02 Luglio 2014
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49mo Karlovy Vary International Film Festival |
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sito web:http://www.kviff.com/en/news/
(U.R.) Il Festival di Karlovy Vary apre la 49ma edizione, una cifra bugiarda in quanto non segnala, come avviene per la stragrande maggioranza delle altre manifestazioni cinematografiche, una sorta di parallelismo fra il numero degli anni trascorsi dalla prima edizione e la cifra che compare sul cartellone. Questa rassegna è nata nel 1946, nell’immediato dopoguerra, ma per oltre quarant’anni ha dovuto darsi scadenza biennale, questo causa i rapporti politici e militari che legavano la Repubblica Ceca all’Unione Sovietica. Dall’inizio degli anni novanta le cosa sono cambiate, anche in coincidenza dell’assunzione alla presidenza del noto attore Jiří Bartoška che, con l’aiuto della direttrice artistica Eva Zaoralová, ha ridato vita alla manifestazione trasformandola in una iniziativa ad alto valore culturale che ha assunto rapidamente un ruolo di primo piano fra le rassegne cinematografiche e non solo fra quelle europee .
In questomodo Karlovy Vary è diventato, durante i giorni del festival, un luogo d’incontro privilegiato per giovani cinefili della Repubblica Ceca e dei paesi vicini. Qui ogni anno, nonostante la proverbiale inclemenza del tempo che prevede sistematicamente pioggia e freddo, convergono qui migliaia di ragazze e ragazzi avidi di conoscere opere che difficilmente entreranno nei normali circuiti distributivi o di vedere da vicino, anche di questo si tratta, famose star hollywoodiane. Il programma di quest’anno comprende molti titoli, elenchiamo di seguito quelli che compaiono nelle due sezioni principali competitive, quella del concorso per l’assegnazione del trofeo principlale e quella, East of the West, rivolta alla cinematografie dei paesi che un tempo facevano parte del cosiddetto blocco socialista.
Concorso
Priklyuchenie (Avventura) di Nariman Turebayev (Kazakhstan)
Je suis à toi (Io sono tuo) di David Lambert (Belgio, Canada)
Simindis kundzuli (L’sola del granoturco) di George Ovashvili (Georgia, Germania, Francia, Repubblica Ceca, Kazakhstan)
Fair Play di Andrea Sedláčková (Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Germania)
Szabadesés (Caduta libera) di György Pálfi (Ungheria, Francia, Corea del Sud)
Low Down (Depresso) di Jeff Preiss (USA)
Díra u Hanušovic (Da nessuna parte in Moravia) di Miroslav Krobot (Repubblica Ceca)
Paris of the North (La Parigi del Nord) di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson (Islanda, Francia, Danimarca)
Du goudron et des plumes (Catrame e piume) di Pascal Rabaté (Francia, Germania)
Rocks in My Pockets (Rocce in tasca) di Signe Baumane (USA, Lettonia)
La tirisia (Malinconia triste) di Jorge Pérez Solano (Messico)
Welkome Home (Bentornato a casa) di Angelina Nikonova (Russia)
East of the West
Utóélet (Dopo la vita) di Virág Zomborácz (Ungheria)
Varvari (Barbari) di Ivan Ikić (Serbia, Montenegro, Slovenia)
Bota di Iris Elezi e Thomas Logoreci (Albania, Italia, Kosovo)
Klass korrektsii (Classe di punizione) di Ivan I. Tverdovsky (Russia, Germania)
Rozkoš (Delizia) di Jitka Rudolfová (Repubblica Ceca)
Axınla Aşağı (Giù al fiume) di Asif Rustamov (Azerbaijan)
VAN valami furcsa és megmagyarázhatatlan (Per alcune ragioni inesplicabili) di Gábor Reisz (Ungheria)
Kirsitubakas (Tabacco di ciliege) di Katrin Maimik e Andres Maimik (Estonia)
Kebab & Horoscope (Kebab e oroscopi) di Grzegorz Jaroszuk (Polonia)
Spomenik Majklu Džeksonu (Il monumento a Michael Jackson) di Darko Lungulov (Serbia, Germania, Macedonia, Croazia)
Norviyia (Norvegia) di Yiannis Veslemes (Grecia)
Drevo (L’albero) di Sonja Prosenc (Slovenia)
(U.R.) La rassegna competitiva si è aperta con un una coproduzione fra Belgio e Canada non priva d’interesse. Je suis a toi (Sono tuo), secondo film narrativo del belga David Lambert, racconta il drammatico triangolo che si viene a creare fra un panettiere omosessuale che possiede una pasticceria in una cittadina di provincia, un marchettaro argentino e una donna canadese che sta allevando da sola un figlioletto dopo essere stata abbandonata dal marito. L’esercente incontra il giovane sud americano in internet, se ne incapriccia e gli offre un biglietto aereo affinché vada da lui. In realtà vuole anche sfruttarlo come garzone nel suo esercizio, unendo il piacere alla convenienza economica. Il giovane, che si prostituisce per denaro ma è eterosessuale, scopre sin dalle prime ore che ciò che gli è stato proposto odora di sfruttamento, sia sessuale che economico, e si ribella instaurando una relazione conflittuale con il padrone. La canadese lavora nella panetteria come commessa e anche lei ha un rapporto travagliato con il padrone che mostra sovente tendenze dispotiche anche nei suoi confronti. Le cose esplodono quando si scopre che il giovane è sieropositivo, ma sarà proprio la malattia a risaldare, forse sino ad una relazione amorosa stabile, i legami fra il giovane e la donna. Il film è girato in modo tradizionale seguendo una sceneggiatura abbastanza prevedibile, ma ha il merito di mettere assieme due temi, quello della diversità sessuale e quello dello sfruttamento economico, che solitamente sono affrontati in maniera indipendente. Qui la figura del padrone dominante, ma non privo di una sua malinconia esistenziale, assume un rilievo e una complessità tutt’altro che trascurabili, mettendo in ombra le figure dei due giovani che, invece, si muovono in un quadro più tradizionale.
Jeff Preiss, autore molto conosciuto nel campo del cinema sperimentale, ha esordito nel film narrativo con Low Down (Depresso), un film basato sul libro di memorie, Low Down: Junk, Jazz And Other Fairy Tales From Childhood (Depresso, droga, Jazz, e altre fiabe dall’infanzia) che Amy-Jo Albany – qui anche in veste di sceneggiatrice - ha dedicato al padre, il famoso pianista jazz Joe Albany (1924 – 1988) uno dei pochi musicisti bianchi che hanno suonato la musica bebop con Charlie Parker (1920 – 1955). E’ un quadro abbastanza tradizionale in cui si mescolano genialità, abuso di sostanze, eccessi alcolici, il tutto immerso in anni, i primi settanta, segnati dagli orrori della guerra vietnamita e da un clima ufficiale marcato da tendenze apertamente reazionarie: sino al 1974 la presidenza del paese era nelle mani di Richard Nixon, a cui successe Gerald Ford. Questo intreccio di genialità e deboscia, speranza e conformismo è realizzato con immagini apparentemente banali, in realtà perfettamente in linea con gli ambienti e i personaggi che vi si agitano. Ne risulta un film affascinante nella forma, ben poco originale nella vicenda narrata che si ricollega, ancora una volta, al mito dell’artista maledetto, tanto più grande quanto umanamente fragile. Un testo che alterna fascino visuale a ovvietà narrative, ma che, nel complesso, offre un bilancio decisamente positivo.
