47mo Karlovy Vary International Film Festival

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47mo Karlovy Vary International Film Festival
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 29 giugno – 7 luglio 2012

sito web: http://www.kviff.com/en/news/

19786-official-festival-poster-for-47th-kviffIl Festival Internazionale del cinema di Karlovy Vary, nella repubblica Ceca, è giunto quest’anno alla 46a edizione ed è fra le manifestazioni filmiche più importanti e complete d’Europa. E’ articolato su varie sezioni, la più importante delle quali è quella competitiva seguita da East of the West e dalle rassegne dedicate al cinema indipendente e ai documentari. Storicamente questa manifestazione è nata nel 1946 ed è la più longeva rassegna europea dopo la Mostra del Cinema di Venezia che quest’anno approda alla 69ma edizione. La distanza fra le due istituzioni, tuttavia, è assai minori di quanto appaia da queste cifre, infatti, per un lunghissimo periodo la rassegna, per non incrinare la fraterna amicizia con il Festival di Mosca che aveva cadenza biennale, si tenne ad anni alterni.

Solo nel 1994 la direzione della manifestazione fu totalmente riorganizzata e si ritornò alla naturale scadenza annuale. Nonostante queste vicende, legate ai noti avvenimenti politici e alla divisione dell’Europa centrale in precise aree d’influenza, il Festival conservò sempre un’importanza primaria. Lo testimonia, ad esempio, quest’aneddoto. Nel 1958, sulla via del ritorno dall’Unione Sovietica, il famoso critico e teorico Umberto Barbaro vide alla stazione di Praga – a quei tempi pochi potevano viaggiare in aereo - un manifesto che annunciava la proiezione al Festival di Karlovy Vary del film Un re a New York (A King in New York, 1957) di Charles Chaplin, uscito da poco. Senza pensarci due volte scese dal treno e arrivò, inaspettato, nella cittadina termale che dista un centinaio di chilometri dalla capitale. A quei tempi non esisteva la libera circolazione delle persone e lui disponeva solo di un visto di transito e non d’entrata. Anche se noto come critico di un giornale comunista, L’Unità, dovette sudare le classiche sette camice per non essere rispedito immediatamente a Roma o, peggio, arrestato. Un piccolo episodio che dimostra come anche in anni sicuramente bui, questa manifestazione esercitasse un ruolo e un’importanza primari. Ritornando all’oggi c’è da segnalare come i titoli annunciati nel programma siano quanto mai interessanti e promettano un soggiorno ricco d’emozioni.

U.R.


altMer eller mindre mann (Quasi uomo) è un bel film norvegese diretto da Martin Lund in cui si ritrae un trentenne in bilico fra maturità e adolescenza. Henrik sa per diventare padre, ma non riesce ancora ad assumere responsabilità da adulto, soprattutto nei confronti della compagna, che mostra ben maggiore consapevolezza di lui. Ciò da cui sembra proprio non riuscire a staccarsi è il legame con un gruppo di ex compagni di scuola i cui massimi divertimenti sono le sbornie colossali, gli scherzi di spogliatoio e l’urinare dal balcone sul giardino sottostante. Le cose non vanno meglio sul fronte del lavoro, con rapporti a dir poco bizzosi con colleghi e capi. Sarà il dolore e la ferma determinazione della compagna a fargli capire che gli anni dell’incoscienza sono ormai lontani e che essere uomo vuol dire anche farsi carico di quanti ti stanno intorno. Raccontato in questo modo, sembra una favoletta moralistica, ma la mano del regista e, soprattutto, la bravura di Henrik Rafaelsen nel costruire un personaggio che vive di sottotoni e sguardi, rendono corposo un ritratto apparentemente normale.
altL’escissione degli organi sessuali esterni femminili è, purtroppo, una pratica ancora in uso in alcuni paesi africani. Si farebbe, dicono i bigotti che la sostengono e praticano, per privare del piacere le donne a garanzia dell’imperio dei mariti e del rispetto di alcune norme religiose. Il canadese Martin Laroche affronta questo dramma in Les manèges humaine (Gli affari umani) mettendo al centro del film una giovane d’origine africana, Sophie, che sta girando un documentario su un piccolo luna park. Poco a poco scopriamo che la sua propensione a soddisfare oralmente gli uomini, nasce dalla menomazione subita a quattro anni, quando viveva ancora in Africa. Sua madre le fece escidere clitoride, grandi labbra e parte della vagina perché diventasse una sposa pura e sottomessa. Salvata da uno zio che l’ha portata in Canada, le ha cambiato nome e inserita nella nuova società, porta dentro di sé il dolore per essere ancora vergine, nonostante l’intensa attività sessuale praticata, e di non potersi dare completamente all’uomo che ama. Alla fine supererà questa drammatica condizione decidendo di farsi deflorare dolorosamente da un maturo membro del gruppo che sta filmando. Indubbiamente il film usa toni abbastanza melodrammatici, pratica uno stile particolare e, a tratti, cervellotico – tutto il film è visto dall’obiettivo della telecamera con cui la giovane sta realizzando il documentario – ma ha il pregio di ricordare un dramma atroce è ben poco ricordato.
U.R. 

