10 Marzo 2018
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33° Festival Internacional de Cine de Guadalajara |
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Restos de viento (Folate di vento, 2017) è sicuramente il più bel film presentato fino ad ora in un Festival, peraltro, con varie proposte interessanti. Opera seconda di Jimena Montemayor Loyo – la prima, En la Sangre (Nel sangue, 2012) era stata particolarmente brutta e priva di interesse – scritta e diretta in maniera efficace, tra dramma, fiaba, crisi esistenziale, serenità in un gioco ben equilibrato in cui ogni tassello è posto con attenzione e bravura per creare un notevole mosaico di emozioni. Scorre nella normalità della vita quotidiana dove ogni cosa può trasformarsi in gioia o dolore, trasforma un potenziale melodramma in godibile film in cui alcune scene sono molto bene pensate e realizzate. Il finale è un bellissimo gioco visivo in cui vari bimbi si muovono su di un prato circondato di alberi creando una coreografia in cui sono presenti gioco, sogno, allegria, amicizia ma anche solo accennata attrazione tra i due sessi. Sono tre minuti di ottimo cinema che dimostrano la bravura nel descrivere, fare vivere, la psicologia dei due fratelli e dei loro amici. Carmen, depressa e incapace di prendersi cura dei suoi figli, attende il ritorno di suo marito. Daniel, il più piccolo, riceve una visita inaspettata che va oltre i limiti della realtà e dell’immaginazione, un essere grottesco in forma di spirito arboreo che, forse, rappresenta il padre di cui sente la mancanza. Anna, la figlia maggiore vive un rifiuto nei confronti della vita adulta e si chiude in un mondo claustrofobico che la difende anche da sé stessa. Insieme cercheranno di accettare ciò che non possono vedere, vivendo la sensazione che mai più rivedranno il padre. Sono una famiglia alla deriva che dovrà crescere assieme cancellando le proprie paure per sopravvivere. Molto azzeccata la scelta del cast con la quarantenne argentina Dolores Fonzi perfetta mater dolens, Ruben Zamora spirito capace di rasserenare il figlio, Paulina Gil convincente Anna e Diego Aguilar, qui al suo primo ruolo cinematografico, spontaneo ed assolutamente credibile.
Ocho de cada diez (Otto su dieci, 2017) è il numero di omicidi impuniti a Città del Messico. Questo è il dato su cui si basa il film di Sergio Umansky Brener, regista esperto che in questa occasione ha creato un’opera molto discontinua in cui la seppure ottima presenza di Noé Hernández – attore messicano presente al Festival in altre due produzioni – rende accettabile. In altra parole: un pasticcio inconcludente con una sceneggiatura semplicistica fatta di luoghi comuni e situazioni viste mille volte (polizia non presente, poliziotto duro ma forse onesto, altro buono e corruttibile, prostituta che spera di unirsi nuovamente alla figlia), il film si pasce di melodramma condito da qualche nudo che sfocia in scene di sesso un po’ grottesche. Città del Messico ha sicuramente problemi di delinquenza ma non a questi livelli da far west dove è più facile essere uccisi che sopravvivere. Sicuramente uno dei film meno interessanti presentati al Festival. Aurelio e Citlali si incontrano in un sordido hotel a Città del Messico nel momento più buio della loro vita. L’uomo ha appena seppellito suo figlio assassinato in pieno giorno davanti a molti testimoni che tacciono, la donna ha abbandonato sua figlia con il violento padre per cercare di costruire per sé un futuro migliore. Aurelio vuole che la polizia faccia il suo lavoro e catturi gli assassini. Citlali cerca di ottenere un documento di identità che le consenta di recuperare la figlia. La ricerca della giustizia si trasforma presto in un desiderio di vendetta. A poco a poco l'amore cresce tra loro e si consolida quando si crea un'alleanza che permette di aiutare Aurelio a farsi giustizia sommaria.
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