29 Luglio 2015
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72ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica di Venezia |
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Con Francofonia del russo Alexandr Sokurov è arrivato sugli schermi della Mostra il primo film degno del Leone d’Oro. Vi si racconta la strana collaborazione, nel 1940, fra il curatore del museo del Louvre, a Parigi, Jacques Jaujard (1895 – 1967), rimasto al suo posto anche sotto l’occupazione nazista e al servizio del governo collaborazionista di Vichy, e l’ufficiale tedesco conte Franziskus Wolff-Metternich (1893 - 1978). I due, senza mai stipulare un’alleanza formale, si ritrovarono nella protezione e nella sottrazione dei tesori del grande museo francese alla cupidigie e alla volgarità degli altri gerarchi nazisti, Hitler in primo luogo. Il regista ricostruisce questa relazione mescolando sequenze di fantasia a brani di repertorio, immagini dei grandi quadri a fantasmi di personaggi fiabeschi (Marianna) o del passato (Napoleone Bonaparte, Stalin). Ne nasce un discorso suggestivo e attualismo sul legame fra l’arte e il potere, fra la forza della creazione artistica e il ruolo dominante della politica anche quando, è il caso di Napoleone, essa sfocia nella costruzione di uno dei maggiori musei del mondo le cui collezioni sono costituite, per buona parte, dalle opere trafugate dall’esercito francese durante le guerre napoleoniche. Qui il paragone con il dittatore sovietico è sostanziato dal ricordo del milione di morti spirati durante l’assedio nazista di Leningrado (1941 – 1944). Un ricordo che potrebbe apparire un omaggio nostalgico se non fosse smentito dalla colonna sonora che accompagna le ultime immagini del film, quando l’inno della vecchia URSS risuona volutamente storpiato a ricordo della dissoluzione del primo paese socialista della storia. Non c’è nulla di lineare in questa rievocazione in cui s’incrociano le immagini del naufragio di un mercantile che trasporta i container in cui sono rinchiuse le maggiori opere del Louvre, il peregrinare di Bonaparte e Marianna nelle sale del museo, la rievocazione immaginaria degli incontri fra l’alto funzionario francese e l’ufficiale occupante. Un film da centellinare immagine per immagine, sequenza dopo sequenza.
Altrettanto non può dirsi di Marguerite che il francese Xavier Giannoli ha dedicato alla figura di una ricca nobildonna che, negli anni venti, sogna di diventare una grande cantante lirica pur senza disporre delle minime doti vocali. Illusa da una corte di famigli e servi abilmente organizzati sotto l’interessata regia del marito, un costruttore sull’orlo del fallimento, la donna passa da una truffa ad un’altra, sino a finire nelle mani di un sedicente artista d’avanguardia che la convince che la sue stonature fanno parte di un preciso progetto culturale di contestazione ai canoni borghesi. Scomparso, con un bel po’ di soldi, anche questo pseudo artista, ecco affacciarsi sulla scena un tenore omosessuale, spompato e sull’orlo della bancarotta che, previo versamento di somme cospicue, s’impegna a preparala per una recital che avrò esito tragico per la cantante. Il tema del discorso è quello della coincidenza fra sogni e realtà, fra capacità artistica e voglia di esserlo. E’ il classico film francese magistralmente interpretato, sviluppato (in cinque capitoli) con grande abilità e ricco più di parole che d’immagini, anche se la ricostruzione dell’epoca appare particolarmente curata. Un buon prodotto d’alta confezione ma scarsamente originale.
Qualche cosa di simile la si potrebbe scrivere anche per Black Mass (Black Mass – L’ultimo gangster) che Scott Cooper ha tratto dal libro di Dick Lehr e Gerard O'Neill dedicato alla gesta del criminale d’origine irlandese di Boston James Witney Bulger. Questo gangster controllò gran parte della malavita della città nei decenni settanta e ottanta, ci riuscì anche grazie alla complicità di alcuni funzionari della sede locale dell’FBI che lo presentarono ai superiori come una fonte informativa di grande importanza. La regia si muove sulla strada del classico film americano d’impianto poliziesco, sfruttando appieno le doti di un cast capeggiato da un Johnny Depp quasi irriconoscibile quanto sublime. E’ un film in cui le professionalità la fanno da padrone, mettendo in ombra i pur presenti significati sociali. Primi fra tutti i legami di famiglia e d’amicizia nelle comunità (italiani, neri, irlandesi) che vanno oltre qualsiasi rispetto per le norme o la legge.
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