33° Festival Internacional de Cine de Guadalajara - Pagina 4

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33° Festival Internacional de Cine de Guadalajara
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multiproprietàTiempo compartido (Multiproprietà, 2018) è un bellissimo esempio della migliore commedia messicana, che fa sorridere e ridere con intelligenza. Le gag non mancano, ma un ottimo substrato un po’ sadico rende ogni cosa ancora più godibile. L’autore è il molto amato Sebastián Hofmann che con questo film ha ottenuto al Sundance Film Festival il premio della Giuria nella sezione sceneggiature drammatiche. Molto giovane, è qualcosa più che una speranza, è un autore emergente di cui l’opera prima, il riuscito horror Halley (2012), era stato selezionato in oltre cinquanta Festival vincendo una decina di premi. E qui gioca con bravura tra il comico e la tragedia raccontando una storia che potrebbe sembrare banale canovaccio per un film commerciale trasformandolo in un titolo da ricordare. Contrappone l’aria festosa di un apparentemente lussuoso albergo, che ha anche dei bungalow, in una multiproprietà, con il forte disagio di due uomini che vivono intensi (e tragicomici) momenti di autentico dramma anche perché, di fronte a situazioni estreme, non ottengono la comprensione delle rispettive mogli mettendo così in crisi anche i rapporti di coppia. I toni virano al grottesco, ma non nascondono gli intensi momenti di disagio dei protagonisti. Ben scelto il cast e molto ben disegnati anche i personaggi minori – compreso il sadico maestro di tennis – che contribuiscono a meglio definire uno sviluppo mai banale, spesso con un pizzico di genialità. Due mariti vivono momenti difficili per situazioni drammatiche che li coinvolgono in vicende quasi tragiche. Uno è ospite di un resort e deve condividere l’appartamento con un’altra famiglia causa un errore dell’albergo. L’altro è un umile operaio che lavora sottoterra in una lavanderia che appare come un inferno in cui tutti sono schiavi. Uniscono le forze in una crociata per salvare le proprie famiglie da un paradiso tropicale fittizio. Lo fanno dopo essersi convinti che una potente società americana delle multiproprietà, che ha appena acquisito questo enorme giocattolo e ha un piano per strappare loro i propri cari. Il finale è in linea con tutto quanto accaduto fino a quel momento, con un dramma tutto, o quasi, da ridere.
Mio fratelloMi hermano (Mio fratello, 2018) è un pretenzioso e per fortuna breve documentario firmato da Alana Simões, qui al suo secondo lungometraggio dopo il disastroso Del Vino al Ártico (Dal vino all'Artico, 2014). Utilizzando a man bassa materiale realizzato dalla famiglia protagonista della storia che vorrebbe raccontare, aggiunge pedanti e pesanti sviluppi sul desiderio del figlio maggiore di diventare ballerino classico. A questo punto, riprese più o meno artistiche di passi di danza, esercizi interminabili allo specchio con, ogni tanto, la voce della madre adottiva che sottolinea la bravura del ragazzo – ma anche dell’altro che si è unito alla famiglia sei anni dopo – e che paventa timori sulla capacità dei due di divenire autentici fratelli. La noia pervade questi settanta minuti molto pretenziosi che fanno immaginare quanto male possano fare certi prodotti al cinema. Alexey è nato in Russia ed è adottato da Gabriella, una donna spagnola single. Il rapporto tra i due è molto gratificante ma la donna capisce che al bambino manca la compagnia di un fratello. Sei anni dopo, Gabriella adotta un altro bambino, questo nato in Siberia: il suo nome è Matteo. Nel corso di 9 anni, Alexey e Matteo dimostrano col loro esempio cosa significa costruire reciproci legami di fiducia, nonostante le difficoltà sia col mondo esterno sia con quello familiare che devono affrontare. Banale, molto banale