altCon dodici film in concorso, East of the West anche quest’anno propone una carrellata completa e particolarmente emozionante del cinema del Est europeo, soprattutto di quello fatto dai giovani, dai debuttanti, da chi al cinema fornisce più emozioni ed originalità che non necessariamente impeccabili prodotti belli esteticamente ma non per questo da vedere. Presenti Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Estonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania, Ucraina, ma anche Serbia e Croazia. Hanno inaugurato i padroni di casa con due bei titoli, uno dei quali in coproduzione. Popauta (Gemme) opera prima di Zdenek Jirasky, è ambientato nel periodo natalizio in cui alcune situazioni possono raggiungere livelli drammatico od umoristici ben maggiori che non durante l’altra parte dell’anno. Protagonista una famiglia povera finanziariamente ma non per i sogni che li animano. In realtà, i quattro vivono sotto lo stesso tetto ma non condividono con gli altri le loro aspirazioni. Il padre è casellante, costruisce modellini in bottiglia, gioca alle slot machine quello che ha o che ha ottenuto cedendo oggetti di famiglia, riduce alla miseria la famiglia. Il suo sogno è di cambiare realmente vita, di abbandonare una povertà che non riesce a sopportare. La madre lava le scale, fa lavori di tutti i tipi pur di fare quadrare i conti. Ha sempre sognato una carriera artistica e, quando per racimolare qualche soldo in più tenta l’avventura di spettacoli sexy e di un calendario di nudi, tutto sommato è felice. Il figlio diciottenne si innamora di non più giovanissima spogliarellista da pub con un impresario violento che, alla fine, gli offre di comperarla. Lui lo fa, rubando i soldi ad amico ma, tutto sommato, rendendo felice la donna ma anche il derubato. La figlia vive nella capitale, sogna vita differente da quella del paese, è fidanzata con un coetaneo ed amoreggia con un altro. Risultato finale è che, quando rimane incinta, non può dire con certezza chi sia il padre. Oltre a loro una coppia vietnamita che sogna di tornare al paese, un proprietario di pub losco e amico solo di se stesso, rapporti eterni che rischiano di finire in un nonnulla. Non un grande film ma sicuramente da vedere per capire meglio la società cieca (ma non solo quella).
altDi livello nettamente superiore il debutto della giovanissima Iveta Grófová che si avvale di un direttore di fotografia sempre al femminile. Costato poche migliaia di euro, è coprodotto da Cechi e Slovacchi perfettamente compenetrati in questa triste vicenda. AZ fare mesta Aš (E’ difficile vivere ad Aš) ci racconta di bella ragazza slovacca che dopo il diploma di scuola superiore lascia il suo paese per lavorare in Boemia, nella città di Aš. Sognatrice, contatta via internet ragazzo che immagina di vederla in una piazza continuamente online in una web cam; lei, ben presto, va realmente nel luogo e, dialogando col telefonino, diviene protagonista di una platonica ma intensa vicenda d’amore. Sogna, e perde il suo lavoro in sartoria industriale, non ha più i soldi per pagare un letto in uno squallido pensionato, accetta di lavorare in locale per uomini, piano piano inizia anche ad avere contatti fisici con gli avventori per poi finire nel letti di uomo quasi sessantenne che le promette vita felice e agiata. Inutile dire come finisce la storia, quello che importa è che tutti gli attori sono non professionisti, che i personaggi riportano il loro nome di battesimo, che la madre della protagonista lo è anche nella vita reale. Con questa sua scelta sicuramente difficile per una debuttante, Iveta ha donato alla storia ancora maggiore freschezza, raccontando storie torbide (ci sono anche le amiche della ragazza) con grande umanità. Perfino un paio di scene di nudo sono più che giustificate e poste al momento giusto.
F.F.


altQuella proposta dalla sezione competitiva è stata una giornata rivolta ai rapporti familiari. Si è iniziato con il canadese Rafaël Quellet che ha costruito, in Camion, il ritratto di una famiglia disgregata che riesce a trovare una nuova unità nel dolore. Germain è un camionista sessantenne alla guida di un bisonte della strada che trasporta tronchi d’albero. Un giorno ha un terribile incidente con un’auto guidata da una donna che rimane uccisa nell’impatto. Per lui il trauma è talmente devastante da indurlo ad abbandonare ogni voglia di lavorare e a farlo rimanere in casa del tutto passivo. Quando i suoi due figli, la moglie è morta da anni, vengono a sapere delle sue condizioni ritornano a casa accolti con burbero affetto. Sono due giovani diversissimi: uno ha avuto un grave incidente a un braccio e ora vive della pensione, l’altro ha messo da parte le ambizioni di studio e lavora in un’impresa di pulizia che, la notte, netta gli uffici. Per giunta il primo è un dongiovanni di successo, mentre l’altro allontana le non poche ragazze che lo circondano nel ricordo di un amore adolescenziale da tempo finito. L’atmosfera familiare spingerà tutti a rimettere in discussione i rispettivi stati morali e sociali, regalandoci un finale in cui ogni cosa sembra andare a posto: l’anziano riprende il volante, il figlio menomato trova lavoro come meccanico, il fratello inizia una nuova relazione e riprende gli studi. E’ un film molto corretto e generoso negli intenti, anche se prevedibile negli sviluppi. Un dato molto positivo è nell’utilizzo, anche psicologico, del paesaggio con l’alternarsi di ariosi spazi aperti a claustrofobiche strutture ipermoderne.
altRimaniamo in ambito familiare, ma con l’aggiunta di temi sociali, con Deine Schönheit ist nichts west … (La tua bellezza non ha nessun valore ….) del tedesco d’origine curda Hüseyin Tabak. La storia ruota attorno all’amore adolescenziale del dodicenne Vaysel la cui famiglia è arrivata a Vienna portandosi dietro le sofferenze del capofamiglia, militante curdo imprigionato  in Turchia per molti anni. Nella nuova patria il gruppo subisce lacerazioni interne, uno dei figli disprezza il padre – si è fatto tatuare su una spalla la bandiera turca e finisce in prigione per spaccio di droga, e l’intero gruppo deve fare i conti con una struttura sociale che, nonostante le generose mediazioni culturali, disprezza gli stranieri. Il tenero amore fra i due ragazzini avrà un finale drammatico con la deportazione della famiglia della giovane – sono immigrati slavi non in regola con i documenti – e la separazione della coppia, più immaginata che realizzata. Il film ha un giusto equilibrio fra tenerezza e denuncia sociale, fra psicologia individuale e temi politici. Il tratto stilistico non è originalissimo e ha spesso momenti televisivi, ma nel complesso il film riesce a coinvolgere senza eccessivi ricatti morali. 

U.R.

altUndeva la Palilula  (Accade qualcosa a Palilula), diretto da Silviu Purcarete, è un film romeno innegabilmente interessante anche se non graditissimo al pubblico festivaliero. A suo sfavore gioca l’estrema lunghezza (quasi due ore e mezzo) e una certa pretenziosità del regista che si assurge a maestro essendo solo un buon conoscitore di Federico Fellini ed Emir Kusturica. Un giovane pediatra giunge a Palilula, una piccola cittadina sommersa dalla neve posta in qualche parte del mondo, per iniziare il suo primo lavoro dopo la laurea. Il suo impatto con l’ospedale è traumatico a causa di colleghi a dir poco originali e degenti che amano essere curati con i liquori piuttosto che con le medicine. Il reparto di pediatria è dismesso da tempo memorabile perché lì non nascono bambini. Gli abitanti sono tutti alcolizzati e organizzano infinite feste e baccanali in cui si divertono e, forse, dimenticano la tristezza del posto in cui vivono. Ambientato nei primi anni 60’, il film vuole ironizzare sul crollo del comunismo e il vuoto lasciato da potere realsocialista. Nel suo debutto cinematografico questo non più giovane regista teatrale invita gli spettatori in un mondo pieno di bizzarri personaggi, spettacoli surreali e situazioni kafkiane. Che riesca nel suo intento è assolutamente da dimostrare, di sicuro ha inventato un mondo in cui tutto è possibile tranne la normalità. Peccato la mancanza di umiltà di cui dicevamo, altrimenti il film poteva essere più gradito ma, si sa, nemmeno dai maestri si ama ricevere lezioni, figurarsi da un autore alla sua opera prima. Ci sono ermafroditi, gemelle farmaciste dai ritmi sincopati, donne lupo mannaro, altre grassissime, una coppia che si fa chiamare Laurel e Hardy, prostitute, coniugi che finiscono all’ospedale dopo sanguinosi litigi, ma si amano profondamente, medici frustrati, infermiere ninfomani. E’ un circo che forse sarebbe piaciuto a Federico Fellini ma che ricorda soprattutto Emir Kusturica. E’ un film per veri cinefili che sappiano apprezzare il bello anche dentro tanta mediocrità.
altVanishing Waves (Una vita si spegne) è un film di fantarealtà in cui si racconta di un giovane scienziato che accetta di entrare nella testa di una donna in coma. Ben presto si accorge di essere coinvolto nei pensieri dell’ammalata e di poterli perfino condizionare tanto da divenirne, nel suo cervello, un focoso amante che pratica il sesso a tutti i livelli. Ovvia conseguenza il distacco dalla moglie ma anche dalla realtà e la scelta di vivere solo per quella persona che ormai rappresenta il suo ideale di donna non permettendogli di avere un’effettiva valutazione di se stesso. Gli interpreti sembrano essere a loro agio più quando sono nudi che non quando devono esprimere qualcosa, vestiti, con la sola mimica del viso. Dopo il debutto con Kolekcioniere (Il collezionista, 2008), molto discusso ma anche amato soprattutto nei circuiti dei festival, la giovane regista lituana Kristina Buožytė ritorna al cinema con un film in cui cerca di studiare i comportamenti sessuali e sentimentali attraverso una coppia fuori da ogni convenzione. Purtroppo, lo fa nella maniera più semplicistica e banale usando troppi nudi e scene di sesso alternati a noiosi disegni che vorrebbero rappresentare i movimenti geometrici del cervello. Come se non bastasse, anche questo film supera le due ore: troppe per chi ha così poco da dire.
F.F.  


