33° Festival Internacional de Cine de Guadalajara

Stampa
PDF
Indice
33° Festival Internacional de Cine de Guadalajara
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6
Pagina 7
Pagina 8
Pagina 9
Pagina 10
Pagina 11
Tutte le pagine

ficg-webSito del festival:http://www,ficg.mx/33/index,php/

Il Festival Internacional de Cine de Guadalajara (FICG) è fra i più importanti dell'America Latina. È stato fondato nel 1986 da alcuni registi ispanici fra i quali Guillermo del Toro, trionfatore agli Oscar e che sarà presente durante un paio di giornate. La rassegna cinematografica, della durata di una settimana, assegna come premi principali i Mayahuel,  rappresentanti una divinità azteca che fece dono dell'amore al genere umano. Il Mayahuel  alla carriera quest’anno verrà assegnato a Carlos Saura, regista spagnolo nato sotto l’ala di Luis Buñuel, importante esponente della cultura del suo paese, grande amico di Salvador Dalì nonché eccezionale fotografo. Ottantaseienne, ha diretto oltre 40 titoli specializzandosi negli ultimi anni come autore di documentari di arte e di musica ma anche realizzando un ottimo contributo su Renzo Piano e il suo rapporto con la città di Santander che dovrebbe essere distribuito quest’anno anche in Italia.

È il festival più importante in America Latina con un'offerta per l'industria cinematografica che gli ha permesso di posizionarsi ad ottimi livelli internazionali, Vuole essere un forum per la formazione, l'istruzione e lo scambio creativo tra professionisti, critici appartenenti alla cinematografia internazionale e studenti dell'America Latina. Pur avendo valenza internazionale ed in grado di attirare migliaia di spettatori e di addetti ai lavori, nelle sezioni competitive ufficiali è rappresentato esclusivamente il cinema iberoamericano e il cinema messicano.  Legato culturalmente all’Università di Guadalajara, dà molta importanza agli incontri pubblici con i registi e gli attori dei film in concorso, ospitando anche eccellenze del Sud America appositamente invitate. Grazie all’interesse per una vasta selezione di film divisi tra fiction e documentari, sono presenti molti distributori anche europei che stillano contratti sia nel Mercado de Cine Iberoamericano che nel Guadalajara Film Market & Producers. Il premio Mezcal è dedicato al cinema messicano e ha grande importanza anche per la composizione della giuria multiculturale con trenta studenti di corsi di Cinema, Scienze della comunicazione e Media audiovisivi del Messico, Stati Uniti, America centrale e Sud America. I membri analizzano 22 film per scegliere il vincitore del premio, il più importante assegnato dal FICG. Oltre all’opera, vengono premiati anche il miglior regista, l’attrice e l’attore più rilevanti e la migliore fotografia. Il premio della critica, FIPRESCI, è legato a questa rassegna e segnala il film più interessante non solo per la realizzazione ma anche per i temi trattati. Più tradizionali le rassegne – tutte a concorso - del Lungometraggio fiction Iberoamericano con 21 titoli, Lungometraggio Iberoamericano con 19 titoli, Cortometraggio Iberoamericano con ben 39 titoli da visionare. Il Premio Maguey si discosta dagli altri perché propone titoli non sempre facili con un cinema alternativo ben rappresentato da 18 titoli in concorso di varie parti del mondo: è l’unico non specificatamente con prodotti Iberoamericani. Oltre ai film ed agli incontri col mondo del cinema, grande importanza è data a manifestazioni collaterali che comprendono musica, arte. Teatro e quant’altro, in un moltiplicarsi di incontri che permettono a Guadalajara, notissima per l’Università e per la Fiera del Libro, di parlare e fare cultura. Non mancheranno, come tradizione, anche varie serate di Gala votate alla beneficenza.
Ecco i titoli per sezione:
Premio Maguey
Al Berto - Portogallo – 2017 - Regia Vicente Alves do Ó
Alguma Coisa Assim – 2017 -  Brasile/Germania – Regia Esmir Filho, Mariana Bastos
Allure – Canada – 2017 – Regia Carlos Sanchez, Jason Sanchez
Anchor and Hope – Spagna/Gran Bretagna – 2017 – Regia Carlos Marqués-Marcet
Antonio Lopez 1970: Sex Fashion & Disco – USA – 2017 – Regia James Crump
Aos Teus Olhos – Brasile – 2017 – Regia Carolina Jabor
Coby – Francia – 2017 – Regia Christian Sonderegger
Disobedience – Stati Uniti/Irlanda/Gran Bretagna – 2017 – Regia Sebastián Lelio
Los días más oscuros de nosotras – Messico – 2017 – Regia Astrid Rondero
M/M – Canada/Germania - 2018 – Regia Drew Lint
Miss Rosewood – Stati Uniti/Danimarca – 2017 – Regia Helle Jensen
My Days of Mercy – Stati Uniti/Gran Bretagna – 2017 – Regia Tali Shalom-Ezer
Novitiate – Stati Uniti – 2017 - Regia di Margaret Betts
Tinta Bruta – Brasile – 2018 – Regia Filipe Matzembacher, Marcio Reolon
Premio Mezcal
Documentari
¿Dónde estás? - Messico, Costa Rica - 2018 – Regia Maricarmen Merino Mora
Ayotzinapa, el paso de la tortuga – Messico – 2018 – Regia Enrique García Meza
Donde se quedan las cosas - Messico, República Dominicana -  2018 – Regia Daniela Silva Solórzano
Hermanos – Messico/Gran Bretagna – 2017 – Regia Laura Plancarte
Lejos del sentido – Messico – 2018 – Regia Olivia Luengas Magaña
Mi hermano – Messico/Spagna – 2018 – Regia Alana Simões
Rita, el documental – Messico – 2018 – Regia Arturo Díaz Santana
The Best Thing You Can Do with Your Life – Germania/Messico – Regia Zita Erffa
Un filósofo en la arena – Messico/Spagna – 2017 – Regia Aarón Fernández, Jesús Muñoz
Film narrativi
Cría puercos – Messico – 2018 – Regia Ehécatl García
Cuernavaca – Messico – 2017 – Regia Alejandro Andrade Pease
Juan y Vanesa – Messico – 2018 – Regia Ianis Alexis Guerrero
La incertidumbre – Messico – 2017 – Regia Haroldo Fajardo
La negrada – Messico – 2017 – Regia Jorge Pérez Solano
Mente revólver - Messico – 2017 – Regia Alejandro Ramírez Corona
Nadie sabrá nunca - Messico – 2018 – Regia Jesús Torres Torres
Ocho de cada diez - Messico – 2018 – Regia Sergio Umansky Brener
Restos de viento - Messico – 2017 – Regia Jimena Montemayor Loyo
Tiempo compartido – Messico/Olanda – 2018 – Regia Sebastián Hofmann
Traición - Messico/Olanda – 2018 – Regia Ignacio Ortiz Cruz


