosto (La vergine di Agosto) dello spagnolo Jonàs Trueba, ha per protagonista Eva, una giovane che vuole avere un figlio e si aggira nelle torride giornate di agosto nelle vie della capitale spagnola incerta fra tentazioni lesbiche e amori eterosessuali Alla fine, forse, riuscirà a rimanere incinta ma senza alcuna speranza di far del partner occasionale il suo compagno di vita. Anzi, se una relazione riuscirà a stabilirla sarà con la figlia adolescente dell’uomo. Anche in questo caso ciò che più conta sono i silenzi e le immagini estena, quelle di una città asfissiata dal caldo e resa quasi deserta dall’esodo dei madrileni. Un deserto che riflette e amplifica quello che opprime i protagonisti e dilata le loro incertezze sessuali. (U.R.)
La serata inaugurale della cinquantataquatresima edizione del KVIFF di Karlovy Vary ha voluto preparare alla magia di un festival che si prospetta interessante sia quale proposta cinematografica che attraverso vari incontri con addetti ai lavori dei vari attori che questo mondo aiutano a crearlo. Oltre ai bellissimi effetti visivi che da anni caratterizzano l’inaugurazione, quest’anno si sono aggiunti i ballerini acrobatici che hanno creato splendide coreografie appesi a trapezi. Ma il momento maggiormente atteso era la consegna del Globo di cristallo a Julianne Moore per il suo contributo al Cinema Mondiale, un premio alla carriera meritato. Terminata questa parte più mondana, è stato presentato l’ultimo film dell’attrice, il primo coprodotto col marito e regista Bart Freundlich. After the Wedding (Dopo il matrimonio, 2019) è il remake del ben riuscito dramma Dopo il matrimonio (Efter brylluppet, 2007) della danese Susanne Bier e dimostra subito di avere un fin troppo elevato livello di sudditanza con quanto realizzato dalla cineasta. In questa occasione si segue la responsabile di un orfanotrofio indiano sull’orlo della bancarotta, che viene a sapere che la sua organizzazione è in lizza per ricevere una grande donazione da una ricca imprenditrice americana, costringendola a tornare a New York, dove si trova ad affrontare quel passato che aveva cercato di dimenticare. Cambiano il sesso del direttore (nell’originale uomo), lo sfondo (da Copenhagen a New York) ma null’altro, con una certa spiacevole sensazione del già visto. Il matrimonio della figlia della ricca signora è occasione per un insieme di scene fin troppo melodrammatiche, con uno sviluppo che tende più alla telenovela da piccolo schermo che non al dramma esistenziale. Le scene realizzate in India sono molto convenzionali e non riescono a creare vere emozioni, anche la scelta del ragazzino affezionato alla direttrice che continua con lei a dialogare oltreoceano non funziona come dovrebbe: poco si intende dell’orfanatrofio, della sua vita, del messaggio di speranza. Non è il caso di dire quale sia il segreto che viene alla luce e, tutto sommato, è anche poco importante per lo sviluppo del film. Julianne Moore è come sempre molto brava e dimostra grande capacità nel porsi in ombra della vera protagonista, la donna coraggiosa che deve affrontare un capitolo della sua vita per lei doloroso. Michelle Williams non demerita le sue quattro candidature all’Oscar, ma con questo film difficilmente riuscirà ad essere proposta per una quinta statuetta. La sceneggiatura non premia Billy Crudup il cui personaggio è fin troppo marginale nello sviluppo narrativo. Bart Freundlich dimostra i limiti di sempre, non riuscendo a scrollarsi di dosso la sua militanza televisiva che condiziona molto il suo modo di narrare. Film decoroso ma non entusiasmante che nelle interpreti ha il vero punto di forza.
F.F.
Shpia e Agës (La casa di Aga, 2019) - Kosovo, Croazia, Francia, Albania – ha inaugurato la rassegna East to West di quest’anno con un film al femminile che segna l'esordio di Lendita Zeqiraj dietro la macchina da presa; ricrea in maniera molto verista il vibrante mondo delle sue energiche protagoniste in cui il flusso di storie, il suono del canto e il rozzo umorismo non possono mascherare il sottotono oscuro del passato della guerra del loro paese e le sue resistenti tensioni etniche: impossibile dimenticare, soprattutto in un lasso di tempo così breve. Lendita Zeqiraj, 47 anni nativa di Pristina, conosce bene i drammi che possono proliferare nel suo Kosovo; la visione attraverso gli occhi di un ragazzo l’aveva già bene utilizzata in Fence (2018), corto in cui ragazzina vuole un cucciolo ed è osteggiata da tutti; quando un rom si presenta alla loro porta con il cane randagio gli adulti concordano nel non accettarlo: ben presto la discussione diviene uno scontro di generazioni, conflitto tra credenze tradizionali e nuovo modo di vivere contemporaneo. Qui un gruppo eterogeneo di donne vive in una remota località di montagna. L'unico elemento maschile in casa è Aga, di nove anni, figlio di una delle donne. Quando accade qualcosa di imprevisto, difficile da gestire, sarà lui a trovare una soluzione.