altNos Vemos, papà (Ti vediamo, papà), opera prima della messicana Lucia Carreras, è il ritratto di una difficile elaborazione del lutto e di un esasperato complesso edipico. Pilar non riesce a superare il dolore per la morte del padre, con cui aveva un rapporto ricco di venature incestuose o che lei ha vissuto come tali. Ne immagina continuamente la presenza nelle stanze in cui vivevano e che ora abita da sola, arrivando sino a masturbarsi sui vestiti del defunto. Suo fratello, che vorrebbe vendere la casa, si preoccupa per il deteriorarsi delle condizioni della sorella e arriva a rinchiuderla in una stanza dell’appartamento in cui lui vive con moglie e figli. Naturalmente, di consultare uno psichiatra non se ne parla nemmeno: sarebbe un disonore per l’intera famiglia. Alla fine sarà proprio il fratello sanoa essere sconfitto e la sorella ritornerà nella grande villa di famiglia, felice di poter continuare i suoi giochi solitari. Il tema del superamento del dolore per la morte di una persona cara è argomento di grande importanza, così come non è per niente trascurabile l’analisi delle relazioni, talvolta ambigue, che legano genitori e figli. Un tema che, vale la pena ricordarlo, ha dato origine a quel Complesso di Edipo teorizzato da SigmundFreud (1856 –1939). Purtroppo nel film entrambi gli argomenti sono utilizzati più come intelaiatura melodrammatica che non quale base per una seria analisi o per una narrazione davvero originale. Gli interpreti, soprattutto Cecilia Suárez, fanno del loro meglio per rendere interessante un testo dal profilo irrimediabilmente basso.
altAnche Zabić bobra (Uccidere un castoro) del polacco Jan Jakub Kolski muove sul terreno del quadro psicologico. Al centro del racconto c’è Eryk, un ufficiale dei servizi di frontiera con la Russia che ha lasciato fuggire - per amore - una giovane (cecena? afgana?) inseguita dai miliziani russi che le hanno già sterminato la famiglia. Preda a laceranti demoni interni, finisce coll’isolarsi in un casolare di campagna ove è raggiunto da una giovane sessualmente molto intraprendente. S’innamora anche di lei arrivando a uccidere il padre che l’ha violentata quando era ancora adolescente. Raggiunto da un gruppo di suoi colleghi che vogliono fargli pagare il fio della sua bontà, morirà a sua volta – ma la cosa ha l’aspetto di un quasi suicidio - per mano di una donna aggregata ai suoi inseguitori, forse la stessa ragazza che ha vendicato uccidendole il padre stupratore. Forse, così raccontata, la storia raccontata dal film può sembrare persino banale, ma il regista ha cura di renderla di non facile comprensione, saltando dall’oggi all'ieri, evitando di chiarire snodi non secondari e puntando al massimo sulla lacerazione dei caratteri e su non poche scene di sesso, spesso realizzate come veri e propri combattimenti. Nel complesso il film offre non pochi motivi d’interesse, anche se, complessivamente considerato, presenta più scompensi e motivi di perplessità che non ragioni d’adesione.
U.R.     


altIl festival ha presentato, come evento speciale, The Door (La porta), ultima fatica dell’ungherese, premio Oscar, István Szabó. Il film nasce da un racconto della scrittrice Magda Szabó (1917-2007), i cui libri sono stati tradotti in trentasei lingue ma che non ha alcuna parentela con il regista. Vi si racconta, ambientato a Budapest negli anni sessanta, il rapporto fra una scrittrice di successo, che ha appena ricevuto l’importante Premio Kossuth, e un’anziana domestica semianalfabeta e scontrosa. I rapporti fra le due donne, dapprima burrascosi sin quasi allo scontro fisico, diventano progressivamente sempre più sereni sino a indurre la più anziana a raccontare alla padrona i drammi che hanno segnano la sua esistenza e a indurre la scrittrice a guardare in faccia la realtà. In questo il regista riannoda non pochi fili che gli sono cari: l’ebraismo, le violenze del regime realsocialista, le miserie e le grandezze degli intellettuali costretti a vivere oltre la cortina di ferro. E’ un’opera che reclamava due grandi attrici e sono state trovate nell’inglese Helen Mirren che offre, nel ruolo dell’anziana domestica, una prestazione eccezionale e nella tedesca Martina Gedeck, impegnata a sfumare alla perfezione un personaggio in bilico fra successo politico e umanità vera. Ricordato che il film testimonia, ancora una volta, la precisione narrativa e la cura ambientale tipiche di quest’autore, si deve rilevare come, anche se etichettabile come cinema vecchia maniera, è un’opera che offre suggestioni di grande, grandissimo respiro.
altLa sezione competitiva ha presentato Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, di cui abbiamo parlato al momento dell’uscita italiana, e Kamihate Soten (Il negozio di Kamihata) del giapponese Tatsuya Yamamoto. Kamihata è un piccolo porto di pescatori divenuto tristemente famoso perché nei pressi di una roccia a picco sul mare prescelta da decine di suicidi per il salto finale. Fra questi c’è stato anche il padre di Chiyo, una donna matura che, dopo aver superato il dramma del tumore, gestisce un negozietto in cui gli aspiranti suicidi passano per comprare latte e pane, sorta di pasto rituale prima del gesto definitivo. L’esercizio è spoglio, gli espositori allineano poche cose, solo il pane fatto a mano dalla stessa gestrice appare alettante, come un prodotto del buon tempo andato. In questo scenario misero e quasi immobile i giorni passano tutti uguali, con la donna che tenta, spesso invano, di dissuadere quanti arrivano nel suo negozio dal proseguire altre, verso la mortale scogliera. A testimonianza di questa fatica conserva decine di scarpe che i suicidi, seguendo una sorta di rituale, lasciano per terra prima di saltare nel vuoto. Il film ha un andamento lento, omogeneo ai tempi che scorrono sullo schermo. E’ una scelta stilistica che infastidisce non pochi spettatori, ma che ha una sua ragione funzionale ed espressiva. Come dire un film non facile che richiede pazienza e attenzione, ma che premia lo spettatore con riflessioni non banali sullo scorrere della vita.

