45mo Karlovy Vary International Film Festival

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45mo Karlovy Vary International Film Festival
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sito ufficiale: http://www.kviff.com/

Festival di Karlovy Vary 2010 - Giorno per giorno. 2-10 luglio 2010

Giovedì 2 luglio – Primo giorno.

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Il Festival Internazionale del film di Karlovy Vary, in Repubblica Ceca, è la più vecchia manifestazione cinematografica europea, dopo la Mostra del Cinema di Venezia. La rassegna nasce nel 1946 come passerella non competitiva, Solo dalla terza edizione, nel 1948, assumerà forma di concorso. Nel frattempo i partiti del fronte egemonizzato dal Partito Comunista ceco hanno assunto il potere (febbraio 1948) e trasferito il paese nell’area del socialismo reale. Sino al 1959 il festival prosegue con cadenza annuale focalizzando, in modo particolare, le cinematografie dei paesi emergenti e i film progressisti. Poiché, in quell’anno il Festival di Mosca s’impone come grande rassegna di film, i sovietici costringono la rassegna ceca ad assumere cadenza biennale, alternandosi a quella moscovita. La situazione rimane su queste basi sino al 1994, quando, dopo il crollo del regime, è l’intero paese a subire una svolta sia con il ritorno alla democrazia, sia con la divisione fra cechi e slovacchi. Quest’ultima fase è segnata dall’assunzione della responsabilità della selezione da Eva Zaoralova, critico sperimentato e intelligente. Sotto la sua guida il cartellone del festival inizia a presentare opere di grande interesse culturale, secondo una tendenza alla ricerca del nuovo che evita snobismi ed esagerazioni, ma mantiene i piedi saldamente immersi nel reale


 

Kooky
Kooky

 

Sabato 3 luglio – Secondo giorno.

Kuky se vraci (Kooky) di Jan Svěrák è un film di pupazzi ed esseri umani che racconta una storiella, a vago sfondo umanitario ed ecologico, basata su un pupazzetto caro a un ragazzo ammalato d’asma cui la mamma lo sottrae ritenendolo pericoloso per la polvere di cui è impregnato. La donna lo getta nell'immondizia, ma il bambino immagina che il giocattolo diventi protagonista di una favola popolata da cattivi custodi delle discariche pubbliche, viste come una sorta di lager, e di pupazzi buoni anche se dall'aspetto mostruoso che tutelano i diritti delle piante e degli animali che vivono nel bosco. Una favoletta destinata ai più piccoli, ma che piace anche ai grandi, almeno a giudicare dalle risate che hanno accompagnato la proiezione pubblica. Un racconto morale costruito con professionalità, ma che non va oltre questo livello.

 

Fratello e sorella
Fratello e sorella

 

Dos hermanos (Fratello e sorella) dell'argentino Daniel Burman è il classico film per attori, in questo caso Graciela Borges e Antonio Gasalla. E' il ritratto, desunto dal libro Villa Laura (2010) di Sergio Dubcovsky, di un fratello e una sorella sessantenni, single nonostante l'età, che si odiano, imbrogliano, ma non riescono a separarsi. E' la donna, in particolare, a fare brutti scherzi al fratello, che subisce sin quasi al masochismo, si ribella solo quando non ne può più, ma non riesce a recidere il legame con lei. Un testo in cui, come si è detto, le doti recitative la fanno da padrone, facendo scorrere la vicenda, tutt'altro che originale, in modo piacevole e mettendo in risalto le capacità professionali di regista e interpreti.

 


 

 

L'infanzia del male
L'infanzia del male

 

Domenica 4 luglio – Terzo giorno.