F.F.
Nova Lituania (Lituania) raccontando un geografo lituano che, prevedendo lo scoppio della guerra in Europa, ha l'idea, per salvare il suo paese, di farne una colonia realizzando, in caso di occupazione un massiccio esodo verso la cosiddetta "riserva Lituania". Propone la sua utopia a una delle persone più importanti dello stato, il primo ministro che sa condizionare il Presidente. In un primo momento l'interlocutore respinge l'idea, ma con i primi sentori del conflitto e il l'infarto utilizzato dal Presidente per usarlo come capro espiatorio cambia idea. L’ormai ex primo ministro ritorna dal geografo, lo persuade a rivelare il suo piano e offre il suo aiuto. Mentre trasforma i suoi sogni in realtà, sua moglie Veronika non trova alcun modo per diminuire la sua solitudine. Bel film in bianco e nero che potrebbe parere utopico come l’idea del suo personaggio principale, rappresenta l’opera prima del trentenne di Vilnius Karolis Kaupinis. Dopo un paio di ottimi corti, in questa sua avventura è riuscito a coinvolgere praticamente a costo zero i più noti attori lituani che hanno creduto in questa rara produzione low cost in cui è coinvolto solo il loro paese: uno sforzo non indifferente se si pensa che il film non è affatto povero bensì molto curato anche in ambientazioni d’epoca e ricostruzioni più che credibili. Protagonista Aleksas Kazanavicius, attore noto a livello internazionale, che dona grande umanità a chi per salvaguardare la propria idea è disposto a rinunciare a tutto.
F.F.
Akher Ziyarah (L’ultima visita) viene dall'Arabia Saudita e utilizza un incontro di famiglia come sfondo: Il film adotta un approccio realistico alla discussione sulle tradizioni islamiche mentre esamina la vera natura dell'amore paterno: è un’attenta analisi sulle divisioni spesso insanabili tra chi vive in contesti rurali e chi nella più permissiva Riyadh. Conosciuto soprattutto come autore televisivo, Abdulmohsen Aldhabaan ha maturato la sua esperienza di regista con vari corti e un paio di titoli per il piccolo schermo. Prima di dedicarsi al cinema quale autore, ha lavorato come giornalista e critico cinematografico in Arabia Saudita. Il taglio narrativo è scarno, senza fronzoli e dà la sensazione che, conoscendo bene i meccanismi della cronaca, abbia saputo meglio raccontare una realtà sociale mai volendo giudicare. Il film è raccontato in uno stile realista e inizia con un viaggio seguito nella sua normalità, ma mentre si sta recando ad un matrimonio, chi guida viene a sapere che suo padre sta morendo. Cambia immediatamente strada e si dirige subito con il figlio adolescente Waleed nella piccola città che il padre non ha abbandonato in tutta la sua lunga vita. Le consuetudini, le tradizioni, i diktat religiosi rigorosamente rispettati che incontrano in questo ambiente iniziano a influenzare negativamente la relazione tra il figlio che non accetta il cambiamento ed il genitore che immediatamente si adegua.
Hluché dni (Giorni silenziosi, 2019) - Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca - fino ad ora il migliore film visto ed è un bel esempio di come la rassegna East to West possa essere contenitore di grandi temi trattati in maniera approfondita senza per questo perdere mai ritmo e godibilità. I protagonisti delle quattro storie qui raccontate hanno tutti i loro sogni e desideri. Ma hanno anche qualcos'altro in comune: vivono ai margini della società in un mondo privato chiuso dall'esterno - ancor più dal momento che non riescono a sentire. Le realtà raccontate dal regista Pavol Pekarčík – al suo attivo il bellissimo documentario Zamatoví teroristi (Velvet Terrorist, 2014) – sono anche condizionate dalla povertà accettata come voluta dal destino e mai realmente combattuta. Sandra è una calciatrice quattordicenne che sogna di incontrare Ronaldinho di cui indossa la maglia, Marian ama vedere i treni, Alena e Rene condividono le emozioni dell’ultima che è incinta, i tre fratelli Roman Kristian e Carmen non sono seguiti dai genitori e giocano in luoghi pericolosi quali case abbandonate attraversando fiumi su passerelle insicure e salendo in alto su alberi senza nessun tipo di precauzione. Si parteggia per questi giovanissimi, veri eroi che cercano con poco o senza aiuto di potere realizzare i loro sogni, soprattutto di non essere ostaggi del proprio handicap. In un film che prende parte al KVIFF sia alla sezione fiction che al documentario, Pavol Pekarčík lascia liberi i suoi giovani attori e riesce a creare abilmente trame che riflettono le loro vite interiori. (F.F)
Lara ha compiuto sessant’anni e ha alle spalle una radiosa carriera di funzionaria pubblica che le ha consentito di far studiare il figlio da pianista concertista, tuttavia è tutt’altro che felice. Nella prima immagine la vediamo mentre sta per suicidarsi gettandosi dalla finestra. È salvata da un intervento della polizia che la vuole testimone per una perquisizione in casa di un suo vicino. Inizia in questa maniera drammatica il film del tedesco Jan-Ole Gerster che radiografa una giornata di questa ex-manager che assisterà, fra le altre cose, al debutto del figlio in un importante recital pianistico. È il classico film per attori che offre alla famosa Corinna Harfouch un’occasione per mostrare la sua arte recitativa. È un quadro psicologico ricco di sfumature e di occasioni per graduare stati d’animo complessi.