(F.F.) Dodici titoli che racchiudono quest’anno anche la Grecia, la sezione forse più seguita da chi va a Karlovy Vary per avere un’idea di come si evolvono cinematografie meno note che spaziano tra Sloveni, Moldavi, Albanesi e tante altre che difficilmente riescono a trovare corretta circuitazione fuori dai loro paesi. Il primo titolo presentato è curioso, divertente ma anche in grado di fare pensare. Utóélet (Dopo la vita, 2014) è diretto dal debuttante ungherese Virág Zomborácz e, nei suoi novanta minuti, propone un tema interessante più per come è sviluppato che non come idea iniziale. Il protagonista è un ventenne diffidente e insicuro che ha terminato gli studi di teologia, voluti dalla famiglia molto religiosa ma non condivisi con entusiasmo da lui. E’ considerato strano e da seguire con attenzione perché’ non faccia male a se stesso ed agli altri. Vive con la sua famiglia in un villaggio molto isolato ed è quasi tenuto nascosto. Il rapporto con il padre autoritario è piuttosto complicato. Pastore temuto ed amato, non prende suo figlio molto seriamente e lo tratta con disprezzo. L’uomo viene stroncato da un infarto e muore, ma il suo fantasma comincia ad apparire a Mózes, l'unico della famiglia che possa vederlo e che continua a temerlo. Il giovane fa fatica a capire come lo spirito del padre potrebbe trovare la pace e, per la prima volta in vita sua, è messo in una situazione in cui deve prendere saldamente le redini per tentare, finalmente, di riconquistare la sua vita trasformando il rapporto con il padre. Il genitore, anche da morto, cerca di imporsi e di distruggere tutto quanto pensato o fatto dal figlio, ma alla fine si capisce che probabilmente il padre desiderava essere sicuro che il figlio fosse realmente maturo. Belli i personaggi collaterali con la sorellina timorata di Dio, la madre che si è autoannullata, la zia ninfomane. Debutto energico dello scrittore-regista Virág Zomborácz che gestisce con originalità il tema del lutto e le sensazioni che si hanno con la perdita di una persona cara. In una azzeccata miscela di generi, il film unisce episodi divertenti al limite del bizzarro con elementi di alta drammaticità.
Bota (Il mondo) è diretto in coppia da Iris Elezi e Thomas Logoreci che danno vita a una coproduzione che coinvolge Albania, Italia e Kosovo. Bota (in albanese significa il mondo o, meglio, ai margini del mondo) è un caffè - ristoro situato sul bordo di una vasta area di terreno paludoso in una parte remota dell’Albania. Il caffè è il punto focale per i protagonisti di questa storia che prende spunto da una realtà poco nota: le autorità avevano spostato persone indesiderate in questo luogo in cui c’erano solo terreni paludosi, alcune case popolari e tenta miseria. La affabile Juli, vita e anima del caffè, si prende cura di sua nonna malata Noje e ha parecchi problemi finanziari; il suo più grande desiderio è quello di lasciare il luogo che ha portato solo problemi alla sua famiglia. La sua amica nonché’ collega, la bella e capricciosa Nora, sta cercando sfruttare la sua relazione con un uomo sposato, il proprietario dai mille affari loschi della caffetteria e cugino di Juli, Ben. Quando inizia la costruzione di una nuova autostrada, vicino al bar, sembra che grandi cambiamenti sono imminenti. Ben cerca di corrompere l’ingegnere italiano affinché’ faccia cartelli falsi in cui si sia scritto che Bota è vicinissimo alla nuova strada, un uomo che gli ha prestato soldi lo vuole morto, l’amante rimane incinta, la nonna muore, e così via in un insieme di piccoli colpi di scena. La regione sperduta dove i nemici del regime, durante la supremazia comunista, sono stati inviati con le loro intere famiglie contro la loro volontà sono viste come apatiche vittime e l’unica che si ribella è proprio Juli. I realizzatori hanno sapientemente sfruttano il fascino del paesaggio desolato e hanno perfettamente evocano l'atmosfera di un luogo dove il passato è ancora terribilmente presente nella vita delle persone.
(U.R.) La sezione competitiva ha presentato due film non memorabili. Du goudron et des plumese (Bitume e piume) ricorda nel titolo, ma solo nel titolo, la punizione – impeciamento e piume – che nel Medio Evo veniva inflitta a coloro che avevano tradito i valori di una città, sia per ragioni economiche sia per motivi religiosi o morali. Ad essere oggetto di tanta malevola attenzione è Chistian un piccolo imbroglione, divorziato e d’origine algerina, che campa vendendo antiparassitari a ingenui padroni di casa a cui fa credere che lo loro villetta sia infestata di larve di formiche rosse. I malcapitati si fanno imbambolare dalle sue parole e comperano costosi trattamenti disinfestanti del tutto inutili. Il venditore è tutt’altro che un grande truffatore e, con i denari che guadagna con le provvigioni della ditta che rappresenta, riesce a malapena a campare e a tenere con se l’adorata figlioletta che la sentenza di divorzio ha affidato alla madre. Quest’ultima attende un figlio da un nuovo compagno, ma non serba rancore al marito precedente. Uno spiraglio di luce sembra aprirsi nell’esistenza di quest’imbrogliocello quando gli è offerta la possibilità di partecipare ad una sorta di palio fra borghi vicini incentrato su un triathlon che comprende canottaggio, corsa e salita su un alto palo. Proprio in questi giorno scoppia lo scandalo delle vendite forzate con fermo di polizia e denuncia da parte di alcuni truffati. Tutto sembra correre verso la rovina: l’allenatore lo esclude dalla squadra cittadina, i vicini affabili e gentili, diventano di colpo freddi e ostili, la nuova compagna che si era trovato – anche lei incinta di un altro – lo abbandona, la figlia lo tratta con disprezzo. Senonché quando partono le gare la squadra di quartiere naufraga miseramente e sarà solo il suo rientro all’ultimo istante a rendere il risultato meno devastante. Ora le cose sembrano sistemarsi e una nuova coppia si avvia alla vita in comune. Il film miscela ironia e tristezza come era già capitato a Ni á vendre ni á louer (Non da vendere né da affittare), un film sostanzialmente muto che aveva fruttato a questo cineasta il premio per la miglior regia nell’edizione del 2011 del festival. Solo che questa volta la tenuta stilistica è annacquata da una ricerca, prevedibile sin dall’inizio, di un lieto fine buonista che stempera alquanto l’approccio critico verso il conformismo e la mutevole ferocia della piccola borghesia. In definitiva un film piacevole ma nulla di più.
Priklyuchenie (Avventure) del kazako Nariman Turebayev porta sullo schermo l’ennesima versione de Le notti bianche (Belye noči, 1848), romanzo breve e giovanile di Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881) di cui si contano tre versioni cinematografiche memorabili: Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti e Quatre nuits d'un rêveur (Quattro notti di un sognatore, 1971) di Robert Bresson (1901 – 1999); mentre non hanno lasciato tracce sia il film firmato da Alain Silver nel 2005, sia le molte versioni per la televisione prodotte nei più disparati paesi. Diciamo subito che anche questa edizione franco-kazaca è destinata a breve memoria, visto che il regista non innova molto se non una rilettura, in chiave quasi ottimistica del finale. Del resto la modifica di questa parte del racconto segna un punto in comune con i grandi registi appena citati: l’italiano punta sulla solitudine dell’uomo in attesa, mentre il francese fa suicidare la donna. La storia è nota, a San Pietroburgo, durante il periodo estivo detto de le notti bianche, un uomo e una donna s’incontrano per quattro volte mentre lei aspetta un amante che ha promesso di ritornare e lui è sempre più affascinato dalla donna, magia che s’interromperà con il ritorno dell’uomo tanto atteso. Il cineasta kazaco utilizza molto liberamente questa vicenda, inserendovi un’anziana prostituta – costantemente ripresa di spalle – e usando come protagonisti un giovane guardiano notturno tentato da una bella fanciulla debitamente nevrotica e tentatrice. Incastri che non migliorano la qualità del testo, né vi aggiungono spessore. Il risultato è un film debole e pretenzioso, decisamente noioso e altrettanto banale.