DUgPTXKU8AAVoIJIl FICG è un Festival aperto ai giovani in una città universitaria tra le più importanti della Iberoamerica, con la capacità di coinvolgere una metropoli di oltre 5 milioni di abitanti. La manifestazione è ormai nella storia, un working in progress col desiderio di essere parte trainante della vita culturale locale e non solo. Fondato come semplice Borsa del cinema da un gruppo di entusiasti, tra cui l’allora giovanissimo Guillermo Del Toro, è divenuto una realtà da 226 titoli presentati di cui ben 116 trovano posto nelle sezioni in concorso. Il Premio Mezcal è il più amato e seguito, con la scelta controcorrente per un Festival di questo peso di affidare la selezione dei titoli vincenti a 30 studenti di università di cinema e spettacolo che rappresentano la realtà dei paesi del Centro e Sud America, con l’aggiunta di un giurato proveniente dalla Catalogna, paese ospite quest’anno. Dieci film di fiction, altrettanti documentari scelti tra la migliore e più recente produzione messicana, presentando un bel panorama di quanto possa offrire la cinematografia di un paese che punta molto sul cinema. Una buona proposta la offre Juan y Vanesa (Giovanni e Vanessa, 2018) diretto dal noto attore Ianis Guerrero qui al suo primo lungometraggio dopo avere realizzato tre corti. La storia è interessante ma non originalissima, in alcuni passaggi di sceneggiatura appare un po’ troppo votato a una creazione del dramma vicino al melodramma, ha comunque una certa freschezza dovuta anche alla buona prova offerta dai protagonisti Fabian Robles e Karen Martí. Quando Juan, un camionista di 33 anni viene a sapere che sua figlia è appena nata decide di diventare più responsabile per tentare di riconquistare anche la moglie e la famiglia. Abbandona l'alcol e ottiene un'ultima possibilità per mantenere il suo lavoro alla guida di un camion destinato alle grandi distanze. In una stazione di servizio, lungo la strada, incontra Vanessa, una Lolita dai capelli rosa scolpiti che lo convince a portarla con sé. È un’adolescente ribelle che ha molti segreti, una ragazza che cerca di trovare sé stessa fuggendo da una realtà che non la soddisfa. Le tentazioni sono sempre alla porta, ma anche la voglia, soprattutto per l’uomo, di trovare in sé la forza di divenire quello che gli altri vorrebbero da lui.
indexRita, el documental (Rita, il documentario, 2018) è il ritratto estetico-politico di un'epoca molto importante per il Messico letta attraverso la biografia dell'artista messicana Rita Guerrero (1964-2011) che si è espressa in svariati campi, principalmente nella musica e nel teatro anche se, come attrice, era più che una promessa. Era la cantante del gruppo rock Santa Sabina, di cui era la figura più importante, l’autentico vessillo anche ideologico. Si era impegnata con vari movimenti sociali, ma soprattutto come assoluta sostenitrice del movimento di liberazione nazionale zapatista e della sinistra elettorale. Morì a 46 anni a causa del cancro al seno. La sua voce e la sua musica che hanno segnato una generazione, sono proposte ed apprezzate tuttora un po’ in tutto il Centro America. Diretto forse con un po’ troppa partecipazione emotiva da Arturo Díaz Santana – qui alla sua opera prima – riesce comunque a raccontare e fare conoscere una figura artistica e culturale che ha segnato il modo di intendere la musica nel suo paese, riuscendo anche a far apprezzare quella Barocca che era riuscita ad imporre negli ultimi anni della sua vita. Belli i documenti originali usati per fare conoscere il suo mondo e la sua realtà – ma si esagera un po’ nell’uso di spezzoni di concerto – assolutamente di maniera le varie interviste che dipingono Rita in maniera fin troppo agiografica.