L'‘Enfance du Mal (L’infanzia del male) di Olivier Coussemacq ha al centro la figura della quindicenne Céline, decisa a vendicare l’ingiusta condanna inflitta alla madre che si è assunta la responsabilità dell’uccisione del marito e padre che aveva molestato sessualmente la figlia. In realtà è stata la giovane a uccidere, ma l’adulta si è assunta ogni colpa per mettere al riparo la sua vita futura della giovane. La ragazza fugge dalla casa - famiglia in cui è rinchiusa, ritrova il giudice che ha condannato la madre, lo fa innamorare, distrugge la sua famiglia e lo ricatta sino a costringerlo a far rilasciare la reclusa, garante l’ex moglie del magistrato, attivista di un movimento per la difesa delle donne. Così raccontato il film appare un melodramma abbastanza vecchio stile e tale è, anche se lo salva la bella interpretazione della giovane Anaïs Demoustier che riesce dare al personaggio di Céline una sfumatura d’innocenza e ambiguità che rendono la storia meno romanzesca e sicuramente attuale.

 

La zannzariera
La zanzariera

 

La Mosquitera (La zanzariera) dello spagnolo Agustí Vila radiografa una crisi coniugale con i coniugi che si tradiscono vicendevolmente - lei con un adolescente compagno di scuola di suo figlio, lui con una donna di servizio straniera - per poi ritornate assieme, riconciliati con il rampollo e con i numerosi cani che questi porta a casa quasi ogni giorno. E’ un film che vorrebbe radiografare la difficoltà del vivere e la complessità delle relazioni fra genitori e figli, ma che scivola nella commediola banale infarcita di personaggi assai poco definiti e ancor meno credibili.


Tre tempi dopo la morte di Anna
Tre tempi dopo la morte di Anna

Lunedì 5 luglio – Quarto giorno.

Trois Temps Après la Mort d’Anna (Tre tempi dopo la morte di Anna) della canadese Catherine Martin racconta l’elaborazione del lutto da parte di una madre che ha perso la figlia, giovane violinista, uccisa da un maniaco. La donna si ritira in una casa di campagna, assediata dal gelido inverno e qui percorre tutte le tappe dalla disperazione, compreso il tentato suicidio, per poi riemergere alla vita anche grazie le cure di un vicino, un pittore che un tempo è stato il suo compagno e che non l’ha mai dimenticata. Il film ha un taglio intimista molto spinto al punto che rischia di far dimenticare le ragioni del dolore, mettendo in risalto solo l’arte mimetica dell’attrice, una straordinaria Guylaine Trmblay. In definitiva è un testo valido più per la precisione professionale che non per l’originalità del discorso. In particolare, è da dimenticare l’intrusione nella storia di alcuni fantasmi benevoli, da quello dell’uccisa, alla nonna e alla madre della protagonista.

 

3 stagioni all'inferno
3 stagioni all'inferno

 

3 Sez ny v Pekele (3 stagioni all’inferno) del praghese TomᚠMašin prende spunto dal libro autobiografico I primi dieci anni dello scrittore ceco Egon Bondy (Zbynêk Fišer - 1930 – 2007). Il periodo focalizzato è quello che va dalla fine della seconda guerra mondiale all’imposizione del regime realsocialista, dal 1945 al 1948. Il diciannovenne Ivan Heinz, figlio di un militare di carriera, sogna di diventare un poeta surrealista, assume atteggiamenti fortemente anticonformisti, coniugati con la partecipazione alla bella vita dell’alta borghesia praghese. Diventa l’amante di una donna dai voraci appetiti sessualmente promiscui. Quando il fronte egemonizzato dal Partito Comunista s’impadronisce del potere, i sogni naufragano uno a uno e Ivan, arrestato mentre tenta di rientrare in Cecoslovacchia dopo un primo espatrio in Austria, sperimenta sulla sua pelle la durezza del nuovo regime. Finirà col fingersi pazzo per evitare il plotone d’esecuzione e passerà in manicomio non pochi anni. Il film è solido, ben costruito, generico quanto solitamente ci si aspetta da un biopic, ma tutt’altro che spiacevole. Ottima l’interpretazione, volutamente sopra le righe, quella del giovane Kryštof Hádek. Nel complesso è un testo di ottima fattura intriso di autentico dolore e voglia di vivere.

