50° Thessaloniki Film Festival 2009 - Pagina 6

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50° Thessaloniki Film Festival 2009
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L'era dello stupido
L'era dello stupido
The Age of Stupid di Franny Armstrong è un bel documentario, prodotto da Greenpeace e dal WWF, sui disastri climatici che stanno minacciando l’equilibrio della natura nel mondo. La forma scelta è quella adottata da molti film di fantascienza, solo che, in questo caso dati e ipotesi sul futuro prossimo sono sorrette da rigorosi studi scientifici. Nel 2055 un sopravissuto alla catastrofe mondiale ha radunato in un’enorme torre nel nord della Norvegia i maggiori tesori artistici del mondo e conservato copia di tutti gli animali presenti oggi sulla terra. Davanti ad un computer avveniristico racconta come ci si sia avviati al disastro non dando ascolto ai numerosi allarmi lanciati dagli scienziati che avevano previsto come il crescente livello di sprechi e consumi stesse per rompere in modo irreversibile il fragile equilibrio su cui si basa la vita sul nostro pianeta. Anche l’ambientazione, come le previsioni, parte dalla realtà, infatti, da vari anni la Norvegia ha costruito una sorta di frigorifero naturale che conserva sotto il ghiaccio ogni tipo si vegetale presente sulla terra, questo per impedire che la continua moria di specie distrugga il patrimonio complesso e vario su cui si basa l’equilibrio del mondo. E’ un film impegnato, volutamente e salutarmente allarmista, cui, purtroppo, poche orecchie presteranno attenzione.
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Hadewijch è l’ultima fatica di Bruno Dumont che conferma il suo interesse per i temi religiosi e i problemi dello spirito. Un interesse che mescola aneliti all’assoluto a immagini crude di sesso e citazioni di violenza. In questo caso al centro del racconto c’è una giovane studentessa di teologia proveniente da una ricca famiglia parigina: è nata in un castello e abita un appartamento che sembra un museo. Travolta da una forte passione per il Cristo che, per lei, assume anche connotati carnali, tenta di umiliarsi in ogni modo per raggiungere l’assoluta perfezione spirituale: non mangia, soffre il freddo, prega in continuazione. E’ messa alla porta dalle suore del convento, dove è andata per monacarsi, perché il suo eccesso di devozione appare in contrasto con l’umiltà richiesta dal velo. Uscita incontra casualmente un giovane mussulmano, ladro e ribelle, che la introduce in una moschea in cui suo fratello predica la guerra santa. Convinta dalle cocenti parole del predicatore, dopo un viaggio in un paese mediorientale ove vede con i suoi occhi le miserie della guerra e la difficile condizione delle popolazioni arabe, partecipa a un atto terroristico nei pressi dell’Arc de Triomphe. Ritornata in convento, sarà raggiunta dalla polizia che le comunica, intuiamo, sia le conseguenze dell’attentato sia l’arresto dei terroristi. Disperata tenta di annegarsi, ma sarà salvata da un giovane muratore con una fedina penale non proprio immacolata. Questo piccolo criminale rappresenta, all’occhio del regista, una sorta di opposizione realista alla folle passione della giovane. Il tema è complesso e il regista lo sviluppa attraverso immagini perfette, usando attori non professionisti che si adattano splendidamente ai ruoli loro assegnati. Il percorso è quello già segnato da La vie de Jésus (1997) a L'humanité (1999) con la ricerca di una spiritualità che parte dal reale, con tutte le sue complessità e miserie, per arrivare al sublime, in questo caso all’equilibrio fra fanatismo e vera fede. Un film intrigante, ben costruito che dipana una tesi che può anche non coinvolgere, ma che merita attenzione e rispetto.
Naufragio sulla luna
Naufragio sulla luna
Kim ssi pyo ryu gi (Naufrago sulla luna) del sudcoreano Lee Hey-jun cita, sin dal titolo internazionale, il film di Robert Zemeckis (Cast Away, 2000), ne prende in blocco la situazione – un uomo solo deve sopravvivere in un luogo deserto – ma vi aggiunge alcuni elementi narrativi atti a facilitare il successo commerciale dell’opera. Un giovane rampante è disperato: i debiti che ha accumulato, e non è in grado di pagare, lo stanno portando al fallimento. Disperato decide di suicidarsi gettandosi da un alto ponte che attraversa un grande fiume. Non muore, ma approda su un’isola disabitata al centro del corso d’acqua. La grande città è di fronte a lui, ma non c’è modo d’arrivarci, i turisti che navigano sui battelli panoramici rispondono ai suoi gesti con cenni di saluto. In poche parole è naufrago a poche centinaia di metri da casa. L’unica che lo vede è una ragazza che vive autoreclusa dopo un incidente che le ha lasciato una grande cicatrice sul viso. Non ha rapporti con nessuno, neppure con sua madre che vive nello stesso appartamento e con cui comunica solo attraverso messaggini telefonici. I suoi rapporti con l’esterno sono attraverso il computer r il potente teleobiettivo di una macchina fotografica installata su un treppiede davanti alla finestra. Con questo strumento scorge il naufrago cittadino e lo scambia per un extraterrestre, iniziando con lui un fitto scambio di messaggi in bottiglia cui l’uomo risponde con scritte sulla sabbia. Il contatto umano la spinge a uscire dalla reclusione e, quando il naufrago sarà finalmente portato via dall’isola, ad andarlo a cercare e a sorridergli. Il film è ben costruito, ha un piacevole retrogusto sentimentale ed è assai meno banale di quanto si potesse temere.