6072472970668dde2252d74bd124e5bdC’era molta attesa per Traición (Tradimento, 2018), il nuovo film di Ignacio Ortiz Cruz, uno degli autori più influenti in Iberoamerica che con suoi titoli ha vinto a Karlovy Vary, a Malaga, a Guadalajara, Biarritz ma anche a Trieste e Lima. Nato a Oaxaca, ha inserito un inizio autobiografico per raccontare un mondo che lo ha aiutato ad amare la settima arte. Il suo protagonista lavorava in un cinema ambulante, come ha fatto lui per anni. È questa la parte la più interessante, ricca com’è di umanità ma anche di momenti particolarmente importanti per conoscere un mondo che sembra quasi pura fantasia, anche se in Messico ha resistito in Messico fino gli anni ’90. La vicenda è un po’ nebulosa ed alcune figure, come le prostitute che lavorano in un cabaret, sono presentate senza un minimo approfondimento. Se si pensa che una di loro – madre della ragazza che ama e odia quello che sa non essere il suo vero padre ma che l’ha cresciuta come tale – è la figura attorno alla quale gira la storia, si capisce la debolezza di tutta la narrazione. Prova maiuscola di Juan Manuel Bernal, attore cinquantenne capace di dare credibilità alle varie età dell’uomo tanto positivo quanto negativo, ma lui non è il film, è solo un suo tassello e non può reggere sulle sue spalle il peso di un prodotto interesante ma imperfetto. Felix è un bambino che vive in un paesino di 43 anime che si chiama San Francisco e che da sempre ha sognato di visitare l’omologa città statunitense. Da ragazzino si unisce a un piccolo cinema ambulante che diventa suo dopo la morte dell’anziano proprietario. Ormai adulto, conosce una ragazza in casa di appuntamenti, si ferma lì e l’aiuta anche quando rimane incinta di una figlia di cui non è il padre. La ragazza abbandona sia la neonata sia lui che, dopo anni tranquilli, diventa un boss della criminalità. La figlia, ormai adulta, Misela, ha un sogno che non sarà mai realizzato. Ha ricordi emotivi di situazioni con la madre che mai ha realmente vissuto e vuole sapere dove è sepolta. Ha bisogno dell’uomo anche se teme che lui, a suo tempo, abbia ucciso sua la madre. Finale al sapore di melodramma.
Il meglioLo mejor que puedes hacer con tu vida (Il meglio che tu possa fare con la tua vita, 2018) è un documentario assolutamente riuscito realizzato dalla giovanissima film-maker Zita Erffa mettendo in gioco se stessa e la scelta del fratello prediletto di divenire Legionario di Cristo, da molti considerata una pericolosa setta di cui si è parlato pochi giorni orsono per molestie nel seminario di Gozzano in provincia di Novara: è stato chiesto rinvio a giudizio dell’ex rettore dopo la denuncia di tre studenti della struttura chiusa dal 2016. La congregazione fu fondata da Marcial Maciel Degollado a Città del Messico il 3 gennaio 1941. Le sue Costituzioni furono approvate dalla Santa Sede nel 1983 e, successivamente riviste dopo il Capitolo Generale Straordinario del 2014. Furono nuovamente approvate dalla Santa Sede nel novembre 2014. C’è da dire che Maciel è stato riconosciuto colpevole di violenze su minori e che aveva due famiglie con vari figli. Senza volere giudicare ma denunciando certe realtà, la regista riesce a costruire un documentario molto efficace e, per questo, disturbante. Alla fine della scuola il fratello entra nei Legionari di Cristo per diventare sacerdote e scompare dalla vita della famiglia. Possono vederlo una volta all'anno e i suoi superiori leggono le lettere che gli scrivono. Da bambini andavano nei campi estivi dell'Ordine, ed erano ambedue felici per quei momenti ludici. La ragazza si chiede perché li hai scelti come nuova famiglia. Passano otto anni prima che vada al monastero in Connecticut e vede come pregano, mangiano, prendono lezioni. Incontra il fratello a cui fa ulteriori domande che la rendono conscia di un vero e proprio plagio.


multiproprietàTiempo compartido (Multiproprietà, 2018) è un bellissimo esempio della migliore commedia messicana, che fa sorridere e ridere con intelligenza. Le gag non mancano, ma un ottimo substrato un po’ sadico rende ogni cosa ancora più godibile. L’autore è il molto amato Sebastián Hofmann che con questo film ha ottenuto al Sundance Film Festival il premio della Giuria nella sezione sceneggiature drammatiche. Molto giovane, è qualcosa più che una speranza, è un autore emergente di cui l’opera prima, il riuscito horror Halley (2012), era stato selezionato in oltre cinquanta Festival vincendo una decina di premi. E qui gioca con bravura tra il comico e la tragedia raccontando una storia che potrebbe sembrare banale canovaccio per un film commerciale trasformandolo in un titolo da ricordare. Contrappone l’aria festosa di un apparentemente lussuoso albergo, che ha anche dei bungalow, in una multiproprietà, con il forte disagio di due uomini che vivono intensi (e tragicomici) momenti di autentico dramma anche perché, di fronte a situazioni estreme, non ottengono la comprensione delle rispettive mogli mettendo così in crisi anche i rapporti di coppia. I toni virano al grottesco, ma non nascondono gli intensi momenti di disagio dei protagonisti. Ben scelto il cast e molto ben disegnati anche i personaggi minori – compreso il sadico maestro di tennis – che contribuiscono a meglio definire uno sviluppo mai banale, spesso con un pizzico di genialità. Due mariti vivono momenti difficili per situazioni drammatiche che li coinvolgono in vicende quasi tragiche. Uno è ospite di un resort e deve condividere l’appartamento con un’altra famiglia causa un errore dell’albergo. L’altro è un umile operaio che lavora sottoterra in una lavanderia che appare come un inferno in cui tutti sono schiavi. Uniscono le forze in una crociata per salvare le proprie famiglie da un paradiso tropicale fittizio. Lo fanno dopo essersi convinti che una potente società americana delle multiproprietà, che ha appena acquisito questo enorme giocattolo e ha un piano per strappare loro i propri cari. Il finale è in linea con tutto quanto accaduto fino a quel momento, con un dramma tutto, o quasi, da ridere.
Mio fratelloMi hermano (Mio fratello, 2018) è un pretenzioso e per fortuna breve documentario firmato da Alana Simões, qui al suo secondo lungometraggio dopo il disastroso Del Vino al Ártico (Dal vino all'Artico, 2014). Utilizzando a man bassa materiale realizzato dalla famiglia protagonista della storia che vorrebbe raccontare, aggiunge pedanti e pesanti sviluppi sul desiderio del figlio maggiore di diventare ballerino classico. A questo punto, riprese più o meno artistiche di passi di danza, esercizi interminabili allo specchio con, ogni tanto, la voce della madre adottiva che sottolinea la bravura del ragazzo – ma anche dell’altro che si è unito alla famiglia sei anni dopo – e che paventa timori sulla capacità dei due di divenire autentici fratelli. La noia pervade questi settanta minuti molto pretenziosi che fanno immaginare quanto male possano fare certi prodotti al cinema. Alexey è nato in Russia ed è adottato da Gabriella, una donna spagnola single. Il rapporto tra i due è molto gratificante ma la donna capisce che al bambino manca la compagnia di un fratello. Sei anni dopo, Gabriella adotta un altro bambino, questo nato in Siberia: il suo nome è Matteo. Nel corso di 9 anni, Alexey e Matteo dimostrano col loro esempio cosa significa costruire reciproci legami di fiducia, nonostante le difficoltà sia col mondo esterno sia con quello familiare che devono affrontare. Banale, molto banale