 


 

 

Ci sono cose che voi non sapete
Ci sono cose che voi non sapete

 

Martedì 6 luglio – Quinto giorno.

Chiz-Haie Hast Ken Nemidani (Ci sono cose che non sai) segna il debutto nel lungometraggio dell’iraniano Farid Saheb Zamani e fa da spia al fermento che, fortunatamente, ancora cova sotto la cappa della censura clericale di Teheran. Ali è un ex-studente, ora tassista per una piccola società, passa i giorni e le notti sulle affollate strade dalla capitale, mentre la sua vita privata si riduce a un appartamento minuscolo e a un gattino che, da qualche giorno non si fa vivo. Attraverso le conversazioni con le varie persone che carica e le conversazioni ascolta, il film disegna un ritratto duro e lucido della vita che brulica sotto il tallone del regime. In particolare ci sono due donne, una che ha conosciuto (e amato?) durante gli anni dell’università, un’altra che va a prendere ogni giorno a un’ora prestabilita per portarla ad assistere il padre gravemente infermo. Con quest’ultima s’intravvede un barlume di storia d’amore, spezzato dal ritorno del marito e dei figli. Come accadeva ai tempi dei cosiddetti film dei telefoni bianchi in epoca fascista, sono più le cose che il regista suggerisce di quelle che sono dette apertamente. Ciò che realmente conta è il senso di un’oppressione compatta che impedisce e perseguita anche le azioni più banali, come scegliere un film da vedere o andare in giro con un’amica. Oppressione non disgiunta da un filo di speranza, incarnata da quel terremoto che tutti aspettano e che arriva proprio nell'ultima inquadratura. Certo questi sono aspetti che possono essere colti da chi guarda al film con occhio attento anche ai minimi particolari e, soprattutto, da chi ricorda il senso, lontano ma convergente nella denuncia della follia generata dall’oppressione, dei due film cui l’autore apertamente si ispira: Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese e Dieci (Ten, 2002) di Abbas Kiarostami.

 

Madre Teresa dei gatti
Madre Teresa dei gatti

 

Matka Teresa od Kotów (Madre Teresa dei gatti) segna l’esordio nel lungometraggio del veterano polacco Pawel Sala. È la storia di un matricidio efferato, la vittima è tagliata a pezzi, compiuto da un giovane, con la complicità del fratello. La storia e le motivazioni sono ripercorse all’indietro al ritmo di giorni, dapprima, poi di mesi sino ad arrivare all’anno che precede il delitto. Non è una struttura di facile o immediata comprensione, che l’autore riempie di riferimenti che vanno dalla guerra in Iraq (il padre è un militare che ritorna dal fronte profondamente turbato), alla crisi economica (la perdita di gran parte dei risparmi nel tracollo dei titoli spazzatura), alla dissoluzione della famiglia in senso tradizionale (i figli uccidono soprattutto per avere i soldi per comperare giochi elettronici e altri gadget), alla follia dell'animalismo (la madre ospita decine di gatti randagi), al proliferare delle sette sataniste. E’ molto, troppo, materiale da manovrare per cui il film finisce con non affrontare nessun tema specifico, ma citarli tutti. C’è molta maestria nella conduzione della storia, ma non tanta da dare compattezza e unità all’intero discorso. In altre parole si ha più l’impressione di un virtuosismo fine a se stesso che non di una vicenda autenticamente sofferta e partecipata.

 


 

 

Hitler a Hollywood
Hitler a Hollywood

 

Mercoledì 7 luglio – Sesto giorno.