altSempre in concorso si è visto anche La Estrada de Palha (La strada di paglia) del portoghese Roderigo Areias, una sorta di western filosofico legato al credo del pensatore americano Henry David Thoreau (1817 – 1862) autore del famoso libro sulla Disobbedienza Civile (Civil Disobedience, 1849) molto amato da ecologisti e anarchici pacifisti. Molte frasi tratte da quel volume e da altri scritti di quel filosofo punteggiano vari momenti di un film le cui immagini, di una natura dalla bellezza straordinaria, accompagnano il cammino verso una vendetta che non sarà mai consumata. A compierlo è un uomo di mezza età che, venuto a sapere nel ritiro innevato in cui si era autorecluso, dell’uccisione del fratello, che è stato anche derubato del gregge che accudiva, si lascia alle spalle il ritiro solitario, s’imbarca, raggiunge la patria d’origine e inizia la caccia agli assassini scontrandosi con un ufficiale fanaticamente ossequioso della regole di buona condotta e con una giustizia ben più formale che sostanziale. Finirà per non uccidere chi lo ha perseguitato e fatto incarcerare, voltando ancora una volta le spalle al mondo cosiddetto civile. Il film ha un ritmo decisamente lento, inanella paesaggi bellissimi, ma ha anche la debolezza delle opere a tesi ove ciò che si vuole dimostrare conta più del modo in cui lo si racconta.

U.R.
altForse per ridurre la tensione emotiva della prima giornata, nella sezione dei film in concorso dell’Est sono state proposte due commedie, la prima con letture interessanti anche a livello sociologico, la seconda composta di quattro episodi molto dissimili tra loro per qualità e originalità nonostante siano diretti dallo stesso regista. L’estone Seenelkäik (Andare per funghi) è diretto con bravura da Toomas Hussar. I personaggi sono pochissimi, l’azione è sempre alta come del resto il divertimento. Un politico molto in vista decide di andare in un bosco per raccogliere funghi con la moglie; per strada incontrano un noto chitarrista che caricano in macchina. Giunti nel luogo dove devono proseguire a piedi, il musicista decide di rimanere comodamente seduto. Gli altri iniziano l’infruttuosa ricerca, si perdono, intravvedono una bella e fortunata raccoglitrice; si fa notte e, nonostante il cellulare, non riescono a farsi aiutare. Intanto nei pressi dell’auto giunge un malvivente che cerca di rubarla. Negli ottanta minuti della sua durata accade di tutto e di più, riesce a perdersi anche un terzo in fuga dal malintenzionato, ma così facendo incontra la coppia. E così via. La morale sta nelle scene finali quando l’uomo politico, durante una conferenza stampa in cui non nasconde di avere avuto paura e di non essere stato in grado di gestire la situazione, riesce a capovolgere i fatti negativi in sua umanità, nei suoi valori di uomo vero che dona se stesso al popolo. E’ un debutto in regia e sceneggiatura che coniuga, noir, satira, suspense, tragicomico in un cocktail allegro ma non troppo.
altPraktični vodič kroz Beograd sa peva (Guida pratica a Belgrado tra musica e pianto) racconta storie d’amore affermando che nella capitale serba tutti trovano l’anima gemella o s’innamorano definitivamente del partner. Brava chitarrista e cantante francese giunta a Belgrado per esibirsi in un festival mette in crisi il malcapitato autista (al primo giorno di lavoro) del minibus del transfer ubriacandosi, scappando, baciando in bocca uomini e donne, il tutto perché è stata abbandonata dal marito. Uno pseudo diplomatico americano accoglie la padrona Melita in elegante camera d’albergo, la vorrebbe sposare, lei forse accetta ma quando lui confessa di essere un cuoco dell’Ambasciata, lei si vendica in maniera terribile. Un uomo d'affari tedesco d’origine turca ha il volo annullato e si trova, quasi senza capire la ragione, nel letto di bella cameriera non prima di essersi ubriacato con lei; ma lei non è una mangia uomini, anzi, è una dolce mamma. Due poliziotti molto espansivi, dopo anni in cui convivevano, decidono di sposarsi scortati dai colleghi; ma l’uomo fa l’errore di confessare alla neo moglie di averla tradita, ma anche la donna ha i suoi cadaveri nel cassetto. I vari episodi sono seguiti da canzoni ironiche eseguite da un coro che di volta in volta indossa gli abiti dei carcerati, delle hostess e così via Ognuno a modo loro, tutti questi personaggi cercano di trovare l’amore nella città che dopo anni d’isolamento apre le sue porte al mondo. Nulla da eccepire sulle buone intenzioni del debuttante Bojan Vuletic, ma la scarsità di trovate, l’ovvietà degli sviluppi, l’assurdità di certe situazioni aggiunta alla disparità di bravura fra i vari interpreti, fa di questa commedia un qualcosa che, alla fine, irrita in maniera completa.
altIn questa terza giornata si entra nel vivo della competizione con due titoli di sicuro interesse, anche se non necessariamente dello stesso livello. La Polonia ha presentato Beze Studu (Senza vergogna), dove per il debutto nel lungometraggio il regista Filip Marczewski sviluppa il tema del suo cortometraggio di successo Melodrama (Melodramma), che era entrato nella rosa degli Oscar 2006. Una diciottenne giunge a casa della sorellastra per trascorrere le vacanze. Il loro è un rapporto particolare, in passato sfociato nell`incesto, anche se la giovane ora lo rinnega. Anche perché ora si è messa assieme a leader di movimento neo nazista e spera con lui di costruire un futuro migliore. Il giovane è geloso, cerca di avere rapporti sessuali con lei ma viene sempre più allontanato. Nel frattempo, il giovane conosce bella coetanea rom, tra i due nasce amicizia, forse lei s’innamora e vorrebbe andare via con lui per evitare matrimonio combinato dalla famiglia. Il ragazzo non vuole capire e si sente appagato solo quando la sorellastra gli cede per l`ultima volta. Finale drammatico, prevedibile ma ottimamente sviluppato. Esperto documentarista il regista evita di sfruttare il soggetto per creare immagini esplicite, dimostra grande comprensione per i suoi personaggi e il loro dramma. Tema importante è l’intolleranza razziale, i gruppi neo nazisti che vogliono eliminare i rom ma anche chiunque non la pensi come loro. Il ruolo del ragazzo è ottimamente interpretato da uno degli attori più amati della nuova generazione polacca, Mateusz Kościukiewicz, che all’edizione del 2010 di questo festival aveva ottenuto il premio per il migliore attore.
altCoprodotto da Polonia e Repubblica Ceca, Yuma (Yuma) è film di grande complessità narrativa in cui molto è lasciato alla lettura personale dello spettatore e poco è fornito come dato certo dal regista Piotr Mularuk. Siamo nei primi anni `90 al confine polacco - tedesco. In una piccola, noiosa, triste cittadina vive il ventenne Zyga che trascorre il tempo con i suoi amici, sognando la vita di lusso della zia che gestisce il contrabbando, una casa di tolleranza e un bel pub. Quando lei gli propone di entrare in affari, lui immediatamente accetta. Dapprima solo, poi in compagnia degli amici, compie frequenti viaggi a Francoforte, dove portano sigarette e comprano ogni cosa che possa essere venduta nel loro paese. Osano sempre di più, compiono rapine, diventano violenti. Gli amici si trasformano in piccoli boss della criminalità, lui diventa l’amante della congiunta e il più temuto criminale della cittadina. Riesce a creare un Saloon, chiamato El Dorado, che concreta un suo sogno di grande appassionato del West, tutti sembrano essere felici ma antiche rivalità mai dimenticate portano alla distruzione del locale e alla fine dei sogni di Zyga che torna alla sua triste normalità, con il timore che quella sarà la sua vita per sempre. Mille sono le cose dette, poche quelle che hanno uno sviluppo logico, concreto. Questo è un problema che spesso affrontano i registi all’opera prima quando, volendo dire troppo, non riescono a trasmettere nulla. Piotr Mularuk non ha ancora una vera visione cinematografica e dà l’impressione di non sapere come terminare una certa scena. Troppi i personaggi di cui non si coglie l’importanza, situazioni che appaiono irrisolte, la sensazione che il film forse durava il doppio, ma è stato tagliato per riuscire a trovare una distribuzione. Il budget è notevole, ma la qualità è low cost.
F.F.