(F.F.) Varvari (Barbari, 2014) di Ivan Ikić dimostra come il cinema possa coniugare problematiche di vario tipo all’interno di uno stesso raccoglitore. Produzione che riunisce tre paesi dissimili tra loro quali Serbia, Montenegro e Slovenia, ha una costruzione narrativa semplice che permette di far interpretare se stessi molte persone utilizzate come attori in un neorealismo dallo stile più rude ma che anche ora è in grado di fare vivere problematiche vere. Qui il disagio giovanile si estrinseca attraverso il mondo degli ultrà calcistici ma vi è anche il disagio politico legato a nazioni che per anni erano state unite in maniera forzosa sotto la Jugoslavia e che, sciolto questo ibrido politico, è esplosa in un mondo fatto di guerre e di mille rancori. Siamo in una piccola cittadina vicina a Belgrado, l’anno è il 2008, quello della dichiarazione d’indipendenza del Kossovo. Qui vive Luka, un adolescente che abita nella piccola cittadina serba di Mladenovac con una madre, abbandonata dal marito, che non lo capisce e che non gli dedica tempo ed amore. Lui e il suo migliore amico guidano gli appassionati di calcio locali e passano la maggior parte del loro tempo libero facendo il tifo per la squadra, bevendo birra e non rispettando le ragazze e trasformandole in pornostar sui social network. Il film segna il debutto alla regia dello scrittore e sceneggiatore Ivan Ikić che ha utilizzato un suo racconto molto realistico sul disagio di chi sta per divenire maggiorenne con la ricerca di identità in un contesto di disordini innescata da dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Attraverso il destino di questo diciassettenne, il regista presenta un ritratto delle giovani generazioni che, nelle sue parole, sono il futuro in una società di valori perduti, dove la corruzione, l'immoralità, la criminalità e gli abusi di potere prosperano. Raggiunge un alto livello di autenticità grazie alla decisione di utilizzare per la maggior parte dei ruoli dei dilettanti (solo tre parti sono interpretate da professionisti) che non hanno mai visto una sceneggiatura e le cui vite in molti aspetti riflettono le esperienze dei loro personaggi sullo schermo.
Tutt’altro discorso per lo sloveno Drevo (L’albero, 2014) della trentaseienne Sonja Prosenc che, dopo oltre dieci anni utilizzati per specializzarsi con stage di cinema ed avere diretto pochi short e documentari, punta con un tono autoriale alla sua prima sceneggiatura e regia. Risultato è un film pretenzioso che difficilmente riesce a comunicare qualcosa al pubblico se non una certa confusione ed inconsistenza, narrativa forse voluta, utilizzando uno script disequilibrato che spesso spiazza. Una storia, tre angolazioni. In tre capitoli, il film cerca di raccontare attraverso gli occhi di due fratelli e della loro madre Milena la situazione tragica che si abbatte sulla famiglia a causa di un incidente, o forse di un omicidio involontario. I due figli, l’adolescente Alek e sua sorella di nove anni devono stare in casa, l'unico luogo che la donna ritiene sicuro. Dopo un periodo di tempo diventa per loro una prigione da cui tentare di sfuggire per continuare a vivere. La tragedia familiare si sviluppa a poco a poco come un dramma intimo veicolata attraverso una narrazione non lineare; l'accento è posto sulla creazione di un ambiente sempre più complesso come la storia che racconta. Il film si salva per le bellissime immagini claustrofobiche create dal direttore di fotografia Mitja Ličen, che ha anche co-sceneggiato ed è da reputare il vero autore di questo film decisamente zoppicante. Oltretutto, c’è anche un tentativo non riuscito di creare atmosfere da thriller. Anche l’idea di vedere la stessa realtà attraverso le ottiche dei vari protagonisti non funziona appieno, soprattutto quando si deve sopportare la parte dedicata alla madre.
(U.R.) La tirisia del messicano Jorge Perez Solano è il primo titolo, fra quelli presentati sino ad ora in concorso, che meriti appieno la qualifica di opera da festival. Iniziamo dal titolo. La tirisia è una sindrome psicoanalitica il cui nome deriva, alla lontana, da quello di itterizia e individua uno stato di malinconia e tristezza simile alla saudade portoghese. In italiano potremmo tradurlo con: malinconia triste. Ad esserne affette sono un paio di giovani donne che vivono in una regione messicana di montagna ove le acque di dilavamento sono utilizzate da un padroncino per alimentare vasche di essicazione da cui ricavare sale. Entrambe le protagoniste - una la compagna ufficiale, l’altra la moglie di un lavoratore assente da tempo - sono messe incinte dal piccolo imprenditore e stanno per partorire – da sole e in casa – quasi contemporaneamente. Per l’una sarà il terzo figlio, per l’altra il primo. L’amante è quella che dà alla luce il piccolo per prima e lo fa assistita da un omosessuale, unica figura positiva dall’inizio alla fine del film, suo vicino di casa. L’altra abortire in modo artigianale – fa continue immersioni nel sale – ed è terrorizzata dalla prossima maternità. Le cose precipitano con l’arrivo del marito assente che, raccogliendo vari indizi, non ci mette molto a capire che cosa è successo quando era via, questo anche se la moglie si è dolorosamente separata dal fantolino rifilandolo al padre naturale che, a sua volta, lo ha messo nella braccia della compagna ufficiale. La tragedia è evitata per un soffio, ma la giovane primipara, una volta partorito il suo bimbo, va via con lui da casa portandosi dietro i risparmi accumulati dal marito in vista di un ipotetico e sognato viaggio aereo in una qualsiasi città del mondo, come dice la pubblicità. Gli altri personaggi rimangono sul posto vittime di una tirisia che non lascia scampo. Il film è immerso in un clima di violenza, più suggerita che vista, emblematizzata dai molti militari che circolano nella zona creando surreali posti di blocco o trasportando cadaveri di ribelli o banditi. Il tutto segnato, infine, dal continuo sorvolo di aerei di linea che evocano mete irraggiungibili e sconosciute. Il film sfiora il melodramma senza mai cascarvi dento, evoca un clima di sensualità esasperata, ma lo ribalta con le immagini, davvero truci, dei parti solitari e casalinghi, operazioni in cui il corpo femminile soffre un grande dolore che il regista trasferisce direttamente allo spettatore. In altre parole un film molto bello e coinvolgente, magistralmente interpretato, nei due ruoli femminili, da Adriana Paz e Noé Hernández.
(F.F.) Rocks in My Pockets (Rocce in tasca) opera emozionante scritta, disegnata, animata e diretta da Signe Baumane, è una storia di mistero e di redenzione. Il film lettone è basato su eventi realmente accaduti che coinvolgono le donne della famiglia di Signe Baunane e di lei stessa che hanno combattuto le personali battaglie contro la follia. Vengono trattati i problemi di persione che hanno saputo sconfiggere o, meglio, convivere con il proprio DNA. Il film è ricco di metafore visive, immagini surreali e di un contorto ed originale senso dell'umorismo. Si tratta di un racconto animato ricco di arte, donne, strane storie audaci, accenti lettoni, storia, natura, avventura e altro ancora. L’animazione è stata scelta per rendere meglio le immagini surreali in movimento ed è l'unico mezzo che può esprimere pienamente la mente dell’artista baltica. Alcune persone ritengono erroneamente che l'animazione sia solo un mezzo espressivo adatto ai bambini ma può essere un modo di narrazione molto sofisticato, è in grado di rappresentare ciò che nessuno può vedere, i massimi sentimenti interiori e pensieri. Si possono creare astrazioni di problemi che l’uso di attori non puo’ rendere allo stesso livello, accostando mondi interiori con l'universo esterno lamalgamandoli in racconti assolutamente completi. L'animazione può portare umorismo e metafora visiva alla narrazione. Citando Walt Disney, l'animazione può spiegare tutto ciò che la mente umana può concepire. In altri termini, il film di animazione visualizza l'invisibile. L'immaginazione creativa dà vita all’astratto e amorfo. Si parla di depressione perchè è parte importante dell’autrice che spesso pensa di farla finita, anche se elementi esterni le hanno permesso di rinunciare a questo insano proposito. In merito a questo, ha dichiarato: la mia mente continua a tornare ai pensieri di "farla finita" e le modalità con cui farlo. Perché? Perché penso in questo modo? E perché io sono ancora viva, nonostante tali pensieri? Trovo la fragilità della nostra mente affascinante. La vita è strana, imprevedibile, a volte assurdo e cerco di vedere l'umorismo in tutto. Piu’ che a un film d’animazione classico, siamo di fronte a disegni semplici quasi infantili messi in movimento attraverso un montaggio intelligente che crea azione attraverso a tante immagini statiche: bello, interessante, coinvolgente debutto di una artista di sicuro valore.