Hitler à Hollywood (Hitler a Hollywood) del belga Frédéric Sojcher ha la forma di una falsa inchiesta in cui l’attrice e regista portoghese Maria de Medeiros è sulle tracce di un film interpretato da Micheline Presle, girato nel 1939 e diretto da un misterioso cineasta, Luis Aramcheck di cui si è persa traccia. Dopo un gran numero d’interviste a famose personalità del mondo del cinema, pellegrinaggi a Londra, Parigi, Malta, Cannes, Berlino la ricercatrice scopre un vero e proprio complotto internazionale: Luis Aramcheck aveva in mente di realizzare, con altri, un enorme centro cinematografico, in grado di fare concorrenza a Hollywood, ma furono proprio gli americani, scoperti i fini del disegno, a tramare, in modo anche cruento, contro il cineasta, facendone abortire l’idea. Perché, come afferma Andrey Konchalovskiy, ormai cineasta americano, anche se fratello del più noto Nikita Mikhalkov, l’idea di libertà di Hollywood è che se in un paesino italiano ci sono due cinema, essi si devono fare concorrenza, a patto che entrambi proiettino film americani. Alla fine della lunga ricerca l’attrice ritroverà il cineasta scomparso, rifugiatosi a Malta fra le rovine del suo sogno, giusto in tempo perché anche quei resti deruti siano bombardati da un aereo americano. Il film è una divertente perorazione in favore del cinema autenticamente europeo e, non a caso, si chiude con l’immagine del centoduenne Manoel de Oliveira cui il film è dedicato. Un’orazione che suscita solidarietà e malinconia. La seconda legata al fatto che la cultura americana sembra aver ormai sgominato ogni resistenza, non solo in campo cinematografico, per cui appare difficile, per non dire impossibile, immaginare un moto di rivolta o una semplice rinascita del film europeo. Da notare, infine, l’ottima fotografia che alterna effetti elettronici a brani d’attualità e a sequenze d’ordinaria forma cinematografica.

 

Diago
Diago

 

Ao Ge (Diago) del cinese Chi Zhang è ambientato a Macao ed è tratto da un racconto di Lio Chi-Heng, uscito in occasione del decimo anniversario del trasferimento dell'’excolonia portoghese (tale dal 1557) all'’amministrazione speciale della Repubblica Popolare Cinese. Siamo nel 1999 e, mentre la televisione  scandisce le ore del passaggio, il doganiere Diago vive un’'esistenza sempre più disperata fra amici che sognano impossibili vincite al gioco e finiranno uccisi dai creditori, e altri che cercano di adattarsi alla nuova realtà o progettano di emigrare a Lisbona. In più è ossessionato dalla ricerca del padre, un attore portoghese che ha messo incinta la madre ed è subito ritornato in patria. Parallela alla sua ricerca, simbolo di un’identità imprecisa e mai assimilata sino in fondo, la storia di una professoressa di mandarino, originaria della colonia, inviata presso la polizia di Macao con il compito di insegnare la nuova lingua agli agenti. Anche lei cerca la sua famiglia quale conquista di un'’identità più vera di quella che emerge dai suoi documenti. La ricerca dell'’uomo sortirà un risultato positivo, solo che, al momento di affrontare il padre carnale, preferirà lasciare sulla porta di casa una foto dei genitori e ritornare a Macao. Il film è costruito molto bene, ma soffre di un'’ufficialità e di un ossequio alle regole della propaganda cinese (con l’'arrivo della madrepatria ogni cosa va meglio di prima) che mette in crisi anche il più flebile accenno dialettico.


 

 

Un altro cielo
Un altro cielo

 

Giovedì 8 luglio – Settimo giorno.