Nech je svetlo (Che la luce sia) di Marko Skop è ambientato in un piccolo villaggio rurale Slovacco durante le festività di fine anno. Qui fa ritorno Milan che è andato a lavorare in Germania e, pensano i suoi concittadini, si è fatto una piccola fortuna. Ha cambiato auto e ritorna pieno di regali per la moglie e i tre figli. Le invidie che suscita sono molte e le cose peggiorano quando il suo figlio maggiore risulta coinvolto in un gruppo paramilitare ispirato dal parroco del paese di cui faceva parte anche un giovane morto in circostanze misteriose. La situazione peggiora quando i cattivi decidono di passare all’azione aggredendo l’intera famiglia dell’uomo. Un film di ben scarso interesse se non fosse per la denuncia della connivenza fra religiosi e reazionari, in questo senso si potrebbe anche parlare di posizione antieuropeista della chiesa (Milan ha fatto fortuna in Germania e anche per questo è osteggiato) mentre i paramilitari e il prete che li protegge sono abbarbicati ai valori e le tradizioni nazionali.
Kucuk seyler (La bella Indifferenza) del turco Kivanc Sezer racconta la storia di Onur, manager di un’industria farmaceutica che si stanca del lavoro, si licenzia e farsi una famiglia normale. Rompe con la moglie che non vuole figli, ma dopo si riappacifica. È una storia di una Turchia moderna che ha superato la fase rurale per immergersi in una modernità esagerata che ha ben poco a che fare con le tradizioni del paese. Un film denso di riferimenti e momenti assai poco tipici.
De Patrick (Patrick) si sviluppa in una location davvero originale: un camping nudista di proprietà del padre del protagonista in cui si alternano ospiti occasionali e persone che vi hanno sistemato roulotte e casette prefabbricate. Patrick è un bravo ebanista che costruisce seggiole e mobili su modelli di famosi architetti. Un giorno scopre che qualcuno gli ha rubato un martello a cui era particolarmente affezionato. Si mette a cercarlo ostinatamente al punto di quasi trascurare la morte del vecchio padre da tempo gravemente ammalato. Il film racconta le vicende di molti ospiti del camping che alternano adulteri, risse furiose a vite senza vestiti. Il film svolta in poliziesco con Patrick che rischia di essere accusato di omicidio, ma è assolto dalla polizia stessa. È un film in cui conta più l’ambiente che i protagonisti, anche se molti di loro presentano psicologie piuttosto originali. Da notare la bella interpretazione di Kevin Janssens che riesce a dare al protagonista uno spessore di grande rilievo. (U.R.)