Rozkoš (Delizia, 2014) è un interessante film che tratta dell’amore nell’era della tecnologia dove anche coppie consolidate hanno difficoltà a dialogare e a incontrarsi sostituendo il rapporto fisico con anonime e continuative chat. Sulle varie inquadrature passano come firma di una mancanza di rapporto umano la ricorrente domanda che si pongono i due protagonisti: dove sei? Questo perché vivono mondi paralleli che difficilmente si incontrano sia per orari che per interessi, anche se sono convinti di essere una coppia felice. La brava Jitka Rudolfová descrive questo rapporto privo di emozioni vere che coinvolge la giovane montatrice Milena. Lei, amici e colleghi parlano senza la capacità di ascoltare. Le loro menti sono alla ricerca incessante del piacere e della soddisfazione, la perfezione e l’originalità, ma in questa lotta verso il successo nessuno ha tempo di fermarsi e capirne le ragioni. La ricerca approfondita di un rapporto soddisfacente e della pace interiore coinvolge Milena in maniera quasi ossessiva e, alla fine, assolutamente priva di un risultato positivo. Sembra un laconico referto medico dai toni duri che racconta questo dramma psicologico con un ottimo linguaggio cinematografico. Il suo compagno cerca di dimostrare che alla base dell’amore è solo un principio chimico che illustra in varie conferenze e che vorrebbe documentare con elaborati visivi. Sembra il più distaccato dalla vita reale, ma così non è. Il regista per il ruolo della protagonista ha scelto Jana Plodková, che ha fornito una prestazione assolutamente perfetta grazie ad un’espressività che permette di dialogare col pubblico solo col viso. Attrice anche di teatro, regge senza difficoltà quanto scritto per lei dalla sceneggiatura che alle volte può sembrare fin troppo macchinosa.
Kirsitubakas (Tabacco alla ciliegia, 2014) è una commedia sulle prime esperienze sentimentali di una sedicenne che si sente adulta, lontana dai coetanei e che rischia di sbagliare in maniera irreversibile nelle sue scelte. Film estone che sa mescolare romanticismo e temi drammatici con rara leggerezza, segna il debutto di Katrin and Andres Maimik. L'estate sta volgendo al termine e la sedicenne Laura si sente stanca, annoiata e irrisolta. C'è un ragazzo interessato a lei, ma lei trova che lui sia sciocco ed immaturo mentre entrambe le loro famiglie vedrebbero volentieri il loro amore: il suo difetto più grosso è di essere perbenino e senza nessun desiderio di vivere una vita da ricordare. La proposta inaspettata di fare un trekking per un paio di giorni alla scoperta delle meraviglie delle torbiere le offre l’opportunità di sfuggire alla monotonia delle vacanze scolastiche assieme anche alla sua migliore amica. Inizialmente, Laura non è esattamente entusiasta dalla natura così bella ed invasiva nonché del ruvido modo di comportarsi di Josep, la guida naturalistica quarantenne e dal piglio del uomo selvaggio. Tuttavia, il non convenzionale fumatore di tabacco da pipa comincia a suscitare il suo interesse e ha la sensazione di essere ricambiata. Il primo amore prende Laura sprovvista, e in un modo piuttosto insolito. Quando è pronta a donarsi a lui, scopre che è un convenzionale e fedifrago marito con due figlioletti. Il film si occupa del periodo fragile e doloroso dell'adolescenza, il primo amore e la prima delusione. Un’opera sensibile che dimostra con umorismo e compassione che le relazioni umane non sono mai semplici e lineari. Divertente, sentimentale, drammatico avventuroso: il tutto in novanta minuti.
(U.R.) Hafsteinn Gunnar Sigurösson fa parte della piccola, a agguerrirà pattuglia dei registi che vengono dal freddo delle terre islandesi. Al festival ha presentato la sua ultima fatica, Paris noröursins (La Parigi del nord), che ruota attorno ai triboli di un insegnante che vive in un paesino dell’est dell’Islanda e che, durante la stagione estiva, riceve l’inaspettata visita del padre che abita da anni in Tailandia. Il docente è in crisi: la fidanzata lo ha lasciato e lui mal sopporta la frequentazione in un gruppo di alcolisti anonimi in cui è finito causa l’abuso di alcol. Sfoga la sua inquietudine correndo in solitario in mezzo a paesaggi da favola, ma che incutono anche non poco terrore. L’arrivo del genitore, bevitore inveterato che ha lasciato a Bangkok un altro figlio avuto da una tailandese, scompagina ancor più la sua vita e lo avvia a ripiombare nell’abuso di bevande alcoliche. Il conflitto fra le due personalità si fa sempre più aspro sino ad esplodere quando l’anziano ha una relazione con un’ex fiamma del figlio. A questo punto la rottura sembra inevitabile, ma un malore del padre, con ricovero in ospedale, sembra segnare la rappacificazione fra i due. Tregua momentanea, in quanto il figlio trova la forza di abbandonare definitivamente una condizione tanto dolorosa e partire verso una nuova vita, almeno così spera. Il film è denso di situazioni e personaggi già visti un numero rilevante di volte e la coppia figlio - grigio e padre - birbaccione non è nuova. Certo il paesaggio è quanto mai suggestivo e la regia ne salda la terribile bellezza al turbinare dei caratteri dei personaggi, ma questo non basta a dare al film un tratto di vera originalità.
Anche Díra u Hanušovic (Da nessuna parte in Moravia) dell’attore e regista teatrale Miroslav Krobot che esordisce sullo schermo con un testo che mescola umorismo, violenza e malinconia, muove sulle tracce di un preciso filone del cinema ceco: quello sulle situazioni assurde e terribili ambientate in piccoli villaggi di campagna. Siamo nel nord della Moravia, in un borgo minuscolo popolato da sfaticati, ubriaconi e donne che fanno del sesso un modo per riempire esistenze monotone e vuole. Una di queste è l’ostessa che gestisce un bar frequentato da alcolizzati e nullafacenti, lei concede i suoi favori al sindaco e a un aitante operaio edile, per cui quando si ritrova incinta non è sicura di chi sia il pargolo. Sua madre, oramai in età avanzata, in passato non è stata da meno e sua sorella, per sfuggire al tedio del villaggio, si accompagna con un tedesco benestante che ha il doppio dei suoi anni. In questa vertigine di amplessi e birra irrompe la tragedia quando due fratelli ammazzano la donna che viveva con loro e che entrambi sfruttavano sessualmente. In poche parole siamo dentro una precisa tradizione culturale e narrativa che mette assieme il dolore del vivere, l’alcolismo e il sesso come antidoto alla noia dell’esistenza. Un impasto felice fra malinconia, tragedia e umorismo che, questa volta, manca parzialmente il bersaglio adagiandosi più sul versante della citazione di precedenti illustri che non su quello di una vera originalità.
(F.F.) Kebab & Horoscope (Kebab e Oroscopo) è un opera in cui non tutto funziona per il meglio, lasciando allo spettatore la sensazione di avere riso con trovate intelligenti e poi essere stato abbandonato nel mondo della noia e della ripetitività. Film polacco diretto da Grzegorz Jaroszuk, tratta con ironia il mondo dell’astrologia ma anche quello del marketing che viene visto come un’attività in cui c’è poco di scientifico e tanto d’improvvisazione. Partendo dal presupposto che il destino è imprevedibile, il regista racconta di un credulone che legge l’oroscopo nella sua rivista preferita, The Secret World of Animals (Il mondo segreto degli animali) qui un giorno trova un oroscopo che lo invita a cambiare vita e lasciare il lavoro. Piuttosto che rischiare di contraddire il destino, si licenzia pronto a modificare la propria esistenza, ma subito dopo incontra l'autore del oroscopo, appena licenziato, nel negozio di kebab in cui non lavora più. La delusione è grande perché scopre che le predizioni erano firmate con un nome di donna e si trova di fronte ad un uomo. Cerca conforto in chi per anni ha condizionato la sua vita e viene, invece, irriso. Con la condivisione di insicurezze esistenziali con l’astrologo trova un terreno comune e scopre che il marketing richiede l'intuizione piuttosto che qualsiasi formazione specialistica. Un negozio di tappeti, che non ha mai avuto un cliente, è il luogo ideale per iniziare un business. Lui si presenta come specialista con il compito di creare una squadra da un insieme strampalato di persone, alcune delle quali odiano addirittura i tappeti. Nel suo debutto da regista Grzegorz Jaroszuk offre una prospettiva comica assurda su un gruppo di figure solitarie che cercano, con vari gradi di successo, di fare i conti con la loro vita stranamente dolorosa. A tratti ci riesce, spesso no, dimostrando che per un debutto è forse meglio affrontare un tema più facile.
