47mo Karlovy Vary International Film Festival - Pagina 7

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47mo Karlovy Vary International Film Festival
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altLa sezione competitiva ha ospitato il ritratto di due drammi personali, il secondo dei quali può esse anche letto come metafora sociale. Procediamo con ordine. La lapidation de Saint Etienne (La lapidazione di Santo Stefano) dello spagnolo Pere Vilà Barceló radiografa, quasi in presa diretta, le ultime ore di vita di un restauratore, interprete il redivivo Lou Castel fisicamente irriconoscibile per chi lo ricordi nel quasi esordio (aveva già partecipato, non accreditato, a Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti) bellocchiano ne I pugni in tasca, 1965). E’ un ebreo anziano e vedovo che non riesce a superare il lutto per la morte della moglie, deceduta fra atroci sofferenze. Ora vive solo nella casa di proprietà della figlia – i due si detestano – fra sporcizia e circondato da un disordine degno di una discarica. Anche la sua salute non è buona, poiché deve portare attaccato a un fianco un sacchetto che raccoglie feci e bile. In queste terribili condizioni lui rifiuta ogni aiuto e continua a rimettere in ordine statue e oggetti antichi. Naturalmente c’è una precisa contraddizione fra il caos che lo circonda e l’aggiustatura di vecchie cose. Una contraddizione che è l’essenza stessa dell’insanabile dolore con cui convive. Un giorno, colpito da un attacco cardiaco, rimane immobilizzato a terra ma anche in questo caso rifiuta di mettersi d’accordo con la figlia che, cinicamente, gli propone di aiutarlo in cambio della promessa che lascerà la casa che lei vuole vendere perché ha bisogno di soldi per la bambina che porta in grembo. Ancor più contrariata la donna, se ne va e lo lascia morire da solo. La regia punta non poco su elementi macabri e disgustosi, registra l’agonia quasi in tempo reale e non risparmia nessun particolare spiacevole. E’ un film di difficile sistemazione sia dal punto di vista del senso del racconto, sia da quello cinematografico per cui, spento lo schermo, non rimane che alcune perplessità e altrettanto disgusto.

altAnche To agori to fagito tou pouliou (Il ragazzo che mangiava mangime per uccelli), opera prima del greco Ektoras Lygizos affronta un lacerante dramma personale, ma lo fa in modo da consentire di cogliere una dolorosa metafora sulla condizione dei giovani greci. Per tre giorni la macchina da presa pedina un ragazzo disoccupato, poverissimo ma dotato di una voce da tenore di rara bellezza. Il giovane vive nella più assoluta povertà, si nutre del miglio del suo canarino, di scarti di cibo destinati all’immondizia e persino del suo stesso sperma. La sua sola passione, oltre al canto, è la giovane receptionist di un grande albergo, ma anche quando riuscirà a conoscerla e a farsi invitare, le cose non andranno meglio, perché la ragazza lo metterà alla porta inorridita dai capelli che perde copiosamente a causa della fame che ha sofferto. L’ultima immagine lo mostra accucciato davanti alla gabbietta dell’amato canarino che canta a gola spiegata. Forse è un segno che la resistenza alla sfortuna alla fine paga. Metafora si è detto, infatti questa tremenda vicenda di fame e di arte dissipata richiama le dure condizioni che migliaia di giovani greci devono affrontare a causa della crisi economica e la disoccupazione dilagante. Letto da questa prospettiva il film offre molti spunti interessanti e si lascia perdonare per i non pochi momenti disgustosi che lo punteggiano.

U.R.

altHoly Motors (Motori santi), presentato nella sezione Orizzonte, è un ottimo esempio del cinema di Leos Carax. Alfiere del cosiddetto cinéma du look, insieme con autori quali Luc Besson e Jean-Jacques Beineix, noto soprattutto per Gli amanti del Pont-Neuf (1991). Il film e stato presentato a Cannes e, come sempre, ha avuto pareri discordi. Del resto, la missione di questo regista è di rifuggire dal banale, da vicende troppo prevedibili, da un mondo troppo convenzionale. Ha anche vinto il Pardo d’onore al festival di Locarno. S'inizia con una sala cinematografica affollata di gente immobile. Ci sono frammenti delle cronofotografie degli atleti fotografati da Étienne-Jules Marey (1830 - 1904). Un uomo che scopre una porta nascosta che lo porta proprio in quel cinema. Questo conduce verso un mondo parallelo, apparentemente realistico ma di cui si scopre l`assoluta pazzia dopo pochi minuti. Monsieur Oscar sembra essere banchiere con limousine, ma ben presto si trasforma in mendicante, attore impegnato in una sessione di motion capture, il mostruoso Monsieur Merde, un padre, un killer, un vecchio morente e tanto altro ancora. Il grande Denis Lavant agli ordini di Carax si vota completamente a questa vicenda tanto bella quanto complessa. La limousine è un camerino dove si trasforma, l`autista è una donna forse sua segretaria, ma potrebbe anche essere il suo agente (alla fine della giornata lo paga per le sue prestazioni). Il film potrebbe peccare d’intellettualismo ma, alla fine, dimostra di avere mille cose da dire, tutte con una morale ben precisa. Si sorride, si ride, si vive il dramma di Mister Oscar ma anche dei personaggi che interpreta, compreso un assassino. E` immortale, forse, e questa per lui rappresenta una vera condanna. Una holy motors (limousine) era protagonista anche di Cosmopolis di David Cronemberg, e questa rappresenta una singolare coincidenza, ma tra i due film esiste un abisso, forse anche per la diversa bravura dei due protagonisti.

altPer la sezione East of the West è stato presentato Ljudi tam (Fuori da lì) del lettone d’origine armena Aik Karapetian che firma la sua opera prima. Una periferia degradata, vicende normali di sbandati che non hanno un esempio da seguire, malviventi più per passare il tempo che non per vera esigenza. Un ventenne vive assieme al nonno che adora, e trascorre le sue giornate usando droghe leggere, facendo a pugni, rubacchiando il tutto assieme al suo amico del cuore Cracker. Tutto bene fino a quando, in una delle loro scorrerie, non nota bella ragazza dell’alta borghesia e inizia a sognare di conquistarla. Questo è l’inizio del dramma che porta l’amico alla morte, lui a perdere ancora più i limiti che esistono tra lecito e illecito, tra finzione e realtà. Con la macchina da presa a spalla il regista cerca di rendere maggiormente partecipi gli spettatori di quanto accade sullo schermo. Purtroppo, le intenzioni sono ottime ma il risultato finale è mediocre. Le ripetizioni, la mancanza di trovate, la mediocrità degli interpreti porta ogni cosa ai limiti minimi dell’interesse. Spesso l’opera prima è interessante se letta nella struttura narrativa immaginata, assolutamente deludente se unicamente giudicata per il risultato finale.

F.F.