la negradaLa negrada (Il negro, 2017) è più interessante per il tema trattato che non per un valido sviluppo narrativo. È il primo lungometraggio messicano sulla comunità afro-messicana, girato interamente con autentici abitanti di diversi villaggi della Costa Chica di Oaxaca. 350.000 erano gli schiavi provenienti dall’Africa, quasi un milione e mezzo i discendenti che attualmente si riconoscono in questa origine. Il loro più grave problema è che, non avendo una propria lingua o una cultura ben definita, sono una minoranza non riconosciuta e protetta. Il termine negrada non vuole essere offensivo ed è stato creato da loro stessi quale difesa culturale nei confronti dei bianchi che li umiliavano con epiteti difficili da sopportare. Validissima l’idea di fare conoscere la loro esistenza, poco interessante la sceneggiatura scritta dal regista, Jorge Pérez Solano, degna più una telenovela che non di un film di impegno sociale. A questo va aggiunto che il lodevole desiderio di ottenere naturalezza, utilizzando attori non professionisti, è a scapito di un’accettabile resa nella costruzione dei personaggi. Già nel suo primo lungometraggio, La tirisia (2014) aveva dimostrato di mettere in primo piano l’impegno senza curarsi troppo della messa in scena – era basato sulle storie di centinaia di donne costrette a vendere i propri figli per sostenere le loro famiglie e tenersi il proprio compagno – anche allora di scarso livello. La speranza è che prima o poi riesca a realizzare un prodotto che si avvicini alla sufficienza. Sullo sfondo di un villaggio in cui si sopravvive grazie a qualche bagnante che mangia nei ristoranti sul mare o per le semplici attività commerciali, si sviluppa una storia melodrammatica incapace di coinvolgere. Giovanna e Maddalena condividono Neri, un uomo che ha saputo conquistarle. La malattia della prima darà all’altra la forza per riprendere la propria vita in mano rinunciando a lui.
un filosofo en la arena-149261653-largeUn filósofo en la arena (Un filosofo nell’arena, 2017) è un documentario sicuramente ben realizzato e basato su di una sceneggiatura costruita in maniera corretta ma che punta troppo su scene ad effetto per conquistare il pubblico alle tematiche che vuole difendere. I realizzatori, Aarón Fernández e Jesús Muñoz, sono professionali con buona esperienza in questo tipo di film. Hanno realizzato un’opera a favore della tauromachia che utilizza varie volte scene violente di macelli o di disumani allevamenti intensivi per dimostrare che nella corrida il toro è un combattente e muore con dignità, lottando fino all’ultimo, sicuramente una vita fortunata. Il distinguo non è sulla tesi difesa ma come essa venga presentata senza proporre un vero contraddittorio. Vi sono varie brevi interviste a persone prese dalla strada; peccato che i contrari a questa Arte tanto discussa e, forse, discutibile facciano sempre la figura di perfetti idioti. Dopo essere andato in pensione il filosofo francese Francis Wolff, un grande fan della corrida, decide di intraprendere un viaggio attraverso la Francia, il Messico e la Spagna con due cineasti messicani che non sanno nulla di quel mondo che sembra avere i suoi giorni contati. Durante varie settimane incontrano diversi personaggi con cui riflettono sul rapporto degli esseri umani con gli animali e la natura, sul significato di questo itinerario, che è la vita, e sul nostro rapporto con la morte.
La incertitudeLa Incertidumbre (L’incertezza, 2018) è il film di minore qualità presentato fino ad ora. Diretto da Haroldo Fajardo qui al suo terzo titolo, cerca di trovare una sua esteriorità da d’essai attraverso l’uso di un bianco e nero che non riesce mai ad essere importante per la narrazione. Script confuso, interpreti poco credibili, musiche scontate e a tratti insopportabili. Gerardo è il vocalist di una rock band che è stata invitata a suonare al Festival di Interference, il più importante del paese. La notorietà che questo invito comporta immerge Gerardo in una spirale di eccesso e autodistruzione.