Divertimento assicurato con Spomenik Majklu Džeksonu (Monumento a Michael Jackson) diretto con bravura dal serbo Darko Lungulov che tiene testa ad una coproduzione fra Serbia, Germania, Macedonia e Croazia. Il tono ricorda Emil Kusturica, ma il regista riesce a mantenere una propria identità. Ben scritta la sceneggiatura, interpretato in maniera piacevole, ha l’apporto anche di un’ottima colonna sonora. Siamo nel 2009, Marko è un barbiere che sogna ad occhi aperti con la testa piena di idee (raramente realizzate) e un matrimonio in crisi. Delusa dalla vita, la moglie si rifiuta di dargli un'altra chance ed è determinata a lasciare il loro paese che offre poche prospettive di crescita. Marko decide di fare un ultimo disperato tentativo per salvare il suo rapporto così logorato ma anche per trovare credibilità con i suoi compaesani. La sua nuova idea è quella di attirare il turismo, sostituendo il vecchio monumento comunista, appena rimosso, con una statua di Michael Jackson. Abbastanza sorprendentemente, ottiene l’appoggio della gente del posto, ma non del sindaco. Mille disavventure, i turisti che arrivano, un finto Jackson che vola su di un elicottero osannato dalla gente, un finale tragico ma ottimistico. Nella commedia agrodolce che racconta le avventure di un barbiere allegro e fuori dal comune, il regista tocca molti problemi sociali: ha grande abilità narrativa e gusto per la creazione di un ambiente efficace, già confermato nel successo ottenuto dal suo film del debutto, Tamo i ovde (Qui è là, 2008) che dove è stato presentato è sempre stato accolto favorevolmente.
(U.R.) I film sui crimini commessi nei paesi dell’ex blocco socialista in nome della difesa del regime, costituiscono quasi un genere che ha avuto un suo punto d’eccellenza né Le vite degli altri (Das Leben der Anderen, 2006), il film d’esodio del trentaquattrenne tedesco Florian Henckel von Donnersmarck, un’opera coronata con il Premio Oscar 2007 per il miglior film in lingua non inglese. Il tema è importante e opportuno visto che, come capita spesso nei cambiamenti di regime, molti dei passati persecutori sono ancora al loro posto o non hanno subito alcuna conseguenza per il loro comportamento. La regista cecoslovacca Andrea Sedláčková affronta, in Fair Play, l’argomento da un punto di vista poco esplorato: quello della vita degli atleti che, a forza di sostanze dopanti, riuscirono a conquistare non pochi primati nelle grandi competizioni internazionali. Siamo all’inizio degli anni ottanta e la giovane Anna è una delle stelle nascenti dell’atletica cecoslovacca. Lei è capace di correre i 200 metri piani a tempo di record, tuttavia i burocrati di regime decidono che debba assumere massicce dosi di anabolizzanti onde migliorare le sue prestazioni. Poco importa che i farmaci che le sono iniettati agiscano negativamente sia sulla femminilità (le spuntano peli maschili in varie parti del corpo) sia sulla possibilità, in futuro, di avere figli. Inoltre, visto che lei appare riluttante e sospettosa al punto di gettare via i flaconi che le sono stati affidati, è coinvolta sua madre, un’ex tennista di successo caduta in disgrazia dopo le prese di posizione assunte nei confronti della fraterna invasione militare del 1968. Senza contare le difficoltà che l’ex atleta deve affrontare causa la fuga del marito, riparato in Germania dopo quei tragici fatti. A tutto questo si aggiunge la complicità con la dissidenza interna, viso che lei ribatte a macchina i testi e gli articoli di un drammaturgo molto critico verso il regime. Da notare che in questo personaggio c’è una chiara allusione a Václav Havel (1936 – 2011) uno scrittore, drammaturgo e politico che è stato l'ultimo presidente della Cecoslovacchia ed il primo della Repubblica Ceca dopo la caduta del regime realsocialista. Il film segna il percorso e la presa di coscienza di queste due donne: la madre finirà in prigione per aver detenuto materiale antisocialista, la figlia rinuncerà a partecipare alle Olimpiadi del 1984 nella squadre nazionale dopo aver toccato con mano la ferocia della dittatura. Scelta quasi superflua poiché quelle gare non vedranno la partecipazione della Cecoslovacca, costretta dalla dirigenza dell’Unione Sovietica, assieme con i governi degli altri paesi del blocco, a disertare le competizioni di Los Angeles (1984) quale ritorsione per il boicottaggio decretato da molti governi occidentali a quelle di Mosca del 1980 per protesta contro l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’armata Rossa. Il film appartiene a quel genere civile in cui la denuncia dei cattivi appare tanto giusta quanto facile, nel senso oggi, molti anche all’ora, quasi nessuno dotato di un minimo di sensibilità politica giustifica simili barbarie. Come dire che siamo davanti ad un film civilmente utile, ma espressivamente non straordinario.
Simindis Kundzuli (L’sola del granoturco) del georgiano George Ovashvili è una coproduzione a cui hanno partecipato Georgia, Germania, Francia, Repubblica Ceca e Kazakistan. Vasto consesso internazionale per un film molto bello che si colloca fra i migliori visti nella sezione competitiva del festival. E’ un’opera quasi muta in cui si racconta la faticosa costruzione, su un’isola in mezzo a un fiume che separa Georgia e Abkhazia, di una capanna e un campo di mais. A volere tenacemente quelle cose è un vecchio contadino aiutato da una ragazzina orfana che lui protegge. Sono entrambi abkhazi e si trovano nel bel mezzo dello scontro fra due eserciti (siano nei primi anni novanta e l’Abkhazia ha da poco proclamato l’indipendenza dalla Georgia), ma loro vogliono solo vivere pacificamente, sopportando con pazienza la dura fatica dei campi e la furia della natura. Difficoltà a cui si aggiungono gli odi e le irruzioni di uomini armati e famelici sia di alcol sia di sesso. Quando nel campo trovano un soldato georgiano seriamente ferito, il vecchio non esita ad accoglierlo, curarlo e nasconderlo agli stessi militari abkhazi. Ne avrà in cambio l’amara constatazione che la giovane inizia ad interessarsi al ferito, quasi un suo coetaneo, e questi non rifiuta le sue attenzioni. Il patriarca furioso lo caccia e rimane a coltivare il granoturco con la ragazzina. Fatica vana, visto che la natura devasta ciò che gli uomini hanno risparmiato e una furiosa alluvione distrugge il campo, la capanna e si porta via la vita stessa del patriarca. Passa il tempo e un nuovo personaggio arriva sull’isolotto, ormai ridotto ad un piccolo banco di sabbia, dissotterra la bambola con cui la ragazzina giocava e la mette ad asciugare sulla barca che lo ha condotto sin li. E’ una storia apparentemente semplice, in realtà densa di significati che metaforizzano il percorso d’intere esistenze contrapponendo, lucidamente e proficuamente, la grandezza del lavoro e la poesia della vita semplice alla volgarità delle violenza armata. Un film che va oltre la denuncia della ferocia e stupidità della guerra per assumere il valore di un'opera d’altissimo profilo e grandioso contenuto morale.
