29 Luglio 2015
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72ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica di Venezia |
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La 72ma edizione della Mostra d’Arte cinematografica di Venezia ha preso il via con una preapertura dedicata a Orson Welles (1915 – 1985) di cui è stata presentata, eseguita dall’orchestra classica di Alessandria, la partitura scritta da Angelo Francesco Lavagnino per il film Il mercante di Venezia (The Merchant of Venice, 1969) che il regista voleva trarre, con ottica fortemente filo – ebrea, dal dramma scritto, fra il 1594 e il 1597, da William Shakespeare (1564 – 1616). Si sono visti, poi, i trentacinque minuti di quel film recuperati da cinetecari di vari paesi, seguiti dalla proiezione di Otello (1949 - 1951) nella versione doppiata in italiano e premiata con la Palma d’oro dell’edizione 1952 del Festival di Cannes (il film fu selezionato come rappresentante del Marocco!). Un ricco materiale che ha avuto il merito di confermare la modernità dello sguardo di questo grande regista e la sua posizione in favore delle minoranze oppresse, quella ebraica prima di ogni altra.
La mostra ha poi presentato, fuori concorso, Everest di Baltasar Kormákur una superproduzione incentrata sulla tragica conclusione di una scalata organizzata nel maggio del 1996 da due società di turismo estremo, la Mountain Madness e la Adventure Consultants, che costò la vita a otto alpinisti fra cui i due organizzatori. Il film prende spunto dal libro Aria sottile di Jon Krakauer, anche se sullo stesso fatto esiste un altro volume, The Climb (L’arrampicata), scritto da Anatoli Boukreev. Il gioco registico guarda quasi esclusivamente alla maestosità dei panorami (parte del film è stato girato in Alto Adige) e alle personalità degli scalatori, senza porsi domande su ciò che incuriosisce da subito lo spettatore: quale è il legame fra affarismo e rischi di morte in queste operazioni al limite del possibile. Il film è girato in 3D e offre la dose di spettacolo che promette, ma non va oltre la superfice delle cose con tanto di trepidazioni, da parte di uno degli organizzatori per la figlia in arrivo.
Paradossalmente ha destato maggior interesse Un Monstruo de mil cabezas del messicano Rodrigo Plá, visto nella sezione Orizzonti, in cui si radiografa l’odissea della moglie di un malato terminale di cancro cocciutamente determinata a far curare il congiunto a spesse della compagnia assicurativa con cui i due hanno stipulato una polizza. L’unica strada si rivelerà quella di impugnare una pistola e costringere i massimi responsabili della società a stipulare un accordo. Purtroppo l’ammalto morirà prima e la donna finirà in prigione per minaccia a mano armata e ferimento. Il tema, di grande attualità non solo in quel paese, ricorda molto L'uomo della pioggia (The Rainmaker 1997), il film che Francis Ford Coppola, tratto dal libro omonimo di John Grisham. In qual caso la regia sfruttava appieno le occasioni drammatiche offerte dal dibattimento processuale di rito anglosassone, qui siamo più sul piano del film noir, ma attualità e drammaticità sono le stesse.
La trentesima edizione della Settimana Internazionale della Critica ha aperto il programma con un film cinese che, sin dall’inizio, si presenta come un’opera eccezionale. Jia (Famiglia) e una coproduzione fra Australia e Cina diretta dal quarantunenne Liu Shumin che si è preso un anno per realizzare quest’opera girata senza attori protagonisti e lunga ben quattro ore e quaranta minuti. Vi si racconta la vita e il viaggio di una coppia di settantenni, Liu e Deng. Che vivono in una piccola citta della Cina interna. La loro e una famiglia normale: la figlia maggiore Liqin, divorziata con un figlio adolescente, vive con loro. La seconda figlia, Xiaomin, e il figlio minore, abitano in città lontane e sono troppo occupati per andare a trovare i genitori. Questi ultimi decidono di mettersi in viaggio per essere loro a visitarli. Sarà un viaggio, lungo e difficile il cui obiettivo, neppur troppo celato, è quello di tenere unita la famiglia, nonostante la distanza. Un fatto tragico, con risvolti criminali, porrà fine alla vita in comune fra i due anziani coniugi. Il cinema a cui s’ispira questo regista è chiaramente quello di Yasujirō Ozu (1903 – 1963) sia per il tema affrontato, che ricorda da vicino quello di Viaggio a Tokyo (Tōkyō monogatari, letteralmente: Una storia di Tokyo) seppur con un’ottica più ottimista da parte dei due anziani, sia il modo di girare basato su una latitanza, al limite dell’assenza, di primi e primissimi piani, sia sulla composizione geometrica all’interno delle inquadrature, sia, infine, sulla riduzione all’osso dei dialoghi. Anco più che non nelle opere del grande regista giapponese, qui scorre l’ultimo mezzo secolo di storia del paese con gli orrori della rivoluzione culturale e i guasti dei cambiamenti economici che hanno messo assieme capitalismo selvaggio e dominio del Partito Unico. In altre prole è un quadro complesso della Cina profonda, delle ferite che le sono state inferte e che ancora pesano sull’esistenza di molti e sui prezzi umani imposti da uno sviluppo economico tanti forsennato quanto ricco d’ingiustizie sociali.
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