cria puercos-906166680-largeCría puercos (Alleva maiali, 2018) gioca con discreti risultati tra sviluppi da commedia e da dramma ben mixati tra loro. Si ride ma sullo sfondo c’è sempre incombente la possibilità che tutto abbia sviluppi meno rasserenanti. Scritto e diretto da Ehécatl García, impegnato anche quale docente in scuole di cinema statali, ha uno sviluppo interessante anche se la sceneggiatura tende ad occuparsi quasi unicamente della protagonista, tratteggiando in maniera sbrigativa l’immagine degli altri personaggi e riducendo l’impatto di quanto raccontato. Brava e credibile Concepción Márquez quale donna anziana in crisi che ritrova la gioia di vivere grazie ad una porcellina di un mese che le viene affidata. La storia non è sempre credibile, ma riesce comunque ad emozionare e coinvolgere. Esmeralda ha perso interesse per la vita a causa della lunga malattia e la morte di suo marito, A questo aggiunge l'assenza di suo figlio che lavora in un call center a Città del Messico e non le telefona mai. Vive da sola in una piccola città, chiusa a chiave in casa rifiutando l’aiuto dei vicini che le vogliono bene come ad una madre. Tutto cambia quando le viene affidata, per portarla all’età adulta, una dolce maialina che per lei diviene figlia e compagna di vita. Tutto bene fino a quando l’animale non viene portato in un allevamento per ingravidarla: torna ma è cambiata, sofferente, incapace di accettare questo ruolo di madre. Quando nascono i piccoli, la donna dovrà prendere una difficile decisione.
Lejos-del-sentidoLejos del sentido (Lontano dal proprio essere, 2018) è un riuscito documentario che coinvolge emotivamente in una storia drammatica ma non tragica diretto da Olivia Luengas Magaña. Una giovane donna, affetta da una malattia che la rende psicologicamente debole, lotta con sé stessa e con gli altri. Il film è stato pensato e realizzato da una giovane fotografa e film-maker nata a Guadalajara che ha una solida preparazione acquisita attraverso studi fatti in Francia, Spagna e Messico. Attualmente è responsabile di Phonocular, uno studio audiovisivo dedicato alla produzione di documentari. Con dolcezza, ironia ma anche drammaticità, coinvolge emotivamente nei patimenti di una persona conscia della sua diversità che cerca di tenere a freno, non sempre riuscendovi. L’opera ci trasporta nel mondo interiore di Liliana, dove le sue emozioni prendono forma e in cui non tutto è coerente. La sua fortuna è stata di avere genitori combattivi come lei e che la hanno sempre trattata alla stregua di una persona completamene normale – viene da domandarsi che cosa sia realmente la normalità – e le permettono di fare una vita soddisfacente messa un po’ in discussione quando la madre è colpita dall’Alzheimer. Tra il 2010 e il 2013 due ospedali psichiatrici sono stati chiusi in Messico: in entrambi la giovane Liliana era stata ricoverata a causa del suo disturbo di personalità borderline. Quando aveva 3 anni aveva sofferto di encefalite virale; 15 anni dopo aveva scoperto che qualcosa non andava nella sua testa. Lei e la sua famiglia cercarono le cause della instabilità emotiva e dei frequenti ricoveri per tentativi di suicidio. Data la minaccia di una ricaduta e senza l'opzione dell'internamento, lei e i suoi genitori affrontano uno schema terapeutico a casa. La famiglia mette in discussione la normalità e pone domande contestando la società che etichetta ogni cosa in maniera semplicistica non permettendo ai diversi di esistere e di potere difendere i propri diritti di esseri umani.


donde se quedan las cosasDonde se quedan las cosas (Dove stanno le cose, 2018) di Daniela Silva Solórzano in realtà è stato realizzato nel 2015 ma solo ora, dopo montaggi e rimontaggi, riesce ad arrivare agli spettatori. Pur essendo un prodotto realizzato con discreto budget – ottimo l’autore delle immagini buon professionista messicano – è privo di qualsivoglia interesse, con una scelta di inserire tutto il possibile per allungare un po’ il brodo e superare gli indispensabili 60 minuti per ottenere un certo tipo di contributi. È vero, racconta il personaggio del nonno, persona sicuramente ricca che ha passato tutta la sua vita a raccogliere e collezionare qualsiasi cosa lo incuriosisse, che potremmo definire originale e che nulla buttava, ma la regista di lui ha la voglia di usare qualsiasi cosa abbia tra le mani ma l’originalità, quella no, proprio non ce la ha. Ed allora inquadrature artistiche - poco consoni ad un documentario – in cui conta l’estetica e non il contenuto, miriadi di esibizioni della nonna, foto di famiglia in cui non si specifica chi sia rappresentato, le cose su cui puntare – ad esempio l’impossibile polvere della luna o denti che lui ritiene preistorici – sono viste in maniera marginale. Vacanze estive in famiglia, la Pentolaccia e quant’altro per raccontare la sua vita più che omaggiare il nonno. È vero, la regista lo intervista varie volte, ma gli pone domande che poco aiutano a capire meglio il personaggio. Lui si sottopone felice all’interrogatorio della nipotina preferita, ma risponde in maniera convenzionale a domande banali. Il finale con una band – mai vista nelle altre immagini – che si esibisce nel salotto di casa, è il tocco perfetto per chiudere in maniera ancora più incoerente un documentario da dimenticare. Probabilmente è stato selezionato anche perché la famiglia è nota e vive in questa regione. Racconta dell’ultranovantenne Federico Solórzano, collezionista che si reputa paleontologo, e i suoi ultimi mesi di vita nella casa a Guadalajara. La sua collezione comprende oltre 500 mila oggetti di ogni tipo. Sua nipote cerca di capire il suo mondo ricco di fantasie poco scientifiche senza riuscire a trasmettere le sue eventuali scoperte. Uniche immagini interessanti gli oggetti che si disperdono alla morte dell’uomo, venduti per pochi spiccioli a rigattieri.
Poster TheOpenReel CUERNAVACA-960x1266Cuernavaca (2017) è opera prima di Alejandro Andrade Pease, attivo da anni nel mondo dei corti e nelle produzioni televisive. Coinvolge anche una grande attrice quale Carmen Maura, ha tra gli interpreti alcuni tra i più amati attori messicani ma non riesce mai a creare un film interessante, capace di coinvolgere o, quantomeno, che non urtare troppo. Immagini in carta patinata che raccontano il nulla, imbarazzanti scene di Carmen Maura che si dibatte ubriaca sul pavimento, personaggi assolutamente mal disegnati e, a tratti, tragicamente divertenti per la loro grottesca presenza. Prodotto e scritto dal regista, è stato visto lo scorso anno alla Festa del Cinema di Roma in prima mondiale. Girato nel 2015, ha avuto bisogno di una post produzione di un paio di anni per conquistare una forma narrativa accettabile: ma il cinema è un’altra cosa. Oltretutto, la sua scelta di unire attori di buon livello a gente presa dalla strada e con un protagonista, il ragazzo, alla sua prima interpretazione cinematografica, ha reso ancora più difficile il compito di assembramento. La vita di Andy, dieci anni, cambia improvvisamente quando sua madre rimane ferita in una rapina all’interno di shopping center. Ora non ha più nessuno che possa prendersi cura di lui ed è costretto a trasferirsi a Cuernavaca, nella casa della nonna paterna. Mentre la donna fa di tutto per tenerlo a distanza e sembra nascondere molti segreti, il ragazzo entra in contatto con il mondo tanto attraente quanto pericoloso del figlio del giardiniere. Decide di iniziare a cercare suo padre da solo, lo rintraccia attraverso un vecchio cellulare che trova in un cassetto e scopre in lui un uomo che gli vuole bene ma inaffidabile sperperatore di denaro al gioco. Tuttavia, è suo padre e lui lo accetta anche così.