 

altQuesta non è stata una giornata particolarmente felice, almeno per ciò che concerne le presentazioni di opere in concorso. Si è iniziato con Pelé akhar (L’ultimo passo) dell’iraniano Ali Mosaffa che mette in scena un triangolo amoroso fra una nota attrice, il marito e un medico cui lei è stata innamorata quando erano ancora adolescenti. La donna scoppia a ridere mentre sta girando una scena drammatica e non riesce a smettere. La produzione s’interrompe ed è l’occasione per scoprire che l’insolita reazione è legata alla notizia della morte di suo marito, caduto accidentalmente dalle scale secale dopo che lei lo aveva colpito alla testa con un mestolo durante una lite coniugale. Sarà proprio il morto, narratore e protagonista, a raccontarci come sono andate le cose. Veniamo così a sapere che l’uomo aveva appena appreso dal medico, ex fiamma di sua moglie, che, forse, era ammalato di cancro al cervello e non aveva molte speranze di sopravvivere. La notizia si rivelerà falsa, ma sarà la ragione del pessimo comportamento dell’uomo e della conseguente lite con la moglie. Finale all’insegna dell’ottimismo, con l’attrice che riprende a recitare bene e l’ex innamorato pronto a rientrare in gioco. Il film s’inquadra in quel filone sulla borghesia di Teheran che sembra aver canalizzato l’interesse dei pochi cineasti sopravvissuti alla furia dei preti islamici. Forse è così, ma questo non mette al riparo da una cronica debolezza sul fronte cinematografico: poche volte c’è capitato di assistere a un’opera in cui tutto o quasi è detto e ben poco è visto. In altre parole, è il classico prodotto a tesi, forse accettabile sulla pagina scritta ma deludente, molto deludente sullo schermo.
altLe cose sono andate ancor peggio col ceco Polski Film (Film polacco), un pasticcio indigesto la cui presenza in concorso appare del tutto ingiustificata. Quattro attori di successo locale – Pavel Liška, Tomás Matonoha, Josef Polašek e Marek Daniel – fingono d’imbarcarsi nella produzione di un film finanziato dai polacchi, in cui ciascuno di loro fa guai di varia natura, vuoi per la pronuncia imperfetta, l’afflizione da problemi familiari o da turbe psicologiche. Alla fine ne usciranno più amici e più forti di prima. Per raccontare questa storiella il regista praghese Marek Najbrt impiega quasi due ore riempiendole con giochi di macchina, interventi diretti verso il pubblico, salti di luce, panorami turistici di città ceche e polacche. Si ha l’impressione che questo giro turistico, probabilmente finanziato dai vari enti di promozione locale, costituisca la vara ragione d’essere del film. Se così è, e i dubbi sono davvero ridotti al lumicino, commercialmente l’operazione può anche funzionare, ma perché infliggerne il risultato agli spettatori?

