02 Luglio 2014
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49mo Karlovy Vary International Film Festival |
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(U.R.) La sezione competitiva ha presentato due film non memorabili. Du goudron et des plumese (Bitume e piume) ricorda nel titolo, ma solo nel titolo, la punizione – impeciamento e piume – che nel Medio Evo veniva inflitta a coloro che avevano tradito i valori di una città, sia per ragioni economiche sia per motivi religiosi o morali. Ad essere oggetto di tanta malevola attenzione è Chistian un piccolo imbroglione, divorziato e d’origine algerina, che campa vendendo antiparassitari a ingenui padroni di casa a cui fa credere che lo loro villetta sia infestata di larve di formiche rosse. I malcapitati si fanno imbambolare dalle sue parole e comperano costosi trattamenti disinfestanti del tutto inutili. Il venditore è tutt’altro che un grande truffatore e, con i denari che guadagna con le provvigioni della ditta che rappresenta, riesce a malapena a campare e a tenere con se l’adorata figlioletta che la sentenza di divorzio ha affidato alla madre. Quest’ultima attende un figlio da un nuovo compagno, ma non serba rancore al marito precedente. Uno spiraglio di luce sembra aprirsi nell’esistenza di quest’imbrogliocello quando gli è offerta la possibilità di partecipare ad una sorta di palio fra borghi vicini incentrato su un triathlon che comprende canottaggio, corsa e salita su un alto palo. Proprio in questi giorno scoppia lo scandalo delle vendite forzate con fermo di polizia e denuncia da parte di alcuni truffati. Tutto sembra correre verso la rovina: l’allenatore lo esclude dalla squadra cittadina, i vicini affabili e gentili, diventano di colpo freddi e ostili, la nuova compagna che si era trovato – anche lei incinta di un altro – lo abbandona, la figlia lo tratta con disprezzo. Senonché quando partono le gare la squadra di quartiere naufraga miseramente e sarà solo il suo rientro all’ultimo istante a rendere il risultato meno devastante. Ora le cose sembrano sistemarsi e una nuova coppia si avvia alla vita in comune. Il film miscela ironia e tristezza come era già capitato a Ni á vendre ni á louer (Non da vendere né da affittare), un film sostanzialmente muto che aveva fruttato a questo cineasta il premio per la miglior regia nell’edizione del 2011 del festival. Solo che questa volta la tenuta stilistica è annacquata da una ricerca, prevedibile sin dall’inizio, di un lieto fine buonista che stempera alquanto l’approccio critico verso il conformismo e la mutevole ferocia della piccola borghesia. In definitiva un film piacevole ma nulla di più.
Priklyuchenie (Avventure) del kazako Nariman Turebayev porta sullo schermo l’ennesima versione de Le notti bianche (Belye noči, 1848), romanzo breve e giovanile di Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881) di cui si contano tre versioni cinematografiche memorabili: Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti e Quatre nuits d'un rêveur (Quattro notti di un sognatore, 1971) di Robert Bresson (1901 – 1999); mentre non hanno lasciato tracce sia il film firmato da Alain Silver nel 2005, sia le molte versioni per la televisione prodotte nei più disparati paesi. Diciamo subito che anche questa edizione franco-kazaca è destinata a breve memoria, visto che il regista non innova molto se non una rilettura, in chiave quasi ottimistica del finale. Del resto la modifica di questa parte del racconto segna un punto in comune con i grandi registi appena citati: l’italiano punta sulla solitudine dell’uomo in attesa, mentre il francese fa suicidare la donna. La storia è nota, a San Pietroburgo, durante il periodo estivo detto de le notti bianche, un uomo e una donna s’incontrano per quattro volte mentre lei aspetta un amante che ha promesso di ritornare e lui è sempre più affascinato dalla donna, magia che s’interromperà con il ritorno dell’uomo tanto atteso. Il cineasta kazaco utilizza molto liberamente questa vicenda, inserendovi un’anziana prostituta – costantemente ripresa di spalle – e usando come protagonisti un giovane guardiano notturno tentato da una bella fanciulla debitamente nevrotica e tentatrice. Incastri che non migliorano la qualità del testo, né vi aggiungono spessore. Il risultato è un film debole e pretenzioso, decisamente noioso e altrettanto banale.