restos-del-viento-copiaRestos de viento (Folate di vento, 2017) è sicuramente il più bel film presentato fino ad ora in un Festival, peraltro, con varie proposte interessanti. Opera seconda di Jimena Montemayor Loyo – la prima, En la Sangre (Nel sangue, 2012) era stata particolarmente brutta e priva di interesse – scritta e diretta in maniera efficace, tra dramma, fiaba, crisi esistenziale, serenità in un gioco ben equilibrato in cui ogni tassello è posto con attenzione e bravura per creare un notevole mosaico di emozioni. Scorre nella normalità della vita quotidiana dove ogni cosa può trasformarsi in gioia o dolore, trasforma un potenziale melodramma in godibile film in cui alcune scene sono molto bene pensate e realizzate. Il finale è un bellissimo gioco visivo in cui vari bimbi si muovono su di un prato circondato di alberi creando una coreografia in cui sono presenti gioco, sogno, allegria, amicizia ma anche solo accennata attrazione tra i due sessi. Sono tre minuti di ottimo cinema che dimostrano la bravura nel descrivere, fare vivere, la psicologia dei due fratelli e dei loro amici. Carmen, depressa e incapace di prendersi cura dei suoi figli, attende il ritorno di suo marito. Daniel, il più piccolo, riceve una visita inaspettata che va oltre i limiti della realtà e dell’immaginazione, un essere grottesco in forma di spirito arboreo che, forse, rappresenta il padre di cui sente la mancanza. Anna, la figlia maggiore vive un rifiuto nei confronti della vita adulta e si chiude in un mondo claustrofobico che la difende anche da sé stessa. Insieme cercheranno di accettare ciò che non possono vedere, vivendo la sensazione che mai più rivedranno il padre. Sono una famiglia alla deriva che dovrà crescere assieme cancellando le proprie paure per sopravvivere. Molto azzeccata la scelta del cast con la quarantenne argentina Dolores Fonzi perfetta mater dolens, Ruben Zamora spirito capace di rasserenare il figlio, Paulina Gil convincente Anna e Diego Aguilar, qui al suo primo ruolo cinematografico, spontaneo ed assolutamente credibile.
ochoOcho de cada diez (Otto su dieci, 2017) è il numero di omicidi impuniti a Città del Messico. Questo è il dato su cui si basa il film di Sergio Umansky Brener, regista esperto che in questa occasione ha creato un’opera molto discontinua in cui la seppure ottima presenza di Noé Hernández – attore messicano presente al Festival in altre due produzioni – rende accettabile. In altra parole: un pasticcio inconcludente con una sceneggiatura semplicistica fatta di luoghi comuni e situazioni viste mille volte (polizia non presente, poliziotto duro ma forse onesto, altro buono e corruttibile, prostituta che spera di unirsi nuovamente alla figlia), il film si pasce di melodramma condito da qualche nudo che sfocia in scene di sesso un po’ grottesche. Città del Messico ha sicuramente problemi di delinquenza ma non a questi livelli da far west dove è più facile essere uccisi che sopravvivere. Sicuramente uno dei film meno interessanti presentati al Festival. Aurelio e Citlali si incontrano in un sordido hotel a Città del Messico nel momento più buio della loro vita. L’uomo ha appena seppellito suo figlio assassinato in pieno giorno davanti a molti testimoni che tacciono, la donna ha abbandonato sua figlia con il violento padre per cercare di costruire per sé un futuro migliore. Aurelio vuole che la polizia faccia il suo lavoro e catturi gli assassini. Citlali cerca di ottenere un documento di identità che le consenta di recuperare la figlia. La ricerca della giustizia si trasforma presto in un desiderio di vendetta. A poco a poco l'amore cresce tra loro e si consolida quando si crea un'alleanza che permette di aiutare Aurelio a farsi giustizia sommaria. 