altUna parziale riconciliazione con il cinema ceco è venuta da Posel (Il messaggero) del regista cinematografico e teatrale Vladimir Michálek. E’ la storia del quasi trentenne Petr, inquieto e amante della bicicletta, che vive facendo il pony express per una ditta di consegna della corrispondenza. Lui e un suo collega amano sfidarsi in spericolate gare di velocità fa il traffico caotico e le strette di Praga. Una di queste sfide si chiude tragicamente e l’amico, investito da un furgoncino, finisce sulla sedia a rotelle. Per il giovane è la fine di una vita da ragazzino e l’obbligo di capire che una stagione è finita, cosa che lui non accetta condannandosi a un finale tragico, non privo di venature ironiche. Non è un capolavoro, ma un film ben costruito, altrettanto bene interpretato e che si fa perdonare un certo moralismo – i cattivi, alla fine, sono sempre puniti – con un ritratto non banale della precarietà cui sono costretti molti giovani. In questo senso un dato di particolare interesse è rintracciabile nel conflitto che percorre tutta l’opera, e che è possibile riassumere nello scontro fra voglia di libertà e obblighi imposti da una società capitalista che, per certi aspetti, è persino più oppressiva del regime realsocialista che l’ha preceduta. In questo offre squarci non banali, come la solitudine femminile, la ferrea disciplina gerarchica che governa il mondo del lavoro, il ritmo caotico e disumano che segna il mondo moderno. Un ordinamento contro di cui il protagonista si scaglia inanellando pedalate, anche se la sua lotta sarà inevitabilmente destinata al fallimento.
U.R.
altTeddy Bear (Orsachiotto) è opera prima del trentaseienne regista danese Mads Matthiesen che ha deciso di riprendere il personaggio di Dennis, da lui utilizzato in un corto del 2007, sempre interpretato dal culturista e attore Kim Kold. Il film è stato presentato nella sezione Another View e ha ottenuto una rara standing ovation. Intendiamoci, non siamo di fronte ad un capolavoro ma a una bella commedia in cui il modo di raccontare è coinvolgente, la storia credibile e in cui il protagonista conquista immediatamente il pubblico. I temi sono più seri di quanto potrebbero apparire: c’è il turismo sessuale, l’accettazione sia dagli orientali sia dagli europei, fuori dal gioco delle donne di casa propria, di matrimoni dove l’amore forse nascerà dopo. Dennis è un atleta che partecipa a molte gare, vive con la madre iperprotettiva che lo considera un cucciolo di 110 chili e di quasi due metri di altezza da difendere dal mondo. Quando vanno al matrimonio di un parente con bella tailandese, si convince che per lui l’unica strada verso la normalità sia questa. Dice di andare a Dusseldorf ma parte per Pattaya dove si rivolge alle persone segnalategli dal novello sposo. Incontra varie prostitute ma s’innamora di ragazza che lavora in palestra. Torna in Europa, affitta appartamento, lei lo raggiunge e finalmente avrà il coraggio di divenire uomo disobbedendo alla madre. Molto bravo Matthiesen nel raccontare Pattaya e la Tailandia non come paradiso maledetto bensì quale luogo di povertà in cui ogni sistema è valido pur di tentare di cambiare in meglio la propria vita. Sia chi giunge lì che le persone che ci abitano sono vittime di un destino che li ha penalizzati e segnati forse per sempre.
altA vizsga (L’esame) è diretto dall’ungherese Péter Bergendy dopo sette anni dalla sua opera del debutto Állítsátok meg Terézanyut! (Ferma mamma Teresa!). Sicuramente ha imparato il mestiere e realizza un film di buona qualità tecnica, ma gli manca ancora la capacità di narrare con logica temporale e, soprattutto, senza annoiare lo spettatore con eccessive lungaggini. Un anno dopo la rivolta del 1956, l'Ungheria è ancora nella morsa della paura. Un giovane agente è sottoposto a una prova di lealtà, ma in questa maniera sono messe a nudo anche sue situazioni personali. Riuscirà a superare l’esame e, soprattutto, è l’unico a essere sottoposto a questi controlli? La vicenda è interessante: il giovane e ambizioso agente che vive sotto copertura e che raccoglie notizie dagli informatori, il suo capo che lo stima ma che non si preoccupa di farlo spiare, la fidanzata del ragazzo che forse non è quello che sembra. Peccato che il regista, dopo i primi venti minuti in cui costruisce ambientazione e presenta i personaggi, sembri dimenticarsi del linguaggio cinematografico raccontando senza partecipazione, come fosse un elenco privo di emozioni, lo sviluppo della vicenda. Così, non è sfruttata la carta della vigilia di Natale in cui si svolge la vicenda, non sono raccontati i personaggi che sono come figure inanimate sullo schermo. Resta l’interesse per un periodo della nostra storia recente realmente poco noto.
F.F.


altLa sezione competitiva ha ospitato il ritratto di due drammi personali, il secondo dei quali può esse anche letto come metafora sociale. Procediamo con ordine. La lapidation de Saint Etienne (La lapidazione di Santo Stefano) dello spagnolo Pere Vilà Barceló radiografa, quasi in presa diretta, le ultime ore di vita di un restauratore, interprete il redivivo Lou Castel fisicamente irriconoscibile per chi lo ricordi nel quasi esordio (aveva già partecipato, non accreditato, a Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti) bellocchiano ne I pugni in tasca, 1965). E’ un ebreo anziano e vedovo che non riesce a superare il lutto per la morte della moglie, deceduta fra atroci sofferenze. Ora vive solo nella casa di proprietà della figlia – i due si detestano – fra sporcizia e circondato da un disordine degno di una discarica. Anche la sua salute non è buona, poiché deve portare attaccato a un fianco un sacchetto che raccoglie feci e bile. In queste terribili condizioni lui rifiuta ogni aiuto e continua a rimettere in ordine statue e oggetti antichi. Naturalmente c’è una precisa contraddizione fra il caos che lo circonda e l’aggiustatura di vecchie cose. Una contraddizione che è l’essenza stessa dell’insanabile dolore con cui convive. Un giorno, colpito da un attacco cardiaco, rimane immobilizzato a terra ma anche in questo caso rifiuta di mettersi d’accordo con la figlia che, cinicamente, gli propone di aiutarlo in cambio della promessa che lascerà la casa che lei vuole vendere perché ha bisogno di soldi per la bambina che porta in grembo. Ancor più contrariata la donna, se ne va e lo lascia morire da solo. La regia punta non poco su elementi macabri e disgustosi, registra l’agonia quasi in tempo reale e non risparmia nessun particolare spiacevole. E’ un film di difficile sistemazione sia dal punto di vista del senso del racconto, sia da quello cinematografico per cui, spento lo schermo, non rimane che alcune perplessità e altrettanto disgusto.

altAnche To agori to fagito tou pouliou (Il ragazzo che mangiava mangime per uccelli), opera prima del greco Ektoras Lygizos affronta un lacerante dramma personale, ma lo fa in modo da consentire di cogliere una dolorosa metafora sulla condizione dei giovani greci. Per tre giorni la macchina da presa pedina un ragazzo disoccupato, poverissimo ma dotato di una voce da tenore di rara bellezza. Il giovane vive nella più assoluta povertà, si nutre del miglio del suo canarino, di scarti di cibo destinati all’immondizia e persino del suo stesso sperma. La sua sola passione, oltre al canto, è la giovane receptionist di un grande albergo, ma anche quando riuscirà a conoscerla e a farsi invitare, le cose non andranno meglio, perché la ragazza lo metterà alla porta inorridita dai capelli che perde copiosamente a causa della fame che ha sofferto. L’ultima immagine lo mostra accucciato davanti alla gabbietta dell’amato canarino che canta a gola spiegata. Forse è un segno che la resistenza alla sfortuna alla fine paga. Metafora si è detto, infatti questa tremenda vicenda di fame e di arte dissipata richiama le dure condizioni che migliaia di giovani greci devono affrontare a causa della crisi economica e la disoccupazione dilagante. Letto da questa prospettiva il film offre molti spunti interessanti e si lascia perdonare per i non pochi momenti disgustosi che lo punteggiano.