(F.F.) Axınla Aşağı (Lungo la corrente del fiume) è film coinvolgente che fa ragionare sul rapporto tra padre e figlio, tra un fedifrago e la moglie, tra colleghi divenuti amanti. Prodotto in Azerbaijan, è diretto con grande bravura da Asif Rustamov che riesce a raccontare una vicenda drammatica senza mai cadere nel melo’. Ali è allenatore di una squadra di canottaggio in una città di provincia, tra i giovanissimi del team c’è anche il figlio sedicenne Ruslan che trova difficoltà a soddisfare le aspettative del padre: la freddezza dell’uomo e la sua continua insoddisfazione lo stanno distruggendo psicologicamente. L’allenatore sta attraversando una classica crisi di mezza età e solo la presenza del figlio gli impedisce di lasciare la moglie Leyla che egli critica accusandola di rovinare il ragazzo. L’uomo trova conforto nella sua amante polacca Sasha, allenatrice della squadra di nuoto, che pretenderebbe di averlo per sé e sogna di iniziare una nuova vita con lui. Poco prima di una gara importante, nell'interesse della prestazione della squadra, decide di sostituire Ruslan, che era stato originariamente scelto per partecipare alla competizione. Il ragazzo, amareggiato, raggiunge alcuni amici che stanno facendo il bagno nel fiume: da quel momento scompare nel nulla e, tra le varie ipotesi, c’è un malore o il suicidio. In assenza del corpo, il padre spera in una fuga del ragazzo, mette del denaro in un luogo che il giovane potrebbe trovare. Senza nemmeno spostare il lenzuolo che copre il cadavere di uno sfortunato ragazzo, lo riconosce come suo figlio: un atto d’amore nella speranza che il ragazzo possa affrontare un futuro migliore lontano da lui. Nell’esordio alla regia Asif Rustamov tratta un tema così difficile con notevole finezza e discrezione, ponendo l'accento sulla psicologia accuratamente elaborata dei personaggi e utilizzando immagini dai colori tenui quasi a non volere interferire nel corso dei fatti.
VAN valami furcsa és megmagyarázhatatlan (C'è qualcosa di strano e inspiegabile) è una commedia che non parte da un’idea particolarmente nuova, ma che, con una narrazione inventiva, riesce a divenire originale. C’è la voce fuori campo del protagonista, le mini storie dei suoi amici raccontate in pochi secondi, l’intervento di queste persone per cercare di fare capire, in maniera molto ironica, la psicologia del loro amico ventinovenne ormai considerato in famiglia un parassita che deve diventare adulto in fretta. E’ un gradevole film ungherese diretto da Gábor Reisz, che racconta di un giovane che sta avvinandosi pericolosamente alla trentina senza avere mai tentato di divenire indipendente. Ha finito da poco l'università ed è ufficialmente alla ricerca di un lavoro ma senza volere pianificare il futuro. Per ora i genitori lo mantengono col tacito accordo che possono interferire nella sua vita non permettendogli, in questa maniera, di abbandonare lo stato mentale della fanciullezza. Per non avere problemi con loro, decide di non dire che la sua ragazza lo ha lasciato. Nella notte del trentesimo compleanno, scopre che la sua ex ha trovato un nuovo ragazzo; devastato, decide di annegare il suo dolore nel alcool. Si sveglia in possesso di un biglietto di sola andata per Lisbona. Chiede agli amici cosa sia successo la notte precedente e, alla fine, scopre che ha comperato con la carta di credito del padre il volo perché la sua ex stava facendo l’Erasmus nella capitale portoghese. E’ costretto a cercare lavoro per ripagare il genitore ma, come laureato di Storia del Cinema, ha poche possibilità di essere assunto da qualche azienda. Accetta di fare il lavapiatti, ha un’ulteriore crisi nei confronti dei suoi amici riusciti nella vita e decide di accettare la sfida e il viaggio verso l'ignoto. Premiatissimo autore di cortometraggi, il regista Gábor Reisz affronta con mano lieve la storia che esplora, con distacco e il gusto per la costruzione di situazioni bizzarre, la ricerca del protagonista per trovare se stesso ed il suo posto nella vita.
(U.R.) György Pálfi è un regista ungherese che ama il cinema non convenzionale. Già al suo film d’esordio, Hukkie (2002), ha dimostrato di amare le sfide difficili realizzando un film quasi senza dialoghi in cui una serie di omicidi sono raccontati seguendo vari personaggi che vivono in un piccolo villaggio, un film che dipana alcune storie in modo limpido e preciso, ma anche con una buona dose d’ironia. Gli stessi ingredienti, ma con dialoghi ben più abbondanti, si ritrovano in Szabadesés (Caduta libera) qui il filo conduttore lo offre una signora anziana e grassa che abita al penultimo piano di una casa i cui inquilini emblematizzano, in varia maniera, aspetti della società moderna. Mano a mano che l’anziana, sposata ad un marito altrettanto in là con gli anni e dal carattere a dir poco bizzarramente aggressivo, sale a fatica le scale - l’ascensore è perennemente guasto - e passa davanti ai vari appartamenti, scopriamo che dietro a quelle porte si svolgono rituali e ci sono situazioni che, appunto, rappresentano altrettanti aspetti, letti in maniera grottesca, della società moderna. C’è il guru che insegna la meditazione trascendentale a un gruppo di allievi predicando il distacco dalla materialità del mondo, ci sono i musicisti riuniti per festeggiare un anziano collega che neppure si accorgono che la giovane fidanzata del padrone di casa gira completamente nuda, c’è il ginecologo specializzato a far rientrare nell’utero materno bambini nati da poco, c’è la coppia ossessionata dalla pulizia e dall’asetticità al punto di fare l’amore solo dopo essersi avvolti nella plastica trasparente e che commette un uxoricidio quando un insetto entra nella donna e fuoriesce dalla sua bocca, c'è la famiglia apparentemente perfetta in cui il padre - padrone tiranneggia il figlioletto, ma neppure sia accorge che in casa c'è una mucca. Queste e altre situazioni richiamano caratteristiche della vita moderna, mettono in piazza manie ed ossessioni che, giunte al parossismo, distruggono gli stessi che le praticano. Nel finale l’anziana protagonista ritorna sul tetto e si lancia nuovamente nel vuoto, ma questa volta, diversamente da quanto avvenuto all’inizio del film, non si rialza. Forse anche lei ha esaurito le possibilità di scontro con la pazzia che la circonda, forse è finito per sempre il suo ruolo – simbolo di proletaria normale e infelice, ma reale. Come tutti i testi a forte valore metaforico anche questo si scontra con i limiti che rendono alcuni episodi, ad esempio quello del ginecologo che rimette il bimbo nel ventre materno, meno riusciti degli altri, ma nel complesso si tratta di un’opera importante e inquietante, un tipo di cinema che interessa, coinvolge e invita a riflettere.
Anche Welkome Home (Benvenuto a casa) della russa, ma residente a New York, Angelina Nikonova ha una robusta componente originale. E’ questa l’opera seconda di una cineasta il cui film narrativo d’esordio, Purtrt v sumerkakh (Ritratto al crepuscolo), ha avuto buona accoglienza in numerose manifestazioni internazionali, fra cui Venezia e Salonicco. Questa volta la regista inanella una serie di storie di personaggi in difficoltà sia con la loro collocazione professionale sia per i rapporti che mantengono con le comunità d’origine. C’è l’attore premiato ai festival (il particolare a quello di Cottbus) che per sopravvivere vende tappeti e deve vedersela con tre figli e una moglie incinta per la quarta volta e per nulla disposta ad assecondare le sue vocazioni artistiche. C’è la bella ragazza che vorrebbe fare l’attrice, ma per sopravvivere spaccia droga e balla seminuda in un night club. C’è il regista alla ricerca di un produttore che finanzi il suo copione ma nel frattempo deve fare i conti con una moglie insospettita dai suoi tradimenti. C’è il transessuale che vuole diventare femmina ed è inorridito dalla prospettiva che il padre e gli altri armeni scoprano la sua condizione. Sono personaggi che appartengono a varie comunità etniche – armena, russa, ungherese – tutte tese nell’impossibile mantenimento dei costumi dei paesi da cui provengono in una situazione del tutto nuova. In questo senso assume un’indicazione precisa l’episodio della pecora che deve essere uccisa ritualmente, ma nessuno sa più come fare. In altre parole un melting pot realistico e multicolore in cui il sorriso si unisce al dramma, la situazione farsesca a quella tragica. Il film è ben realizzato e radiografa una serie di situazioni senza esprimere alcun giudizio, una scelta decisamente opportuna.
