60ma SEMINCI - Semana Internacional de Cine - Valladolid - Pagina 5

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60ma SEMINCI - Semana Internacional de Cine - Valladolid
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Beeba BoysDeepha Mehta è uno dei più celebrati registi indiani e oggi, a 65 anni, vanta premi e regie internazionali. Al festival ha portato in concorso Beeba Boys (Cattivi ragazzi) che testimonia più le qualità tecniche che intenti di ricerca. Nel film tenta di mettere a fuoco le varie mafie indiane operanti a Vancouver, in Canada, lasciando emergere l’intreccio di famiglie che si contendono il potere e la violenza esercitata per difenderlo. La storia non è nuova: un giovane agiato si avvale di un gruppo di ragazzi senza scrupoli per scalzare l’anziano capo mafia. Corredato con musiche e coreografie presenti in quasi tutta la cinematografia indiana, riprende giovani sik vestiti all’ultima moda e armati fino ai denti, protagonisti di crimini violenti e di tradimenti in una storia che si chiude con un massacro annunciato. Dura 103 minuti.
Non di crimini, ma di soldi tratta, invece, il film parlato in catalano e diretto dall’argentina Daniela Fejerman, La adopción (L’adozione). Seconda regia personale dopo alcune co-regie quest’opera segue una giovane coppia di Barcellona nel viaggio inCRNXmKvVAAAA0uV.jpg large un paese europeo, ex comunista, per adottare un bambino. Moglie e marito approfittano del periodo natalizio e questo complica loro la vita a livello burocratico anche se, in ultima analisi, l’asse del film ruota attorno alla diffusa corruzione e alle mazzette che la coppia deve pagare per ottenere il figlio. Partendo da un’esperienza personale, il suo viaggio in Ucraina per adottare un bambino, la regista traccia il percorso a ostacoli costituito da una serie di colloqui nei quali le prime offerte propongono bimbi molto malati, a volte ciechi o sordi, spesso incurabili. Il film elenca una serie di intermediari che chiedono soldi per accelerare le pratiche. Interpretato con molto piglio da due attori catalani, Nora Navas e Francesc Garrido, la storia racconta due coniugi in piena crisi di nervi in un contesto a loro estraneo e in una situazione limite che sembra peró riproporsi per ogni adozione. Dura novantasei minuti ed è l’unico titolo in concorso di produzione spagnola.
In questa sezione si è visto anche De ce eu? (Perché io?). Terzo lungometraggio del rumeno Tudor de-ce-euGiurgiu, autore di corti e di video che qui illustra in due ore e dieci minuti il livello di corruzione nelle alte sfere di quel paese. Lo fa attraverso indagini affidate a un giovane magistrato che in un primo momento si batte per far rispettare la legge, poi scopre che i suoi superiori non gli chiedono il questo ma l’esecuzione di atti che favoriscano i loro affari. Frastornato e deluso, continua le indagini fin quando gli amici gli consigliano di mollare, i superiori lo allontanano dandogli tre settimane di ferie e la sua ragazza si assenta per lasciargli tempo per riflettere. Dinanzi all’ostinazione del magistrato nel proseguire sulla sua strada, si avviano indagini contro di lui nel tentativo di rivoltare la frittata e toglierlo dai piedi. Girato essenzialmente in interni scalcinati e scarsamente illuminati, il film diluisce i tempi della denuncia sociale che risulta prevedibile e non priva di alcuni stereotipi del cinema commerciale.
wedding 04In concorso si è visto anche Hatuna MeNiyar (Nozze di carta, o Bambole nuziali), primo lungometraggio di Nitzan Gilady, regista israeliano di corti e documentari. Vicenda sentimentale racchiusa in ottantadue minuti, racconta di una bella ragazza affetta da una lieve disabilità (Moran Rosenblatt), e della madre protettiva. Lavorano entrambe in una fabbrica di carta igienica e la ragazza, all’insaputa della madre, ha un flirt con il figlio del direttore. La fabbrica peró è in piena crisi: il direttore sta studiando una maniera indolore per chiuderla, mentre il figlio cerca fondi per rinnovare e continuare. A casa, dove spesso la relega la madre, lei confeziona bambole di carta e sogna di diventare disegnatrice di moda. Il film mette in evidenza i sogni e le innocenti fughe della giovane, e le preoccupazioni della madre, incerta tra la tutela della figlia e il desiderio di rifarsi una vita. Leggermente ripetitivo nella parte centrale, il film si chiude con un finale dignitoso che è anche un segno di riscossa.