Ayotzinapa-1-246x300Ayotzinapa, el paso de la Tortuga (Ayotzinapa, il passaggio della tartaruga, 2018) è il migliore documentario messicano che sia stato presentato nel corso del Festival. Tratta un tema molto delicato: la sparizione di 43 studenti di una scuola rurale nel corso della notte del 26 settembre 2014, coi genitori che rifiutano di credere alla morte dei propri figli, il comitato spontaneo che si crea tra loro, il forte vincolo che li unisce a questi ragazzi forse uccisi. Diretto dall’esperto Enrique García Meza e prodotto da Guillermo Del Toro, racconta fatti ancora oggi coperti da mistero o, meglio, dal un segreto di Stato di cui si sa tutto ma che non viene divulgato. I ragazzi erano a bordo di uno dei cinque autobus che li riportava verso casa dopo una manifestazione di protesta. La Polizia aveva ricevuto una soffiata che confermava il trasporto di droga da parte di almeno uno dei torpedoni. Il Governo diede l’ordine di fermare i mezzi in qualsiasi maniera e, confermato da varie fonti, perse il controllo dell’operazione probabilmente uccidendo tutti i ragazzi. Nessun provvedimento nei confronti degli ufficiali, la confessione di tre balordi che - fortemente condizionati dalle autorità – ammettevano di avere compiuto una strage di cui non erano stati nemmeno testimoni, la disperazione delle famiglie che tuttora sperano in un poco probabile miracolo. La sofferenza la si legge sui volti ma non trapela mai nei loro discorsi, lottano quantomeno per avere giustizia, hanno pagato investigatori per raccogliere ancora più prove, c’è un team di avvocati che gratuitamente li appoggia. Il governo messicano è stato considerato, anche a livello internazionale, quale unico colpevole di quello che probabilmente è un eccidio, ma nulla è cambiato o, meglio, qualcosa è successo: il rappresentante delle istituzioni che aveva affrontato a suo tempo l’opinione pubblica e aveva tentato di creare prove a discapito delle autorità, ha ottenuto varie promozioni.
HermanosHermanos (Fratelli, 2017) è diretto da Laura Plancarte che vive e lavora a Londra realizzando progetti di arti visive e short di vario tipo. Dopo Tierra caliente (Terra bollente, 2015), sua opera prima, ritenta la via del documentario con un lungometraggio pretenzioso e privo di interesse, con interviste a varie persone sulla loro vita, mai riuscendo a creare un ritratto ma limitandosi a farci scoprire qualcosa soprattutto del loro presente. Racconta in parallelo la storia di due fratelli messicani che sognano di ricongiungersi con la madre negli Stati Uniti, dove lei vive da quando loro sono piccoli, e di una donna americana residente in Messico che ha perso la sua casa a causa della crisi economica globale e crede di poter recuperarla credendo alle promesse di Trump. Tutti questi personaggi vivono situazioni simili a causa della povertà e della mancanza di una struttura familiare. Il loro percorso per rivivere il sogno americano inizia con un viaggio attraverso i ricordi di tempi migliori per incontrare il passato sperando che loro familiari possano aiutarli a rendere possibili i sogni, ma i due uomini si devono confrontare con una realtà diversa in cui la madre, che non hanno più visto da oltre 30 anni, torna in Messico e chieda loro aiuto. Sorte difficile anche per la donna che, non potendo più tornare in Messico perché persona non gradita, deve accettare di sopravvivere grazie all’aiuto di un’amica che condivide con lei il suo vecchio camper dall’aspetto fatiscente. La regista non impone una linea narrativa, si limita a montare assieme vario materiale di diversa qualità senza farci capire le ragioni di queste persone. Ottanta minuti privi di interesse e assolutamente incapaci di coinvolgere.


Mente-RevólverMente revólver (La pistola nella mente, 2017) è primo lungometraggio realizzato da Alejandro Ramirez Corona attivo da oltre dieci anni come regista di corti, documentari e prodotti per la televisione. La realizzazione, tecnicamente, appare più che accettabile ma la debolezza della sceneggiatura e l’incapacità di creare tensione drammatica penalizza il risultato finale. Troppe cose vengono date per scontate, lo sviluppo a tratti appare eccessivamente semplicistico non permettendo di essere coinvolti. La scelta di raccontare varie storie, ma che hanno tra di loro solo pochi contatti, lo aiuta a rimanere nel mondo del corto, che lui meglio conosce ma non gli permette di fare un salto verso un cinema diverso, forse più interessante. Chicali è un killer che guarda in faccia le proprie vittime. Mario, condannato per l'omicidio del candidato presidenziale, lascia la prigione dopo 20 anni di carcere e torna nella città di Tijuana per tentare di ricostruirsi una nuova vita. Jenny è una americana senzatetto che, dopo avere trovato nella spazzatura una pistola decide di attraversare il confine con il Messico per venderla. Le rubano il denaro che ha ottenuto e, per sopravvivere, inizia a fare il corriere della droga. Jenny si è innamorata del giovane Chicali, a cui è stato ordinato di uccidere Mario, e cerca di cambiare il destino di tutti, compreso il suo.
Nadie sabrà nuncaNadie sabrá nunca (Nessuno lo saprà mai, 2018) è opera prima di Jesús Torres Torres che ha scritto anche la sceneggiatura. Lui ha avuto varie esperienze nel corto e qui esprime il desiderio di passare al lungometraggio con un’opera non banale, ma il risultato è poco gratificante. Buona realizzazione ma assoluta mancanza di vero interesse. Brava la protagonista Adriana Paz, gradevoli gli altri interpreti. Lucia e suo figlio di otto anni, Braulio, vivono in un villaggio dove per avere un po’ di svago guardano soap opera e film del passato ma, soprattutto, ascoltano radiodrammi d’amore. Lei desidera una vita migliore in città, un’ambizione a cui Rigoberto, suo marito, si oppone. Una notte, madre e figlio, in assenza del padre, lasciano entrare in casa uno sconosciuto; lo straniero, che ha l'aspetto degli eroi creati dalla loro immaginazione. Realtà o sogno, desiderio di vivere fino in fondo una storia impossibile, il dramma che occhieggia su di loro.
Dove sta¿Dónde estás? (Dove sei? 2017) di Maricarmen Merino è formalmente interessante ma, per l’inesperienza della regista e la sua partecipazione emotiva per quanto racconta (è la figlia minore del protagonista), il risultato è modesto. Si parla di Costa Rica, dell’amato uomo di sinistra José Merino, del sogno di portare il suo partito al governo del Paese, del rapporto che Merino aveva con la famiglia, compreso il rapporto col figlio avuto dalla prima moglie, ma lo fa nella maniera sbagliata, proponendo nell’inizio spezzoni di discorsi del padre per 15 minuti, dedicando altrettanti minuti ad interviste ai fratelli ed alla madre. Il regista non è in grado di dipingere la figura del padre, tanto da definirne meglio le caratteristiche morali e politiche, si limita a proporre immagini che, tutte assieme, non riescono a creare un film. La scelta delle sequenze di repertorio, inoltre, non risulta sempre felice offrendo minuti di riprese che riprendono un nulla di poco interesse. I bagni di folla, l’attesa dell’esito delle elezioni attraverso reiterati primi piani della madre, alla fine stancano. Non manca anche una lunga ripresa che ha come unico protagonista l’amato gatto di casa. Il documentario è una ricerca iniziata cinque anni fa quando José Merino morì: era il più importante leader di sinistra del Costa Rica. Il film è un dialogo tra la vita politica pubblica di un uomo e l'universo intimo della sua famiglia, dove la figlia più giovane decide di vivere il suo dolore accompagnato da una telecamera. Forse a lei sarà stato utile per placare il dolore, ma non riesce a rendere partecipi gli spettatori.


