09 Ottobre 2012
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7mo Festival Internazionale del Film di Roma |
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Dura quasi due ore, e sono due ore di divertimento assicurato, il nuovo film di P. J. Hogan, Mental (Mentale), presentato fuori concorso al Festival e non si tratta di un divertimento becero o accattivante, ma di un’intelligente satira su presunte malattie mentali e su comportamenti perbenisti. P. J. Hogan, il regista australiano che nel 1994 esordì col film di successo Le nozze di Muriel (1995) e che si affermò negli Usa con Il matrimonio del mio migliore amico (1997), è tornato in Australia per girate in tutta libertà un film che pensava da tempo. Mental, infatti, è un film sulla sua famiglia, pieno di ricordi d’infanzia, e volutamente politically incorrect. Interpretato da quella che si può definire la sua musa, Toni Collette, e da attori americani (Liev Schreiber, Anthony LaPaglia), il film descrive la vita di famiglia in una piccola contrada australiana, Dolphin Heads. Con cinque figlie, la maggiore Coral, ha soltanto tredici anni, e con una madre che sembra essere fuori di testa, i Muchmoore sono lo zimbello del paese. Il padre, un politico donnaiolo eternamente assente conosce appena i nomi delle figlie. E’ preoccupato unicamente della sua carriera. Quando le voci sulla follia della moglie si fanno più frequenti, decide di rinchiuderla nell’ospedale psichiatrico di un’altra città, ma per le figlie e per tutto il vicinato la donna è partita in vacanza. Poi, facendo salire sulla sua auto una stramba autostoppista con un cane, decide di assumerla come governante. La giovane è sicuramente più pazza della signora Muchmoore, che sognava soltanto di avere una famiglia felice e compatta come quella del film Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music, 1965) di Robert Wise e ne canticchiava le canzoni di Rodgers e Hammerstein. Shaz, l’autostoppista, invece è risoluta e fredda, aggressiva quando serve e decisamente anticonvenzionale. Non solo, ma ha un conto aperto col marito, cacciatore di squali, del quale è alla ricerca. Rivoluzionerà la vita del paese, insegnando alle cinque bambine che loro sono normali e che pazzi sono gli altri. P. J. Hogan, che ha due bambini autistici e una sorella bipolare, ne sa abbastanza di disturbi mentali e ha girato il film come avvolgente sarabanda, una commedia con spunti grotteschi che scorre imperterrita senza cadute di tono, sempre attenta a punzecchiare falsi perbenismi e a indicare che la verità rifiuta gli estremismi. E’ molto più facile trovarla a metà strada tra realtà e follia.
In concorso un film del tutto degno di essere presentato a un Festival anche se si presenta problematica la distribuzione nelle sale. E’ Mai morire del messicano Enrique Rivero, 36 anni, che nel 2008 esordì con Parque via (Via del parco) vincendo il Pardo d’oro al Festival di Locarno. Racchiusa in 83 minuti la storia di Chayo, che torna nella sua città natale, Xochimilco, per occuparsi della madre malata, è un’incursione nella natura e nei sentimenti. Figlia minore, Chayo sente il dovere di prendersi cura della madre morente. Lo fa seguendo ritmi naturali. Vede la morte come completamento della vita, e divide le giornate con la madre, spesso all’aria aperta nella campagna attorno alla città che era stata la capitale del periodo precolombiano. Più che un racconto, un’attesa della fine, ma un’attesa partecipata e vissuta che la figlia sembra celare alla madre con la quale condivide il piacere della luce, di albe e tramonti pieni di calore, che sono e sono stati il paesaggio della loro vita. Per quanto prossima alla fine, la vita dell’anziana scorre lentamente. E’ l’oggi che l’interessa: del dopo si occuperanno gli altri. Con molta misura, il regista coglie attimi della vita quotidiana mentre modella il personaggio di Chayo, donna forte, cosciente delle proprie radici e della conoscenza che le viene dalla saggezza dei suoi predecessori. Le due donne sono interpretate da Margarita Saldaña e Amalia Salas.
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