Zizotek (idem, 2019) - Grecia – del regista Vardis Marinakis segna il suo ritorno a Karlovy Vary dove era stato presente con Mavro livadi (Campo nero, 2009). Si è laureato alla National Film School di Londra dove ha studiato con il regista inglese Stephen Frears e ama raccontare storie che trattano le emozioni e l'umanità anche più drammatica attraverso immagini e dialoghi rasserenanti. Le sue immagini sono poetiche, molto intime, capaci di fare condividere le emozioni dei suoi personaggi. Non racconta di un mondo felice ma, nello stesso tempo, riesce a non drammatizzare mai quanto mette in scena. Realizza pochi titoli perché di cinema impegnato difficilmente si vive ed il suo lavoro è soprattutto quello di creativo e regista di spot pubblicitari. In questa occasione realizza un’opera riuscita, capace di dialogare col pubblico in maniera bella e diretta. Il giovane protagonista è davvero bravo e, soprattutto, riesce sempre ad essere spontaneo. Dopo che a nove anni Jason viene abbandonato dalla madre a un festival folkloristico, si rifugia in una capanna nel mezzo della foresta appartenente a un solitario. La donna probabilmente è una prostituta e forse non lo ha solamente perso. Sebbene all'inizio l'uomo non lo accolga bene, una serie di circostanze alla fine li porterà a formare una famiglia - qualcosa di cui entrambi sono mancanti da molto tempo. Alla fine il ragazzo potrebbe tornare a casa, ma…
Tiché doteky (Un certo tipo di silenzio) – Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Lettonia – è una coproduzione che include paesi che solitamente non collaborano assieme in progetti cinematografici. È stato girato in inglese a Riga alla fine del 2017. E’ basato su una storia vera, riguardante sette religiose in cui si uniscono persone anche di primo piano che accettano qualsiasi compromesso morale pur di portare avanti il loro credo. Sceneggiatura particolarmente bene scritta, lascia poco trapelare di quello che sarà lo scioccante finale: solo attraverso l’interrogatorio da parte della Polizia si hanno tracce del segreto che unisce i vari personaggi. Opera prima del dotato Michal Hogenauer, si sviluppa con un taglio teatrale e rende più drammatica la vicenda con momenti di una certa violenza nel confronto del minore. Si parla di rapimenti di un migliaio di bambini, di oltre 100.000 persone coinvolte in vari paesi: il tutto con un completo silenzio legato ai ‘piaceri’ che questa setta riusciva ad ottenere. Mia va a vivere con una famiglia molto ricca come au pair: telefonino ultimo modello, carta di credito per le sue spese, la chiave elettronica che fa funzionare ogni cosa nella sofisticata villetta. Dopo il primo momento di entusiasmo, scopre che dietro un’apparente serenità vi sono regole familiari difficili da accettare: la violazione di una qualsiasi di esse porterà al suo immediato licenziamento. La giovane donna deve decidere se preservare la sua integrità o conformarsi a uno stile di vita che le è completamente estraneo e da cui non può più tornare indietro.
(F.F.)
In passato il cinema bulgaro ha attraversato un periodo di grande successo in cui si è proposto come uno dei più interessanti dell’est Europa. Riorna a quei momenti felici con Bashata (Il padre) firmato da una coppia di registi particolarmente brillanti: Kristina Grozeva e Petar Valchanov. La storia che raccontano è quella del pittore Vasili che ha appena perso la moglie che è stata la sua partner per lunghissimo tempo. Incapace di farsi una ragione di quanto successo e suggestionato da una vicina di casa decide ti ritornate a parlare con la consorte via telefono. È una decisione insensata e impossibile da realizzarsi a cui si oppone strenuamente il figlio Pavel che tenta in ogni modo di dissuaderlo. L’anziano continua a insistere sino a credere la cosa sia possibile. Il film ha qualche momento di lentezza, ma complessivamente è fra le proposte positive del festival anche grazie alla bravura dei due interpreti principali e per merito del filo di umorismo che lo attraversa.
Grande proposta anche quella dello sloveno Damjan Kozole che ha firmato Polsestra (Sorellastra) una storia di affetto di due ragazze che passano all’amicizia e la solidarietà, esseno quasi arrivate all’odio. Per varie ragioni sono costrette a vivere assieme a Lubiana, una per ragioni di lavoro, l’altra per motivi di studio che si riveleranno impraticabili. La più anziana è divorziata da un marito manesco e autoritario e sarà proprio la sorellastra a difenderla quando rischierà di essere picchiata dall’ex. E’ un film molto parlato in cui i dialoghi hanno la meglio sulle azioni, ma che riesce a darci un panorama realistico della gioventù slovena a cui si potrebbero aggiungere quelle macedone e serba, conteso fra una violenza crescente e una condizione di progressivo depauperamento.
Un padre e una figlia percorrono la Patagonia cilena all’insaputa l’uno dell’altra. Lui ha abbandonato da anni la famiglia per fare il camionista, lei è una boxeur dilettante e è stata ingaggiata per un incontro da cui uscirà sconfitta. Lui ha appena saputo dal suo capo che, dopo quel viaggio, sarà messo in pensione. La donna ha chiesto un passaggio ad un altro camionista e ora si appresta a ritornare a casa con il padre che non vede da molti anni e che durante questo viaggio ha incontrato casualmente. L’uomo, dopo una lunga vita di sacrifici, si sente male e – si intuisce – morirà per strada. La ragazza riesce quasi casualmente a stabilire un rapporto con lui, ma lo lascia per proseguire sulla sua strada. El hombre del futuro (L’uomo del futuro) del cileno Felipe Rios è la classica ricostruzione del rapporto interrotto genitore – figlio con in più la straordinaria interpretazione di Josè Soza, a cui si affianca e da spessore quella non meno forte della giovane Antonia Gies saisen.