missRosewood-1031x580I premi

Premio Maguey
Menzione speciale
Miss Rosewood (Danimarca, USA) Diretto da Helle Jensen

Migliore attrice
Ellen Page per My Days of Mercy (I miei giorni di misericordia) - Gran Bretagna, USA - diretto da Tali Shalom-Ezer

Premio del Pubblico
Miss Rosewood (Danimarca, USA) Diretto da Helle Jensen

Premio Maguey
Tinta Bruta (Inchiostro scuro) – Brasile - Diretto da Filipe Matzembacher y Marco Reolon
 
Cortometraggi Iberoamericani
Menzioni speciali
Anderson
Diretto da Rodrigo Meireles
Produzione Brasile
A Foreman (Un caposquadra)
Diretto da Daniel Drummond
Produzione Brasile, USA
Les Bones Nenes (Le brave ragazze)
Diretto da Clara Roquet
Produzione Spagna (Catalogna) -
Flores (Fiori)
Diretto da Jorge Jácome                 
Produzione Portogallo  

Migliore cortometraggio
El escarabajo al final de la calle (Lo scarafaggio alla fine della strada) – Diretto da Joan Vives
Produzione Spagna

Premio Rigo Mora
32-Rbit
Diretto da Víctor Orozco Ramírez
Produzione Messico-Germania

Documentario Iberoamericano
Premio Speciale della giuria
El Espanto (Lo spavento)
Diretto da Pablo Aparo e Martín Benchimol
Produzione Argentina

Premio per il migliore lungometraggio documentario Iberoamericano
Alberto García-Alix: La Línea de la Sombra (Alberto García-Alix: La Línea d’ombra)
Diretto da Nicolás Combarro García
Produzione Spagna
 
Premio per il migliore lungometraggio Iberoamericano di Fiction
Mayahuel per migliore attrice: Sofia Gala Castiglione
per Alanis
Diretto da Anahí Berneri
Produzione Argentina                 

Mayahuel per migliore attore (ex equo): Luis Gerardo Méndez
per Tiempo Compartido (Multiproprietà)
Diretto da Sebastián Hofmann
Produzione Messico, Olanda

Mayahuel per migliore attore (ex equo): Giovanni Rodríguez
per Matar a Jesus (Uccidere Gesù)
Diretto da Laura Mora Ortega                 
Produzione Colombia, Argentina

Mayahuel per migliore fotografia: Óscar Catacora
per Wiñaypacha
Diretto da Óscar Catacora
Produzione Perú

Mayahuel per migliore sceneggiatura: Martín Boulocq
per Eugenia
Diretto Martín Boulocq
Produzione Bolivia, Brasile

Premio Speciale della Giuria
Per Vivir y Otras Ficciones (Vivere ed altre finzioni)
Diretto da Jo Sol                  
Produzione Spagna

Migliore regia: Anahí Berneri      
per Alanis    
Produzione Argentina

Migliore Opera Prima
per Wiñaypacha
Diretto da Óscar Catacora
Produzione Perú

Migliore film
Per Matar a Jesus (Uccidere Gesù)
Diretto da Laura Mora Ortega                  
Produzione Colombia, Argentina

Premio del Pubblico
per Ayotzinapa, el paso de la tortuga (Ayotzinapa, il paso della tartaruga)
Diretto da Enrique García Meza
Produzione Messico

PREMIO MEZCAL
Menzione per la migliore regia: Zita Erffa
per  The best thing you can do with your life (La cosa migliore che puoi fare con la tua vita)
Produzione Germania, Messico   

Menzione per migliore attrice: Concepción Márquez   
per Cría Puercos (Alleva maiali)
Regia Ehécatl García
Produzione Messico
                                
Premio Mezcal migliore direttore di fotografia: César Gutiérrez Miranda
per La Negrada (La negra – N.B. dispregiativo inventato dagli stessi schiavi)
Regia di Jorge Pérez Solano
Produzione Messico

Premio Mezcal migliore attore: Noé Hernández            
per 8 de cada 10 (8 ogni 10)
Regia Sergio Umansky Brener
Produzione Messico

Premio Mezcal migliore attrice: Daniela Schmidt              
per 8 de cada 10 (8 ogni 10)
Regia Sergio Umansky Brener
Produzione Messico

Premio Mezcal migliore regia: Jimena Montemayor Loyo  
per Restos de Viento (Resti di vento)
Diretto da Jimena Montemayor Loyo  
Produzione Messico

Premio Mezcal migliore film messicano
per Restos de Viento (Resti di vento)
Diretto da Jimena Montemayor Loyo  
Produzione Messico