Drugoje Nêbo (Un altro cielo) segna il debutto nel lungometraggio del georgiano Dimitri Mamulia. E’ un film sofferto, personale e molto bello che radiografa la disperazione di un pastore che vive in una grande steppa asiatica e il cui gregge è decimato dall’influenza suina. Sua moglie è fuggita da tempo per cercare una vita migliore e non ha lasciato indirizzo. Senza mezzi e accompagnato dal figlioletto arriva a Mosca con il miraggio di rintracciare la consorte. Le illusioni sono presto annullate dalle difficoltà di una vita miserevole, l'ostacolo della lingua (non parla russo), una sostanziale estraneità di quanti incontra, le difficoltà di trovare il denaro necessario a sopravvivere. Si rivolge alla polizia, fa ricerche negli ospedali e nei mercati, parla con i connazionali, svolge lavori di facchinaggio, impiega il figlio in una segheria. Due notizie arrivano a sconvolgere ulteriormente la sua vita: la morte del ragazzo in un incidente sul lavoro e la notizia che gli agenti hanno ritrovato l’indirizzo della moglie. Parte, la rintraccia e, insieme, ritornano in auto. Forse si è ristabilita una minima unità, forse sono solo due disperazioni che si associano per rendere meno dura la vita. Il film ha pochissimi dialoghi e gioca le sue carte migliori sul viso e sul corpo di Habib Bufares che si dimostra attore davvero straordinario. Sembrerebbe una storia individuale, invece, fa trapelare le difficoltà di esistenze estranee al boom economico di cui sembra godere la Russia. In questo senso la mostruosa macchina per il taglio degli alberi diventa il simbolo di un progresso che non ha nulla di umano e che, anzi, sradica i corpi, le culture e le anime con la stessa violenza con cui abbatte le betulle. E’ un’opera forte e di grande bellezza che reclama dallo spettatore attenzione e pazienza, ripagandolo con la comunicazione di un dolore umanissimo e tutt’alto che estraneo alla nostra vita, anche se viviamo a migliaia di chilometri dalla capitale russa.

 

Resti fra noi
Resti fra noi

 

Neka Ostane Medju Nama (Resti fra noi) del croato Rajko Grlić è una commedia amara sul genere di quelle che tanto hanno segnato la cinematografia jugoslava ante Emir Kusturica. L’obiettivo è puntato sulla borghesia di Zagabria, quella che è riuscita ad arricchirsi nel pieno delle guerre interetniche e la lacerazione del paese. Un ceto ben simboleggiato da Nikola, un agiato imprenditore che mantiene due famiglie, l'’una all'’insaputa dell’'altra, aiuta il fratello professore squattrinato e aspirante artista a sopravvivere e ha, quasi come unica occupazione, quella di portarsi a letto quante più giovani ragazze gli capitano a tiro. Alla morte del padre, un famoso pittore, i rapporti fra i due fratelli diventano ancora più stretti, si spalleggiano, coprono i reciproci adulteri e si danno da fare come due ragazzini. Tutto questo sino all’esplosione del dramma: la scoperta da parte della moglie legittima dell’altra famiglia e il tentativo di suicidio della consorte dell’artista, separata e impiegata di banca, causa la scoperta di un ‘ammanco di cassa di cui si è resa responsabile per pagare un bel gigolò con velleità di calciatore. E’' un film flebile, superficiale, a tratti divertente ma privo di una vera struttura narrativa. Una proposta godibile che neppure i vezzi e le smancerie di Miki Manojlović, attore mito del cinema serbo, riescono a trasformare in oggetto di riflessione.

 


 

 

I dirigenti
I dirigenti

 

Venerdì 9 luglio – ottavo giorno.