(F.F.) Klass korrektsii (Classe correzionale, 2014) racconta una storia di disagio fisico, morale, esistenziale. Diretto con bravura dal russo Ivan I. Tverdovsky, questa coproduzione russa e tedesca si sviluppa inizialmente quale commedia per poi trasformarsi in breve tempo in storia sentimentale con un finale a dire poco drammatico. Lena è una ragazza solare, disabile e costretta su di una sedia a rotelle che, dopo sei anni passati a studiare a casa con l’aiuto di Internet e della madre, si sente pronta a tornare a scuola. E’ assegnata a una classe speciale per alunni disabili che alla fine dell'anno scolastico devono presentarsi davanti ad una commissione al fine di dimostrare che meritano di essere riportati in una classe tradizionale. Gli insegnanti non sono all’altezza del loro incarico e trattano in maniera gretta diretta i problemi di ognuno dei ragazzi. C’è chi è affetto da nanismo e chi soffre di epilessia o ha un carattere instabile. Mostrano scarsa voglia di motivare gli studenti e di aiutarli a migliorare; al contrario, cercano di annullare fin dall'inizio qualsiasi interesse che Lena ed altri mostrano nelle materie più complesse. La sedicenne presto si inserisce nella vita della sua classe divenendo amica un po’ di tutti, soprattutto di Anton, un bel ragazzo che da subito la mette sotto la sua ala protettiva, la accompagna e la va a prendere a casa, la coinvolge nelle sue folli prove di coraggio, la fa divenire la sua ragazza. La loro felicità non è di gradita da tutti e presto avrà pesanti ripercussioni, dovrà subire anche uno stupro ma, soprattutto, il tradimento del suo primo grande amore. Il taglio narrativo del documentario che questo regista ha utilizzato finora ora come linguaggio narrativo lo aita a raccontare un dramma assolutamente credibile che descrive l'impari lotta dell'individuo nei confronti del torpore istituzionale, dei pregiudizi degli uomini e una società che cerca di mettere in difficoltà le persone che sono ritenute diverse.
Norviyia (Norvegia, 2014) è un film difficile da valutare perché quel modo di raccontare in maniera demenziale con una struttura produttiva a bassissimo budget che costringe, o aiuta, a scelte controcorrente divertenti, intelligenti ma, alla fine, un po’ ripetitive e noiose non sempre gradevoli. Diretto dal greco Yiannis Veslemes, rappresenta in East to West una nazione che fino ad ora non aveva fatto parte di questa sezione competitiva. E' il 1984 e Atene arriva il vampiro Zano, gaudente, gran bevitore, ammiratore di belle donne e con una folta chioma bionda non certo di colore naturale. Al ritmo della musica da discoteca anni ottanta scopre i misteri della città e, apparentemente per caso, finisce in un bar di nome Zardoz, dove è possibile provare ogni droga, con il DJ che porta la gente fino al precipizio dell'oblio. L'incontro con Adonis e la tentatrice Alice annuncia l'inizio di una grande amicizia tra loro. L'avventura raggiunge un livello che lui non avrebbe mai pensato e che lo mette particolarmente in crisi. Insieme la loro vita cambia completamente. Si rende conto che ciò che in un primo momento sembrava una grande festa è in realtà un complotto elaborato e progettato esclusivamente per coinvolgerlo in una no return road. Zano si trova di fronte a una decisione difficile: rinunciare ai suoi ideali e servire il male, o preservare la sua dignità, rischiando la propria vita e quella delle persone che, forse, ama. Utilizzando elementi di punk nella sua stilizzazione artistica, questo film fantasioso potrebbe essere preso sia come un gioco bizzarro o quale commento caustico sulla situazione nella società greca contemporanea. Sicuramente non lascia indifferente e costringe a prendere posizione a favore o contro. Sembra un film goliardico ma, tutto sommato, riesce a far pensare.
Conclusioni….
(U.R.) La quarantanovesima edizione del Festival di Karlovy Vary si è allineata a quella che sembra essere, almeno sino ad oggi, la tendenza nell’anno per quanto riguarda le grandi rassegne di film: una linea di sufficienza senza punte d’eccellenza. Così è stato per Berlino e Cannes, ove il livello medio si è mosso su un livello medio alto, ma dove sono mancati i titoli degni di essere ricordati in futuro. Qui solo tre film si sono staccati dal livello medio e non è detto che la giuria li premi. Ci riferiamo a La Tirisia del messicano Jorge Pérez Solano, a nostro giudizio l’opera nettamente più significativa, a Szabadesés (Caduta libera) dell’ungherese György Pálfi e a Simindis Kundzuli (L’sola del granoturco) del georgiano George Ovashvili. Un discorso a parte merita lo straordinario disegno animato Rocks in My Pockets (Rocce in tasca) della lettone Signe Baumane, un film che, per il suo stesso genere, esce dal campo della narrazione di tipo tradizionale. In al altre parole il segno complessivo della manifestazione, il cui bilancio quantitativo è stato particolarmente positivo con oltre cento ventimila biglietti venduti, tende a un livello medio - alto con pochi punti d’eccellenza. Non è una situazione nuova né attribuibile solo a questa manifestazione. Il cinema sta attraversando in tutto il mondo una profonda crisi di trasformazione cui ha contribuito pesantemente la tecnologia consentendo spettacolarizzazioni impensabili o di difficile realizzazione sino a pochi anni or sono. Possibilità che hanno spinto prepotentemente l’industria sulla strada dei supercolossi elettronici, ma hanno anche reso più difficile, almeno per il momento, la vita dei cineasti che si muovono su un terreno più attento alla sperimentazione e all’arte. A questo stato di difficoltà complessiva si sono accompagnate le crisi che hanno colpito alcune cinematografie sino a pochi anni or sono all’avanguardia nella innovazione e creazione. Il cinema cinese, salvo poche eccezioni, si sta indirizzando, anche grazie alle scelte politiche governative, verso una trasformazione in senso hollywoodiano. I film iraniani hanno subito e continuano a subire il peso di scelte politiche censorie e repressive. La cinematografia rumena, che aveva offerto esempi straordinari di vitalità, appare in una fasce di riflessione, forse gelata dallo stesso successo internazionale arriso ad alcuni autori di quel paese. Venute meno queste tre importanti fonti creative sono rimaste sul campo alcune cinematografie europee e qualche scintilla di quelle latinoamericane. Karlovy Vary ha registrato questo e non poteva far altro o far meglio.
...e qualche nota sparsa
(F.F.) Another view propone 33 titoli che hanno quale comune denominatore l’avere insoliti approcci artistici, in pratica film d’essay di buon interesse. Due sono i titoli italiani selezionati, L’arbitro di Paolo Zucca e La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto (Pif). Tra le proposte piu’ interessanti e che difficilmente entreranno in un circuito distributivo tradizionale c’è B’ella, film del Malawi che mostra un'Africa autentica e che è stato realizzato grazie soprattutto alla Repubblica Ceca che ha creduto in questo progetto. Ricerca di identità, la vera amicizia, il primo amore, i rapporti complicati in un gruppo, rispetto della cultura tradizionale, scoprendo punti di forza personali, il rispetto per i genitori, la vita e la morte. Regista e sceneggiatore Tawonga Taddja Nkhonjera racconta la storia di un adolescente di diciassette che ha problematriche comuni a tutti i giovani di tutto il mondo. La storia si svolge in un villaggio chiamato Chazunda; B'ella, questo il nome della ragazza, ha una sua idea precisa sulla vita degli africani e vive il disagio di essere troppo giovane per essere ascoltata e troppo adulta per accettare tutto senza discutere. Tra i temi trattati, piu’ vicini alle problematiche di questo piccolo paese con quattordici milioni di abitanti, l’AIDS, la parità tra uomini e donne, l'importanza dell'istruzione e l'autostima delle ragazze africane. Girato in venticinque giorni, con il regista che ha curato, sempre in Malawi, anche la post - produzione. Questo cineasta è attivo nel cinema con corti e documentari da sei anni, vorrebbe creare una scuola professionale nel suo paese e conta molto sul successo del film per convincere il governo. Laureato in antropologia in Australia, è sensibile a tutto quanto rappresenti differenze e simiglianze tra i popoli. Attori non professionisti, un risultato finale interessante ma che non riesce ad emozionare, un film comunque da guardare e discutere.