Si affrontano temi genitoriali anche in Ma sai ke shao nu (Ritratto a mosaico) del cinese Zhai Yixiang. Qui, saltando non pochi passaggi narrativi si racconta di una quattordicenne che gli amici vorrebbero innamorata e sposata. Lei da quell’orecchio non ci sente e, anche se è incinta, non vuole accasarsi. Coinvolta in una serie di furti finisce in un istituto a mezzo fra un riformatorio e un collegio, un’istituzione che esaspera ancor più la sua voglia di libertà e l’amore per l’indipendenza del vivere dei giovani. Il film procede in maniera non lineare, ma ha buon gioco nel testimoniare la tensione e l’ansia che regnano fra i giovani immersi in una società che non assolve, legalmente, ai loro bisogni materiali e copre di retorica i loro ideali. Un film importante più per ciò che tenta di dire che per quanto dice. (U.R.)
Byk (Il toro) - Russia – Boris Akopov dopo una brillante carriera da ballerino classico sui palcoscenici di teatri del livello del Bolshoj, si è diplomato alla scuola di cinema VGIK di Mosca e ha realizzato questa sua opera prima tecnicamente attenta, piacevolmente girata ma assolutamente priva di interesse con una storia vista mille volte ed una sceneggiatura che non ha mai un guizzo che la distacchi dalla monocordità. Siamo alla fine degli anni ’90 in una Russi, dopo URSS, con una libertà che permette la nascita di molte bande di malavitosi, giovanissimi che accettano di uccidere e di essere uccisi pur di staccarsi da una realtà che va loro stretta. Ragazze attratte anche loro dal denaro facile ma incapaci di affrontare evoluzioni drammatiche della realtà, ragazzi sanguinari che si trasformano in affettuosi fratelli che hanno timore per l’incolumità dei loro cari ma, soprattutto, temono che i più piccoli seguano le loro tracce. A questo si aggiungono premurose mamme chiocce, anche dei malavitosi, che accettano la loro esistenza fuori dalla legge perché vivono in maniera più agiata. Il capo della banda è Anton Bykov, noto come il Toro, che finisce alla stazione di polizia dopo una rissa con un gruppo criminale rivale. Riesce a evitare la prigione solo grazie all'intervento di un temuto boss della mafia, che per questo piacere gli chiede in cambio di sporcarsi davvero le mani. Finale più che prevedibile dopo uno sviluppo che non dona originalità. Basato su di una storia vera, è fotocopia di tanti film già visti in passato.
Moi dumki tikhi (I miei pensieri sono silenziosi, 2019) – Ucraina – è opera prima firmata dall’ucraino Antonio Lukich che dimostra grandissimo talento nella costruzione di situazioni tragicomiche donando spesso liberatorie risate. Lo si vede addirittura inghiottito dalle sabbie mobili e subito dopo alle prese con due ottusi poliziotti che lo hanno salvato ma che, non capendo la funzione di quel lavoro, lo rinchiudono in carcere. Il protagonista è un ventiduenne sognatore, più poeta che uomo coi piedi piantati in terra. Il suo lavoro è quello di raccogliere suoni - ad esempio tutti i tipi di sonorità emesse dagli uomini quali risate, borbottii o pianti – e ‘venderli’ a fabbricanti di videogame ma anche nel mondo della pubblicità.
Quando arriva un'offerta generosa di lavoro che potrebbe aiutarlo a realizzare il suo sogno di trasferirsi in Canada, non ci pensa due volte e si propone di registrare i suoni degli animali più rari dei Carpazi che vivono in zone molto isolate. Il giovane è talmente lontano dal mondo reale, che diventa subito simpatico al pubblico. Il peggio è che nel viaggio viene accompagnato dalla madre tassista che lo tratta come un bimbo deficiente e, in questa maniera, non lo lascia crescere per davvero. Il giovanissimo filmaker ha scelto come protagonista Aleksas Kazanavicius che, attraverso l’altezza di oltre due metri e la magrezza di per se è grottesco, ma sa anche giocare con bravura su questo limito che spesso rappresenta un limite per la sua attività (F.F.)