I titoli di cui abbiamo riferito sino ad ora esauriscono il ventaglio delle opere scelte per il concorso internazionale. Fra le decine di film che hanno partecipato al programma delle numerose sezioni in cui il festival si è articolato (documentari, opere di produzione indipendente, eventi speciali, tributi, orizzonti, film scelti dai critici della rivista americana Variety, recente produzione ceca, uno sguardo diverso,…) ne proponiamo due che, nell’assoluta diversità stilistica e narrativa, hanno rappresentato altrettante piacevoli sorprese. The Company Men (letteralmente: Gli uomini dell’azienda, ma meglio ancora I dirigenti) segna l’esordio alla regia nel lungometraggio dello sceneggiatore John Wells, di cui sono stati molto apprezzati i contributi a serie televisive di successo come ER (Pronto soccorso), The West Wing (L’'ala ovest), Third Watch (Il terzo sguardo) e China Beach (La spiaggia Cina). Questa sua nuova fatica conferma la capacità di Hollywood di tastare il polso alla realtà, ricavarne storie di alto contenuto drammatico, dare allo spettatore un ritratto, in tempi brevissimi, di quanto sta accadendo al paese. E’ la storia di tre dirigenti - il capo, il secondo e un giovane executive - che, quasi nello stesso momento, si vedono privati del lavoro causa la crisi attraversata dal paese e, in esso, dalla società di trasporti che li impiega. Situazione difficile, aggravata dal fatto che il capo supremo ha deciso di spostare l’asse aziendale dal settore base alla speculazione immobiliare. Privati di un consistente reddito devono fare bruscamente i conti con una nuova situazione economica: via le auto di lusso, le case milionarie, i vestiti e gli accessori firmati, l’abbonamento al campo di golf e altre piacevolezze. Dopo vari tentativi di ritrovare un impiego, approderanno ciascuno a esiti diversi, rappresentativi della società che rinasce dall’ubriacatura della finanza facile. Il giovane Bobby riscoprirà la forza e la bellezza del lavoro manuale trasformandosi in edile sotto la guida del cognato che aveva sempre considerato con malcelato disprezzo, l’ex - capo Gene (uno stupendo Tommy Lee Jones) recupererà la forza per mettersi in proprio e iniziare da zero, l’anziano Phil soccomberà alla disperazione e si ucciderà. Le prime due soluzioni individuano altrettanti modi per uscire dalle difficoltà e, soprattutto, recuperare alcuni dei valori base su cui si è fondata per decenni la cultura americana: lavoro e iniziativa individuale. Nel film ci sono almeno due sequenze memorabili: l’immagine delle scrivanie deserte dei licenziati e la visita ai capannoni abbandonati del porto di Boston, in cui l’esperto Gene impartisce un’elementare ma chiarissima lezione d’economia al giovane Bobby.

 

Miele
Miele

 

Bal (Miele) del turco Semith Kaplanoglu naviga su mari opposti a quelli percorsi dal regista americano. Il film, che costituisce la terza puntata della trilogia che questo regista ha avviato con Yumurta (Uovo, 2007) e sviluppato in Süt (Latte, 2008), ha ricevuto il massimo riconoscimento all’ultimo Festival di Berlino. Com’è nello stile di quest’autore è opera quasi muta, con lunghe sequenze in cui sembra che nulla stia accadendo, ma che contribuisco a creare una tensione artistica ed emotiva molto forte. La storia, se di storia si può parlare, è quella di un bambino che vive fra i monti con la madre e il padre apicoltore e falegname. Frequenta con scarso profitto la scuola elementare e sogna di ricevere un distintivo di merito, com’è già accaduto ad altri studenti. Un giorno il papà muore sul lavoro e lui e la madre rimangono soli ad affrontare una vita durissima. L’ultima immagine lo mostra mentre si addormenta alla base di un enorme albero: la natura è crudele, ma sa anche essere protettiva e con essa si deve convivere. Il film è molto bello e segnala come i germi lanciati sul terreno del giovane cinema turco stiano dando ottimi frutti. Una semina a cui ha contribuito in modo fondamentale Nuri Bilge Ceylan il cui primo film, Kasaba (La cittadella, 1997), si articolava in due parti, la prima delle quali ambientata proprio in una poverissima scuola rurale. In altre parole siamo alla presenza di un cinema che riesce a trasformare in pura poesia lo sguardo sul reale svelandone, nello stesso tempo, complessità e dolore.

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Conclusioni

La quarantacinquesima edizione del Festival ha confermato l’importanza e l’interesse di questa manifestazione. Lo ha fatto, soprattutto, con una selezione per il concorso che, contrariamente a quanto accaduto quest’anno a altre iniziative più blasonate come Berlino e Cannes, ha superato i risultati degli scorsi anni, proponendo, in tempi in cui il cinema attraversa una grave crisi d’idee e d’espressività, alcuni titoli di ottimo livello. Purtroppo continuano a pesare le difficoltà logistiche, con sale spesso inadeguate alla massa degli spettatori, in totale sono stati 126 808 i biglietti venduti, quando non addirittura improvvisate. Tutto questo induce a un giudizio largamente positivo e alla speranza che, per quanto riguarda le strutture, alla fine siano adeguate al prestigio e all’importanza della manifestazione.