Nella sezione Orizzonti, che non prevede competizione, sono presenti ventotto produzioni recenti provenienti da tutto il mondo, tra cui alcune premiate in importanti festival. La presenza italiana è garantita da Il capitale umano di Paolo Virzì, Le meraviglie di Alice Rohrwacher e Incompresa di Asia Argento. Tra i titoli presentati di buon interesse l’inglese Starred Up (Preferiti su tutti) del quarantottenne David Mackenzie, autore che qui ha firmato il suo film migliore, premiato in vari festival internazionale: in Italia era arrivato Follia (Asylum, 2005), un thriller sentimentale non memorabile. E’ un’opera totalmente ambientata in una prigione la cui vita racconta con durezza, in maniera particolarmente realistica, quasi disturbante. Il diciannovenne Eric è prematuramente trasferito in un carcere per adulti ma non si preoccupa e si prepara a dare battaglia. Dopo che ha ridotto a malpartito un secondino, il direttore della prigione lo affida ad uno dei detenuti più anziani, Nev, che è anche suo padre. Eric, che è cresciuto con l’esigenza di attaccare per non soccombere, rifiuta le regole non scritte della prigione e si inimica tutti. Lo costringono ad entrare in gruppo di terapia psicologica e, dopo un primo rifiuto, finalmente puo’ confessare quali sono i suoi problemi e si sente meglio. Il giovane scopre che non solo è possibile controllare la sua rabbia e aggressività, ma anche di avere fiducia negli altri. L'opportunità per il cambiamento porta speranza, ma è boicottato in tutte le maniere dai capi della prigione. Il film è perfetto nella costruzione psicologica dei personaggi, ed è sostenuto da un ottimo gruppo di interpreti e da una sceneggiatura che si rifà alla tragedia classica. L’obiettivo scava dentro i volti, perfora i bui interni con una forza espressiva notevole che fa della claustrofobia la vera protagonista del film. Mackenzie non fa sconti agli spettatori e li costringe a subire la stessa violenza dei suoi personaggi. Bello, intenso, difficile da dimenticare.
La sezione che prevede competizione e un premio ufficiale è il Forum degli Indipendenti con dodici titoli tra cui una coproduzione italiana realizzata in collaborazione con Romania e Grecia: La mezza stagione, diretto da Fabrizio Caputo. Il film è stato realizzato grazie al intervento sia finanziario che di location della Apulia Film Commision. Nella prima scena si vede un vecchio che si lamenta di un mondo che non capisce più. Le sequenze successive gradualmente introducono i vari abitanti di un imprecisato villaggio italiano del sud e tante scene bizzarre in cui compaiono i personaggi delle tre storie che si uniscono in questa commedia dai toni anche drammatici che dura un’ottantina di minuti serrati. Alcune di queste figure le conosciamo nella vita di tutti i giorni e il regista ci fornisce scarse informazioni sui loro rapporti e sulla loro vita. Tuttavia, la sensazione che si ha, grazie anche al cupo commento musicale, e che accadrà qualcosa di nefasto, di inquietante. Il film si propone di esplorare il mondo della provincia italiana dove lo sforzo di vivere al passo coi tempi si scontra con tradizioni radicate profondamente. Rappresenta il nuovo progetto di un gruppo di giovani professionisti pugliesi: un film radicalmente indipendente e di ricerca che fonde cinema, musica sperimentale e critica culturale per raccontare personaggi e luoghi di una provincia sospesa tra tradizione e contemporaneità. Concepito nell’ambito del Berlinale Talent Campus, quest’opera si avvale della produzione della Taratata Film diretta da Danilo Caputo con gli attori in gran parte non professionisti. Cesare e’ un musicista elettronico che si ispira ai suoni che registra per strada e che trasforma in musica: per soppravvivere lavora in un albergo. Giovanni è il portiere di notte nello stesso albergo, ma non riesce a dormire durante il giorno a causa di tutti i rumori che lo circondano. Carosina, oppressa dalla voce minacciosa del padre morto, dovrà passare attraverso uno strano rituale per liberare se stessa da quel fantasma. Le storie si intersecano ma rimangono indipendenti tra loro. Il film dimostra come con un budget limitatissimo si possa realizzare qualcosa di interessante e sufficientemente originale.
SEZIONE UFFICIALE
GRAN PREMIO – GLOBO DI CRISTALLO (25 000 DOLLARI AMERICANI DA DIVIDERSI FRA REGISTA E PRODUTTORE)
Simindis kundzuli (L’sola del granoturco) di George Ovashvili (Georgia, Germania, Francia, Repubblica Ceca, Kazakhstan)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA (15 000 DOLLARI AMERICANI DA DIVIDERSI FRA REGISTA E PRODUTTORE)
Szabadesés (Caduta libera) di György Pálfi (Ungheria, Francia, Corea del Sud)
Miglior regista
György Pálfi per Szabadesés (Caduta libera)
Miglior attrice
Elle Fanning per la sua interpretazione in Low Down (Depresso, Usa) di Jeff Preiss
Miglior attore
Nahuel Pérez Biscayart per la sua interpretazione in Je suis à toi (Sono tuo.,Belgio,Canada) di David Lambert
EAST OF THE WEST – COMPETITION
PREMIO EAST OF THE WEST (20 000 USD DA DIVIDERSI EQUAMENTE FRA REGISTA E PRODUTTORE)
Klass korrektsii (Classe correzionale) di Ivan I. Tverdovsky (Russia, Germania)
Menzione speciale
Varvari (Barbari) di Ivan Ikić (Serbia, Montenegro, Slovenia)
CONCORSO DOCUMENTARI
Miglior documentario di lunghezza superiore ai 60 minuti (5.000 dollari americani)
Waiting for August (Aspettando Agosto) di Teodora Ana Mihai (Belgio)
Menzione speciale
Steadiness (Stabilità) di Lisa Weber (Austria)
Miglior documentario di lunghezza superiore ai 30 minuti (5.000 dollari americani)
Autofocus di Boris Poljak (Croazia)
La reina (La regina) di Manuel Abramovich (Argentina)
FORUM DEGLI INDIPENDENTI - CONCORSO
Premio Forum degli indipendenti (Il film vincitore sarà acquistato dalla television ceca per 5.000 euro)
Anderswo (Dovunque altro) di Ester Amrami (Germania)
PREMIO DEL PUBBLICO
Magický hlas rebelky (La magica voce di un ribelle) di Olga Sommerová (Repubblica Ceca)
PREMI ALLA CARRIERA
Mel Gibson
William Friedkin
PREMIO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER IL CONTRIBUTO AL CINEMA CECO
Zdeněk Svěrák
PREMI NON STATUTARI
Premo internazionale della critica (FIPRESCI)
Rocks in My Pockets (Rocce nelle mie tasche) di Signe Baumane (Usa, Lettonia)
Premio della giuria ecumenica
Simindis kundzuli (L’sola del granoturco) di George Ovashvili (Georgia, Germania, Francia, Repubblica Ceca, Kazakhstan)
menzione speciale
Rocks in My Pockets (Rocce nelle mie tasche) di Signe Baumane (Usa, Lettonia)
Premio FEDORA per il miglior film della sezione East of the West
Bota di Iris Elezi e Thomas Logoreci (Albania, Italia Kossovo)
menzione speciale
Klass korrektsii (Classe correzionale) di Ivan I. Tverdovsky (Russia, Germania)
Premio Etichetta europea per il cinema (sezione East of the West)
Szabadesés (Caduta libera) di György Pálfi (Ungheria, Francia Corea del Sud)
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