69ma Mostra Internazioale d'arte Ciinematografica

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La sessantanovesima Mostra D’arte Cinematografica di Venezia segna molti punti di svolta rispetto alle edizioni passate. La più evidente riguarda il ritorno alla direzione di Alberto Barbera che sostituisce Marco Müller – andato a guidare il Festival di Roma – e che aveva già svolto questo compito fra il 1998 e il 2002, quando era stato allontanato, prima ancora che il suo mandato fosse concluso, causa  un aspro conflitto il ministro Giuliano Urbani, all’epoca responsabile del Dicastero Turismo e Spettacolo. Il passaggio di testimone non certifica solo una modifica personale dello stile di direzione, ma identifica due concezioni opposte di quali debbano essere i compiti e gli obiettivi di una grande istituzione cinematografica. Non a caso sin dalla stessa dimensione numerica dei film in cartellone siamo passati da una massa corposa e, per certi versi, culturalmente caotica (si ricordi l’apertura dello scorso anno con Box Office 3D - Il film Ezio Greggio) a una vocazione attenta alla scoperta di nuovi autori e al sostegno di maestri spesso emarginati all’interno delle stesse cinematografie in cui operano.

E’ il caso di Jonathan Demme, vincitore del Premio Oscar per la miglior regia con Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991) e autore, due anni dopo, di Philadelphia che farà guadagnare l’oscar per la migliore interpretazione a Tom Hanks. Quest'anno presenterà il documentario Enzo Avitabile Music Life. Anche sul versante del cinema  italiano il nuovo direttore ha preferito la selezione alle false porte aperte del predecessore, cha aveva imbottito il cartellone di titoli nostrani, molti dei quali pessimamente accolti da pubblico e critica. In altre parole siamo davanti a due filosofie: quella della massa, spesso indifferenziata, di Marco Müller e quella che pretende di scegliere nella speranza di cogliere il meglio in circolazione, anche a rischio di lasciare fuori qualche boccone pregiato. Un atteggiamento di responsabilità contro una logica quasi fieristica. Anche sul fronte puramente mercantile i due direttori la vedono in modo diverso. A fronte di una logica, abbastanza confusa, d’inseguimento dei grandi mercati di film, il nuovo responsabile si propone la creazione di una zona d’incontro fra produttori e cineasti spesso destinati a rimanere ai margini di mercati  dominati dalle grandi produzioni hollywoodiane, spesso in accordo con alcune iniziative locali a diffusione  limitata. Un’altra differenza non trascurabile riguarda il rapporto con la struttura stessa della manifestazione. In passato si sono preferiti gli aspetti più glamour trascurando necessità più impellenti anche se meno clamorose. Si sono spesi milioni in allestimenti e feste buone, al massimo, per catturare un pugno di telecamere. Nello stesso tempo si è fatto ben poco per risolvere l’orrore del buco maleodorante aperto di fronte al palazzo del Casinò, infelice ricordo di vanagloria incompiuta legata all’ipotesi di costruzione di un nuovo palazzo del cinema. Il neo direttore, invece, ha preteso, come prima cosa, che si trovasse una soluzione a questo problema restituendo alla manifestazione dignità anche architettonica. Un'altra differenza riguarda la ricerca affannosa e costosissima di presenze divistiche. In precedenza molti sforzi sono stati fatti per assicurarsi nomi importanti, soprattutto americani, anche a costo di mettere in cartellone titoli di non altissimo valore. Con la nuova direzione questa tendenza sembra essersi attenuata, anche se non si è  rinunciato a ospitare nomi importanti, ma lo si è fatto unendo i lustrini del richiamo divistico alla qualità dei prodotti presentati. Se mancava la seconda, si è preferito rinunciare anche alla prima. Si tratta, dunque, d’ipotesi di lavoro molto diverse sia per impostazione culturale, sia per approccio imprenditoriale