Görülmüştür (approvato dalla censura, 2018) – Turchia, Germania, Francia - Zakir lavora in una prigione come censore. Ogni giorno legge decine di lettere, oscurando accuratamente tutto ciò che è considerato potenzialmente pericoloso, qualcosa che potrebbe nascondere messaggi segreti. La sua vita si divide tra lavoro, frustrazione dovuta alla dispotica madre, la felicità quando frequenta un corso serale di scrittura. Una sera, il docente dice loro creare una storia basandosi su di un elemento di fantasia. Una fotografia inserita in una delle buste per lui diventa la fonte di ispirazione e interrompe la sua routine: il suo interesse per la donna sconosciuta nella foto diventa un'ossessione. Al suo debutto nel lungometraggio il turco Serhat Karaaslan realizza uno studio psicologico di un individuo che gradualmente perde la sua integrità personale e professionale mentre rimane intrappolato nel suo mondo fantastico. Non sa più scindere realtà dalla fantasia, per lui questa donna diventa un amore proibito, una persona a cui fa fare e pensare cose da lui sognate o temute. La bravura di Karaaslan sta nel creare un mondo in cui finzione e realtà convivono, in cui è impossibile scindere le due entità. Il film è molto bene realizzato e anche tutti i personaggi minori, dalla madre a tutti i colleghi di lavoro, sono delineati con bravura. Su ogni cosa un tono da commedia che rende meno drammatico il contesto narrativo. Il trentenne attore televisivo Berkay Ates è assolutamente convincente quale secondino che rischia la pazzia, con lo sguardo attonito che racconta bene della sua progressiva discesa in un mondo che fagocita la sua ‘normalità’.
Skandinaavia vaikus (Silenzio scandinavo, 2019) – Estonia, Francia, Belgio – è l'impegnata opera prima di Martti Helde che utilizzando il bianco e nero, ambientando ogni cosa in panorami claustrofobicamente innevati e limitando le possibilità dell’azione all’interno di un auto crea una storia con tre parti, due personaggi e un'ossessione: impedire al passato di prendere il sopravvento. Sono monologhi molto lunghi – i primi due attorno alla mezz’ora – in cui i protagonisti si confessano, cercano un dialogo che dall’ascoltatore viene negato con una sconfortante freddezza. Questo studio minimalista di una relazione tra fratelli e sorelle viene raccontato in tre versioni diverse della stessa situazione narrativa, chiedendosi se il tempo può sanare le ferite del passato. Questa incomunicabilità è come una lastra di ghiaccio che permette di vedere ma non di ‘toccare’ le due entità che difficilmente riusciranno – o davvero vorranno – eliminare i tanti punti di incomprensione. Un fratello e una sorella attraversano un silenzioso paesaggio invernale, ma dopo anni in cui mai si sono incontrati, hanno difficoltà a comunicare. Bella l’idea, ma non sempre lo sviluppo psicologico è convincente, lasciando fuori dal film lo spettatore che assiste al dramma ma non riesce ad esserne davvero coinvolto. Rea Lest e Reimo Sagor ci mettono molto impegno, ma la prova è superiore alle loro capacità di recitazione. Questo on the road lascia la triste sensazione che il film dal taglio teatrale delude se i dialoghi cadono nel banale, sempre. (F.F.)
Sonya, una donna di mezza età, vive gestendo una piccola e malandata impresa di pompe funebri filippina e badando alle esigenze del vecchio padre. A lei Dwein Baltazar ha dedicato Oda sa Wala (Ode al nulla), un film zeppo d’inquadrature fisse che ne radiografa la miseria della vita. Rinchiusa quasi per intero fra le mura della casa-ufficio a contatto con clienti miserabili e un padrone di casa al limite del mafioso, quando questi chiede un amento dell’affitto la donna piomba in una depressione senza via d’uscita. Prima, per alleviare la sua solitudine si era ridotta ad avere per compagnia la salma, depositata e non più reclamata, di una vecchia forse uccisa da maldestri rapinatori. Nulla è chiaro nel film in cui molte cose sono appena accennate e ben pochi personaggi definiti in modo netto. Probabilmente il regista voleva descrivere una storia di solitudine sino alla pazzia, ma se questo era l’intento il risultato appare ben poco definito. Le immagini dei dolenti che tirano su prezzo di bare e cestini di fiori delineano un mondo miserabile emarginato economicamente e insensibile umanamente.
To the stars (Verso le stelle) dell’americana Marha Stephens ci riporta negli Usa degli anni sessanta, appena terminata la guerra di Corea che ha lasciato molti segni. È in un paese profondamente intollerante in cui si svolge il dramma di una ragazzina angariata dai compagni di scuola, ma difesa da un’ultrà giovane che si rivelerà non meno disturbata. È una stagione incerta marcata da relazioni che sfiorano l’omosessualità e suscitano la violenza degli altri, un ritratto impietoso della provincia contadina profonda in cui non c’è spazio per la tolleranza. Un film apprezzabile per essere rigorosamente girato in bianco e nero ad aggiungere una nota di realismo ad una ricostruzione per altri versi apprezzabile.
Con quest’opera si è chiusa la rassegna dei film in concorso che quest’anno non ha presentato titoli di forza assoluta, ma nel complesso si è ben difesa rispetto all’insieme della programmazione, confermando l’interesse e la forza di questo festival.