U.R.

altHoly Motors (Motori santi), presentato nella sezione Orizzonte, è un ottimo esempio del cinema di Leos Carax. Alfiere del cosiddetto cinéma du look, insieme con autori quali Luc Besson e Jean-Jacques Beineix, noto soprattutto per Gli amanti del Pont-Neuf (1991). Il film e stato presentato a Cannes e, come sempre, ha avuto pareri discordi. Del resto, la missione di questo regista è di rifuggire dal banale, da vicende troppo prevedibili, da un mondo troppo convenzionale. Ha anche vinto il Pardo d’onore al festival di Locarno. S'inizia con una sala cinematografica affollata di gente immobile. Ci sono frammenti delle cronofotografie degli atleti fotografati da Étienne-Jules Marey (1830 - 1904). Un uomo che scopre una porta nascosta che lo porta proprio in quel cinema. Questo conduce verso un mondo parallelo, apparentemente realistico ma di cui si scopre l`assoluta pazzia dopo pochi minuti. Monsieur Oscar sembra essere banchiere con limousine, ma ben presto si trasforma in mendicante, attore impegnato in una sessione di motion capture, il mostruoso Monsieur Merde, un padre, un killer, un vecchio morente e tanto altro ancora. Il grande Denis Lavant agli ordini di Carax si vota completamente a questa vicenda tanto bella quanto complessa. La limousine è un camerino dove si trasforma, l`autista è una donna forse sua segretaria, ma potrebbe anche essere il suo agente (alla fine della giornata lo paga per le sue prestazioni). Il film potrebbe peccare d’intellettualismo ma, alla fine, dimostra di avere mille cose da dire, tutte con una morale ben precisa. Si sorride, si ride, si vive il dramma di Mister Oscar ma anche dei personaggi che interpreta, compreso un assassino. E` immortale, forse, e questa per lui rappresenta una vera condanna. Una holy motors (limousine) era protagonista anche di Cosmopolis di David Cronemberg, e questa rappresenta una singolare coincidenza, ma tra i due film esiste un abisso, forse anche per la diversa bravura dei due protagonisti.

altPer la sezione East of the West è stato presentato Ljudi tam (Fuori da lì) del lettone d’origine armena Aik Karapetian che firma la sua opera prima. Una periferia degradata, vicende normali di sbandati che non hanno un esempio da seguire, malviventi più per passare il tempo che non per vera esigenza. Un ventenne vive assieme al nonno che adora, e trascorre le sue giornate usando droghe leggere, facendo a pugni, rubacchiando il tutto assieme al suo amico del cuore Cracker. Tutto bene fino a quando, in una delle loro scorrerie, non nota bella ragazza dell’alta borghesia e inizia a sognare di conquistarla. Questo è l’inizio del dramma che porta l’amico alla morte, lui a perdere ancora più i limiti che esistono tra lecito e illecito, tra finzione e realtà. Con la macchina da presa a spalla il regista cerca di rendere maggiormente partecipi gli spettatori di quanto accade sullo schermo. Purtroppo, le intenzioni sono ottime ma il risultato finale è mediocre. Le ripetizioni, la mancanza di trovate, la mediocrità degli interpreti porta ogni cosa ai limiti minimi dell’interesse. Spesso l’opera prima è interessante se letta nella struttura narrativa immaginata, assolutamente deludente se unicamente giudicata per il risultato finale.

F.F.


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Chiudendo gli articoli dal Festival parliamo rapidamente di due titoli presentati a Cannes 2012 e qui rivisti nella sezione Orizzonti. Ulrich Seidl è, con Michael Haneke, il regista più apprezzato della cinematografia austriaca. Come nel caso del collega i suoi film sono riconoscibili per uno stile che muta non pochi elementi dal documentario, in ogni caso da uno sguardo freddo sulla realtà. Paradises: Liebe (Paradiso: amore), sua ultima fatica, prende di mira il turismo sessuale, ma lo fa al femminile. Tutto o quasi si svolge in un albergo keniota di buon livello che ospita, in viaggi organizzati, mature signore dal peso abbondante, il corpo quasi disfatto, ma ansiose di concedersi qualche ultima botta di vita con i gigolò locali. Questi ultimi non hanno scrupoli nel farsi pagare i loro servizi adducendo i più diversi pretesti: padri ammalati, fratelli vittime d’incidenti d’auto, e via dicendo. Naturalmente la realtà è assai più complessa di quanto sembri a prima vista, infatti le mature fräulein, chi più chi meno non cercano solo sesso brado, ma sprazzi d’affetto, briciole di quella considerazione umana che non riescono più a ottenere, se mai l’hanno avuta, dai partner ufficiali. Facile, quindi che scambino una marchetta per un possibile rapporto sentimentale. Il regista racconta tutto questo – forse con qualche ripetizione di troppo – badando a tenere sempre la distanza dai protagonisti. Se le compratrici d’amore hanno le loro ragioni per comportarsi in quel modo – nel caso della protagonista, assistente a persone minorate, un rapporto con la figlia quasi inesistente – i venditori non fanno che cerare di sopravvivere in situazioni disumane. Tutto questo è raccontato con la freddezza dell’entomologo che osserva sotto la lente il contorcersi di un qualche insetto, senza esprimere giudizi, ma avendo ben presente il quadro complessivo in cui la sua ricerca s’inserisce.
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Reality, ultima fatica di Matteo Garrone, ha riportato il Grand Prix al festival di Cannes 2012. Riconoscimento meritatissimo, forse ancor più di quello andato a Gomorra che ottenne lo stesso alloro a Cannes 2008, perché il film radiografa i profondi guasti culturali causati dalla televisione spazzatura. Luciano è un pescivendolo e un truffatore. Con la complicità della moglie fa acquistare a rate da povere vecchiette costosi elettrodomestici che poi i due rivendono a ricettatori senza scrupoli. Tuttavia la sua vera passione è salire su un palcoscenico, essere amato e idolatrato dalla gente, com’è accaduto a un suo concittadino, assunto alle cronache per aver partecipato a una serie de Il Grande Fratello. Anche lui s’imbarca, quasi casualmente, in una selezione per questa trasmissione e supera, o crede di aver superato, anche una seconda scelta. A questo punto perde completamente la testa, crede di essere continuamente spiato da agenti dell’emittente incaricati di valutare la sua bontà. Per questo vende il negozio, regala buona parte degli arredi di casa, offre pranzi e bevute agli indigenti. La situazione precipita quando la moglie lo affronta in malo modo, ma neppure questo servirà a qualche cosa: approfitterà di un pellegrinaggio a Roma per intrufolarsi nel set di Cinecittà ove si confeziona la trasmissione che tanto lo ossessiona. Ora è felice, solo in uno scenario di cartapesta, ma finalmente appagato. Il film è leggibile, sin dalle primissime inquadrature – la pacchianeria dei matrimoni ricchi contrapposta alla povertà delle dimore in cui vivono coloro che vi hanno partecipato – come una feroce metafora dello scontro fra finzione televisiva e realtà. Questa povera gente che sogna fama e ricchezza, mentre campa di piccole truffe, appartiene a quel popolino, se si preferisce sottoproletariato, di cui hanno parlato i grandi pensatori socialisti ottocenteschi, solo che oggi c’è in più la televisione con il suo potere travisante e tutt’altro che neutrale. Davvero un bel film.