(R.F.)

8584077 9db37fdb766304bf0f6594f4f7507786 wm3000 layla (3.000 notti) segna il debutto nel lungometraggio di Mai Masri, nome non nuovo per la SEMINCI dove con 33 days (33 giorni, 2008) ha vinto la Spiga d’oro nella cinquantatreesima edizione. E’ nata in Palestina, ma è cresciuta a Beirut e ha studiato negli Stati Uniti presso la facoltà di cinema della San Francisco State University. Trent’anni dedicati a premiati documentari e a corti, ora debutta con un film dedicato al dramma di tutte le donne palestinesi. Ha impiegato vari anni per trovare finanziatori e, alla fine, è nata una coproduzione tra Palestina, Giordania, Libano, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Al di là delle ottime intenzioni, il film non sempre convince soprattutto per l’eccessivo inserimento di immagini dal taglio documentaristico in cui si usa la violenza subita dalle donne come quasi unico metodo narrativo, e occupandosi poco del mondo di dolore, di violenza, di disperazione che aleggia nella prigione con persone di cui poco si conosce. Addirittura, l’eccessiva stereo tipizzazione delle tre casistiche di personaggi (le secondine, le palestinesi e le israeliane), porta ad un certo disinteresse per quello che accade. Layal, una giovane insegnante palestinese appena sposata, è arrestata con false accuse e condannata a otto anni di carcere. Trasferita in un penitenziario femminile in Israele, dovrà affrontare un ambiente terribile in cui le prigioniere politiche palestinesi devovono condividere dietro le sbarre la loro vita con israeliane condannate per reati comuni. Dopo aver scoperto di essere incinta, la direzione la spinge verso l'aborto e cerca di coinvolgerla quale spia tra i prigionieri palestinesi. Nonostante sia incatenata, Layal non cede e dà alla luce il bambino. Per due anni le compagne di cella, tutte palestinesi, diventano zie, mamme, nonne di Namur mentre il padre ha scelto di abbandonare la famiglia per trasferirsi in Canada. La vita è dura ma lei non si tira mai indietro, anche quando c’è da partecipare a uno sciopero contro le secondine che rischia di farle perdere il figlio. Da questo punto una certa confusione non permette di trovare molta logica in quanto narrato: un’opera prima che voleva essere d’impegno ma che, alla fine, si risolve in un insieme di luoghi comuni ed è poco utile alla causa palestinese.
3000A Szerdai gyerek (La ragazza del Mercoledì) della regista ungherese Lili Horváth è sicuramente opera convenzionale ma non per questo poco interessante. La storia alle volte si ripete. Quando Maja aveva solo nove anni è stata abbandonata dalla madre che l’ha messa in un orfanotrofio. Sono passati dieci anni e anche lei ha messo in istituto suo figlio di quattro anni anche se continua ad andare a trovarlo. Sarà capace di prendere il controllo della sua vita, nonostante le circostanze sfavorevoli e le proprie tendenze autodistruttive? E’ la storia quasi eroica di una ragazza che dimostra meno della sua età ma che ha la grinta di una madre che lotta per vedere riconosciuta la sua maternità che le è negata la possibilità di stare col suo bambino poiché non è finanziariamente autosufficiente e, probabilmente, nemmeno molto matura. Vive in una casa protetta dove gli operatori cercano di aiutare i loro ospiti affinché possano costruirsi un nuovo futuro. Grazie a un progetto governativo i dirigenti aiutano un’altra ragazza ad aprire un Internet Caffè, a lei a trovare il denaro per creare una piccola lavanderia. Tutto andrebbe per il meglio se lei non fosse ancora innamorata dello sbandato padre naturale del figlio e se non fosse al centro di ritorsioni che provocano la completa distruzione del piccolo laboratorio. Tuttavia il desiderio di poter avere con se il figlio assieme all’aiuto di altri ex residenti della casa, farà il piccolo miracolo. Bori è il suo tutor, un uomo divorziato che vive per le sue donne ed è innamorato della ragazza che, vedendo in lui un padre ideale per il bimbo, lo lascia sperare. Qualche caduta di ritmo e di interesse sono presenti anche per la coesistenza tra attori dilettanti e professionisti: Lili Horváth non ha ancora il giusto mestiere e propone alcuni personaggi poco credibili. Detto questo, siamo in presenza di un’opera interessante che fa ben sperare nel futuro di questa giovanissima regista.
(F.F.)