(U.R.)
Arest (Arresto, 2018) – Romania – Il film basato unicamente sulla violenza subita da un ragazzo mite nella Romania di Nicolae Ceauşescu - arrestato per presunta sovversione e torturato da un criminale sadico nella cella di una prigione - ha ottenuto un certo riscontro positivo dopo la sua vittoria nel Festival della Transilvania, ma probabilmente avrà difficoltà ad essere distribuito anche per la sua mediocrità, per la pedante narrazione, perché fare vedere è più facile che non raccontare. Sembra quasi che si voglia svelare un segreto, vale a dire che la tirannia ha torturato ed assassinato migliaia di persone impunemente. Ha un unico messaggio portato avanti: l'uomo può essere orribilmente brutale soprattutto con i più deboli spiegato in oltre due ore di prevedibili abusi verbali e fisici che parrebbero essere proposti solo per il piacere di offrire uno spettacolo violento senza cercare di penetrare in un mondo in cui a certe persone tutto era permesso. Il taglio televisivo impoverisce ancora di più l’interesse, gli attori non sono sempre convinti di quello che fanno e dicono. Proposto come film, difficilmente potrà ambire a grosso successo, se diviso in 2/3 parti trasmesso in televisione potrebbe avere maggiore audience. A capo di questo progetto produttivo c’è il quarantasettenne Andrei Cohn qui al suo secondo lungometraggio dopo il non memorabile Acasã la tata (Casa di papà, 2015). Dirige con mestiere, ma la sceneggiatura da lui scritta non riesce mai realmente a convincere. Gli attori hanno poche possibilità di dare spessore ai propri personaggi.
Mamonga (idem, 2019) – Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro – è la parola inventata da un bimbo di 8 anni, Lukas, per definire il camion, veicolo che lui ama profondamente. Diretto dal trentenne serbo Stefan Malesevic – con una militanza nel cinema di dieci anni e la realizzazione di 6 corti ed un documentario – è un film affascinante ma non sempre facile da seguire per certi preziosismi visivi e per una sceneggiatura che gioca con se stessa creando incertezze in chi vorrebbe capire tutto. Debutta con un trittico formalmente distintivo che colloca i protagonisti in ambientazioni diverse mentre lottano per venire a patti con le conseguenze delle loro decisioni. Il singolare concetto di Malešević comporta l'uso frequente di lunghe inquadrature a grandangolo e lavora con una struttura narrativa libera che sfida lo spettatore a partecipare attivamente alla unione più logica dei pezzi del mosaico. Vediamo i personaggi che si mischiano tra loro e, in questa maniera, si è costretti a stare attenti a tutti i particolari per riuscire venire a capo del puzzle. Oltretutto, il film è ricco di personaggi difficili da inquadrare, che possono sviare per la loro ambiguità. Giovane, bella e sicura di sé, Jovana lavora dietro il bancone in una panetteria nella piccola città dove vive assieme al padre. Marko, ragazzo particolarmente timido, è scritto nel suo futuro che diventerà camionista come il padre. Ma gli eventi di una notte cambiano entrambe le loro vite, portandoli ad un futuro che fino a poco prima era difficile neppure da immaginare.
(F.F.)
I PREMI
A Karlovy Vary è appena terminata l’edizione numero 54 del Festival del cinema, e già si sta pensando intensamente a cosa potere inserire in più nella successiva. Ormai da anni, l’impegno maggiore è quello della ricerca, della didattica, del contatto con filmaker ed attori in Talk o Masterclass: quest’anno spesso è stato necessario utilizzare il teatro da oltre 1200 posti.
Nella Sezione Ufficiale, come in East to West, i film in concorso sono stati 12: una numero limitato per salvaguardare la qualità con il tentativo di proporre produzioni diverse.
Meritatamente ha vinto il Globo di cristallo della Sezione Ufficiale il film bulgaro/greco Bashtata (Il padre) diretto da Kristina Grozeva e Petar Valchanov, un dramma familiare che parla dei cellulari, di un mondo che potrebbe essere quello del nostro futuro anche nella sfera dell’inconscio, dell’anima. Un uomo non ancora anziano ha appena perso la moglie e non ne ha pace. Quando una donna al suo funerale proclama che la morta ha chiamato il suo cellulare, il vedovo cerca l'aiuto di un noto sensitivo per contattare la defunta. Suo figlio tenta di farlo ragionare, ma l’uomo insiste fino a quando non si svelerà grottescamente l’arcano.