(F.F.) Varvari (Barbari, 2014) di Ivan Ikić dimostra come il cinema possa coniugare problematiche di vario tipo all’interno di uno stesso raccoglitore. Produzione che riunisce tre paesi dissimili tra loro quali Serbia, Montenegro e Slovenia, ha una costruzione narrativa semplice che permette di far interpretare se stessi molte persone utilizzate come attori in un neorealismo dallo stile più rude ma che anche ora è in grado di fare vivere problematiche vere. Qui il disagio giovanile si estrinseca attraverso il mondo degli ultrà calcistici ma vi è anche il disagio politico legato a nazioni che per anni erano state unite in maniera forzosa sotto la Jugoslavia e che, sciolto questo ibrido politico, è esplosa in un mondo fatto di guerre e di mille rancori. Siamo in una piccola cittadina vicina a Belgrado, l’anno è il 2008, quello della dichiarazione d’indipendenza del Kossovo. Qui vive Luka, un adolescente che abita nella piccola cittadina serba di Mladenovac con una madre, abbandonata dal marito, che non lo capisce e che non gli dedica tempo ed amore. Lui e il suo migliore amico guidano gli appassionati di calcio locali e passano la maggior parte del loro tempo libero facendo il tifo per la squadra, bevendo birra e non rispettando le ragazze e trasformandole in pornostar sui social network. Il film segna il debutto alla regia dello scrittore e sceneggiatore Ivan Ikić che ha utilizzato un suo racconto molto realistico sul disagio di chi sta per divenire maggiorenne con la ricerca di identità in un contesto di disordini innescata da dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Attraverso il destino di questo diciassettenne, il regista presenta un ritratto delle giovani generazioni che, nelle sue parole, sono il futuro in una società di valori perduti, dove la corruzione, l'immoralità, la criminalità e gli abusi di potere prosperano. Raggiunge un alto livello di autenticità grazie alla decisione di utilizzare per la maggior parte dei ruoli dei dilettanti (solo tre parti sono interpretate da professionisti) che non hanno mai visto una sceneggiatura e le cui vite in molti aspetti riflettono le esperienze dei loro personaggi sullo schermo.
Tutt’altro discorso per lo sloveno Drevo (L’albero, 2014) della trentaseienne Sonja Prosenc che, dopo oltre dieci anni utilizzati per specializzarsi con stage di cinema ed avere diretto pochi short e documentari, punta con un tono autoriale alla sua prima sceneggiatura e regia. Risultato è un film pretenzioso che difficilmente riesce a comunicare qualcosa al pubblico se non una certa confusione ed inconsistenza, narrativa forse voluta, utilizzando uno script disequilibrato che spesso spiazza. Una storia, tre angolazioni. In tre capitoli, il film cerca di raccontare attraverso gli occhi di due fratelli e della loro madre Milena la situazione tragica che si abbatte sulla famiglia a causa di un incidente, o forse di un omicidio involontario. I due figli, l’adolescente Alek e sua sorella di nove anni devono stare in casa, l'unico luogo che la donna ritiene sicuro. Dopo un periodo di tempo diventa per loro una prigione da cui tentare di sfuggire per continuare a vivere. La tragedia familiare si sviluppa a poco a poco come un dramma intimo veicolata attraverso una narrazione non lineare; l'accento è posto sulla creazione di un ambiente sempre più complesso come la storia che racconta. Il film si salva per le bellissime immagini claustrofobiche create dal direttore di fotografia Mitja Ličen, che ha anche co-sceneggiato ed è da reputare il vero autore di questo film decisamente zoppicante. Oltretutto, c’è anche un tentativo non riuscito di creare atmosfere da thriller. Anche l’idea di vedere la stessa realtà attraverso le ottiche dei vari protagonisti non funziona appieno, soprattutto quando si deve sopportare la parte dedicata alla madre.
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