 


La zanzariera
La zanzariera

 

I premi

Concorso lungometraggi

Gran Premio – Globo di cristallo e 30.000 Dollari da dividersi fra regista e produttore:

La mosquitera (La zanzariera, Spagna) di Agustí Vila.

Premio speciale della giuria e 20.000 Dollari da dividersi fra regista e produttore:

Kuky se vrací (Kooky, Repubblica Ceca, Danimarca) di Jan Svěrák.

Premio per la migliore regia:

Neka ostane medju nama (Resti tra noi, Croazia, Serbia, Slovenia) di: Rajko Grlić.

Premio alla migliore interpretazione femminile:

Anaïs Demoustier per la sua interpretazione in L’enfance du mal (L’infanzia del male, Francia) di Olivier Coussemacq.

Premio alla migliore interpretazione maschile:

Mateusz Kościukiewicz e Filip Garbacz per le loro interpretazioni in Matka Teresa od kotów (Madre Teresa dei gatti, Polonia) di Pawel Sala.

Menzioni speciali

Drugoje něbo (Un altro cielo, Russia) di Dmitri Mamulia

e

Chiz-haie hast keh nemidani (Ci sono cose che non sapete, Iran) di Fardin Saheb Zamani.

Concorso documentari

Miglior documentario sotto i trenta minuti e 5.000 dollari:

Upe (Il fiume, Lituania) di Julia Gruodienė e Rimantas Gruodis.

Miglior documentario oltre i trenta minuti e 5,000 dollari:

Familia (Famiglia, Svezia) di Mikael Wiström e Alberto Herskovits.

Menzione speciale:

Tinar (Iran) di Mahdi Moniri.

Sezione l’est dell’ovest

Primo premio e 10.000 dollari:

Aurora (Romania, Francia, Svizzera, Germania) di Cristi Puiu.

Menzione speciale

Püha Tõnu kiusamine (La tentazione di Sant’Antonio, Estonia, Svezia, Finlandia) di Veiko Õunpuu

Altri premi ufficiali del Festival

Globo di cristallo per il grande contributo artistico al mondo del cinema:

Nikita Mikhalkov, Russia

Juraj Herz, Repubblica Ceca

Premio del Presidente del Festival

Jude Law, Gran Bretagna

Premio del pubblico organizzato dal quotidiano Právo.

Oldboys (Vecchi ragazzi, Danimarca) di Nikolaj Steen

Premi non ufficiali

Cinema indipendente organizzato dalla Televisione Ceca e riservato al miglior fin programmato nella sezione Forum degli indipendenti.

Four Lions (Quattro leoni, Gran Bretagna) di Christopher Morris.

Premio insegna del cinema europeo

Il vincitore riceverà aiuti promozionali per la programmazione nel circuito del Cinema Europa.

Neka ostane medju nama (Resti fra noi, Croazia, Serbia, Slovenia) di Rajko Grlić.

Premio della critica internazionale (FIPRESCI)

Hitler à Hollywood (Hitler a Hollywood, Belgio, Francia, Italia) di Frédéric Sojcher.

Premio della giuria ecumenica

Drugoje něbo (Un altro cielo, Russia) di Dmitri Mamulia.

Premio Don Chisciotte (FICC – Federazione internazionale dei cineclub)

La mosquitera (La zanzariera, Spagna) di Agustí Vila.

Premio NETPAC (Circuito per lo sviluppo del cinema asiatico.)

Son of Babylon (I figli di Babilonia, Iraq, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Palestina, Emirati Arabi Uniti, Egitto) di Mohamed Al-Daradji.

e

Orion (Orione, Iran) di Zamani Esmati.