U.R.

altDraga besúgott barátaim (Cari amici traditi) diretto dalla giovanissima Sára Cserhalmi qui alla sua opera prima, rappresenta con bravura e coraggio un periodo molto buio della recente Ungheria. Un ex agente segreto sessantenne decide di vedere i documenti che lo riguardano e scopre con disappunto e rabbia di essere stato controllato per anni dal suo migliore amico. La prima reazione è di raggiungerlo per vendicarsi ma si trova di fronte ad un uomo precocemente invecchiato, malato terminale di cancro, che ha il coraggio in televisione di denunciare se stesso e il regime. Non riesce a perdonarlo ma, quando morirà, la sua pietas lo porterà a seguirlo nel suo ultimo viaggio come fosse un parente o il suo migliore amico: ma non parteciperà al funerale. E` un dramma psicologico inquietante bene sceneggiato e diretto da una regista timidissima che, durante la presentazione del film, ha detto: non aspettatevi molto, se vi piacerà, ne parleremo dopo. In effetti, non siamo di fronte ad un capolavoro, ma a un’opera interessante, gradevole, mai supponente. Su questo tipo di argomento è fin troppo facile cadere nella retorica, nel melodrammatico. Grazie anche all’ottima prova fornita da János Derzsi, György Cserhalmi, Zoltán Schneider, sono tra i migliori attori cinematografici e teatrali magiari. Per la cronaca, alla fine la regista non si è presentata al pubblico, era intimorita e ancora incredula per gli applausi ricevuti. Sottovoce, ha detto: e pensare che non volevo venire. Grazie a chi ha creduto in questo film.
altE' interessante, divertente, particolare anche A Little Bit Zombie (Un poco zombi) del canadese Casey Walker presentato nella sezione Midnight Scrrenings (Film di mezzanotte). Anche in questo caso non siamo di fronte ad un capolavoro, ma a un esempio vincente di come un tema molto sfruttato come quello degli zombi possa ancora servire per sviluppi se non originali non troppo ovvi. Due coppie di amici giungono in bella casa di villeggiatura per trascorrere il week end divertendosi ma, anche, preparando le bomboniere per due di loro che si stanno per sposare. Tutto bene fino a quando una strana zanzara non punge il futuro marito che, piano piano, si trasforma vomitando materia lattiginosa, prendendo un bel colorito verdastro, non sentendo il dolore fisico. Dapprima la sua fidanzata lo rifiuta ma poi, pensando alle spese che ha avuto per i preparativi, decide che il matrimonio si deve fare. Tutti lo aiutano per tentare di riportarlo alla normalità ma una coppia di ammazza zombi giunge e vorrebbe ucciderlo. Complicazioni. I poco noti in Italia Stephen McHattie, Kristopher Turner, Crystal Lowe e Shawn Roberts credono nei loro strampalati personaggi e fanno spesso sorridere. Non è certo un film da proporre in concorso in un Festival come questo ma un’occasione per pubblico e critici di passare novanta minuti in assoluto relax.
F.F.


I premi

Selezione ufficiale - Concorso


altGran premio – Globo di Cristallo (25 000 Dollari).
Mer eller mindre mann (Quasi uomo) di Martin Lund (Norvegia, 2012).

Premio speciale della giuria (15 000 Dollari)
Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana (Italia, 2012).

Miglior regista
Rafaël Ouellet autore del film Camion (Canada, 2012).

Premio alla migliore attrice
Leila Hatami per la sua interpretazione nel film Peleh akhar (L’ultimo passo) di Ali Mosaffa (Iran, 2012).

Premio al miglior attore
Henrik Rafaelsen per la sua interpretazione nel film Mer eller mindre mann (Quasi uomo) di Martin Lund (Norvegia, 2012).

ex aequo

Eryk Lubos per la sua interpretazione nel film Zabić bobra (Uccidere un castoro) di Jan Jakub Kolski (Polonia, 2012).

menzione speciale

Pavel Liška per la sua interpretazione in Polski film (Film polacco) di Marek Najbrt (Repubblica Ceca / Polonia, 2012).
Tomáš Matonoha per la sua interpretazione in Polski film (Film polacco) di Marek Najbrt (Repubblica Ceca / Polonia, 2012).
Marek Daniel per la sua interpretazione in Polski film (Film polacco) di Marek Najbrt (Repubblica Ceca / Polonia, 2012).
Josef Polášek per la sua interpretazione in Polski film(Film polacco) di Marek Najbrt (Repubblica Ceca / Polonia, 2012).

Jannis Papadopoulos per la sua interpretazione in To agori troi to fagito tou polio (Il ragazzo che mangiava mangime per uccelli) di Ektoras Lygizos (Grecia, 2012).

Sezione East of the West


Premio East of the West (20.000 Dollari)
Dom s bashenkoy (La casa con la torretta) di Eva Neymann (Ucraina, 2011).

menzione speciale
Aurora (Le onde che scompaiono) di Kristina Buožytė e Bruno Samper
(Francia, Belgio, Lituania, 2012).

Concorso documentari


Miglior documentario di lunghezza superiore a trenta minuti (5 000 Dollari)
Poslednata lineika na Sofia (L’ultima ambulanza di Sofia) di Ilian Metev (Bulgaria / Croazia / Germania, 2012).
Miglior documentario di durata inferiore a trenta minuti (5.000 Dollari)
Story for the Modlins (Storia per i Modlins) di Sergio Oksman (Spagna, 2012).
menzione speciale
Soukromý vesmír (Universo privato) di Helena Třeštíková (Repubblica Ceca, 2012).

Forum degli indipendenti

Primo premio
Smrt čoveka na Balkanu (Morte di un uomo nei Balcani) di Miroslav Momčilović (Serbia, 2012).

Globi di cristallo alla carriera

Helen Mirren
Susan Sarandon

Premio del presidente del festival


Josef Somr


Premio del pubblico

Hasta la vista (Vieni come sei) di Geoffrey Enthoven (Belgio, 2011).


Premi non ufficiali

Premio della critica internazionale (FIPRESCI)
Peleh akhar (L’ultimo passo) di Ali Mosaffa (Iran, 2012).

Premio della giuria ecumenica

Camion di Rafaël Ouellet (Canada, 2012).
raccomandazione della giuria
Estrada de Palha (Strada di paglia) di Rodrigo Areias (Portogallo / Finlandia, 2011.)

Federazione dei critici europei e mediterranei (FEDEORA)

Premio Fedora per il miglior film della sezione East of the West
Poupata (Gemme) di Zdeněk Jiráský (Repubblica Ceca, 2011).

Giuria della rete per lo sviluppo del cinema asiatico (NETPAC)

Premio al miglior film asiatico
Tepenin Ardi (Oltre le colline) di Emin Alper (Turchia / Grecia, 2012).

Giuria dell’etichetta cinema europeo

Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana (Italia, 2012).

Progetti 2012 (10.000 Euro in servizi offerti dagli Studi Barrandov)

I Aionia Epistrofi Tou Antoni Paraskeua (L’eterno ritorno di Antonis P) di Elina Psykou (Grecia).