Il Premio speciale della giuria lo ha ottenuto il tedesco Lara (idem) di Jan-Ole Gerster, sicuramente tra i favoriti della vigilia per il tipo di sviluppo narrativo e l’interpretazione della bravissima Corinna Harfouch che ha ottenuto il premio per la migliore attrice. Il film è piaciuto anche alla Giuria Ecumenica che lo ha prescelto. Lara è una ex musicista che ha appena compiuto sessant'anni, per lei è un giorno molto speciale che culminerà in un concerto per pianoforte, fondamentale per la carriera di suo figlio. Il ragazzo rimane sfuggente ed i ripetuti tentativi di sua madre di arrivare fino a lui non sono coronati da successo.
Il premio per la migliore regia è stato assegnato al belga Tim Mielants per Patrick, una delicata storia ambientata in un camping naturista gestito dai genitori del ragazzo, che vive chiuso in un suo mondo e che deve affrontare la realtà dopo la morte del padre.
In East to West, la sezione che caratterizza il KVIFF per la scelta di film nel ambito di produzioni anche di paesi poco noti in ambito cinematografico, è stato premiato un discreto film russo, Byk (Il toro) diretto dal ex ballerino classico Boris Akopov, interessante e, per certi versi, ancora drammaticamente attuale. Nella Russia della fine degli anni ’90 vi è decadimento economico e morale che lascia spazio alla nascita di bande criminali locali che reclutano giovanissimi. Il capo di uno di questi gruppi, dopo un furto non riuscito, riesce a evitare la prigione grazie all'intervento di un temuto boss della mafia, che in cambio gli chiede un pericoloso ‘piacere’.
Il Premio speciale della giuria è stato assegnato al bel film ucraino Moi dumki tikhi (I miei pensieri sono silenziosi) del debuttante Antonio Lukich. E’ un viaggio fatto da un ragazzo che raccoglie suoni poi utilizzati per videogame e spot pubblicitari, accompagnato dalla madre tassista nei Carpazi per riuscire a registrare il verso di uccello molto raro,che dimora solo sulle montagne Transcarpatiche dell'Ucraina. Bello l’approfondimento del rapporto tra i due che impareranno finalmente a conoscersi. (F.F.)
Sezione ufficiale
Competizione
Globo di cristallo (25.000 Dollari USA)
Bashtata (The Father – Il padre) di Kristina Grozeva, Petar Valchanov (Bulgaria, Grecia)
Premio speciale della giuria (15.000 dollari USA)
Lara (Lara) di Jan-Ole Gerster (Germania)
Premio al miglior regista
A Tim Mielant per il film Patrick (Patrick ) (Belgio)
Premio alla miglior attrice
A Corinna Harfouch per la sua interpretazione nel film Lara di Jan-Ole Gerster (Germania)
Premio al miglior attore
A Milan Ondrík per la sua interpretazione nel film Nech je svetlo (Che la luce sia) di Marko Škop (Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca)
Menzione special della giuria
A La virgen de agosto (La vergine d’agosto) di Jonás Trueba (Spagna)
Nuovo promettente talento ad Antonia per la sua interpretazione nel film El hombre del futuro (L’uomo del futuro) di Felipe Ríos (Cile, Argentina)
Easy to West
Gran premio East of the West (15.000 dollari USA)
Byk (Il Toro) di Boris Akopov (Russia)
Premio special della giuria (10.000 dollari USA)
Moi dumki tikhi ( I miei pensieri sono silenziosi) di Antonio Lukich (Ucraina)
Film documentari
Concorso
Miglior documentario (5.000 dollari USA)
Surematu (Immortale) di Ksenia Okhapkina (Estonia, Lettonia,)
Premio special della giuria
Kongzi meng di: Mijie Li (Cina)
Premio del pubblico patrocinato dalla rivista PRÁVO
Jiří Suchý – Lehce s životem se prát (Jiří Suchý - Affrontare la vita con facilità) di Olga Sommerová (Repubblica Ceca)
Globo di cristallo per l’eccezionale contributo artistico al mondo del cinema
Julianne Moore, USA
Patricia Clarkson, USA
Premio del Presidente del festival per il contributo alla cinematografia ceca
Vladimír Smutný, Repubblica Ceca
I premi non ufficiali
PREMIO FIPRESCI
La virgen de agosto (La vergine d’agosto) di Jonás Trueba (Spagna)
GIURIA ECUMENICA
Lara (Lara) di Jan-Ole Gerster (Germania)
menzioni a Nech je svetlo (Che la liuce sia ) di Marko Škop (Repubblica Slovacca, Repubblica Ceca)
PREMIO FEDEORA
Görülmüştür (Approvato dal censore) di Serhat Karaaslan (Turchia, Germania, Francia).
PREMIO EUROPA CINEMA LABEL
Skandinaavia vaikus (Silenzio scandinavo) di Martti Helde (Estonia, Francia, Belgio)
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