50° Thessaloniki Film Festival 2009

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50° Thessaloniki Film Festival 2009
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50mo Festival Internazionale di Salonicco
Il Festival internazionale del film di Salonicco ha compiuto cinquant’anni, un anniversario importante per qualsiasi manifestazione. Purtroppo l’evento è stato celebrato fra mille difficoltà. Oltre alla solita mancanza di mezzi, aggravata da una crisi economica che in Grecia ha colpito in modo particolarmente pesante, c’è stato il cambio di maggioranza governativa, con il passaggio del potere dalle mani della destra a quelle socialiste. In questo paese il collegamento fra politica e istituzioni culturali è particolarmente stretto, per cui questa novità ha creato incertezze sull’immediato futuro, poiché l’attuale direttrice, Despina Mouzaki, è fra i maggiori produttori cinematografici del paese ed era stata scelta proprio dall’esecutivo conservatore, conto il socialista Michael Demopoulos. A queste difficoltà si è aggiunto il boicottaggio decretato dall’associazione degli autori, capitanata dal greco – francese Costantin Costa-Gavras.
I cineasti avevano proclamato, quando ancora governava la destra, l’astensione da qualsiasi rassegna ufficiale quale forma di protesta sia contro la reticenza del ministero a stilare una nuova legge sulla cinematografia, sia contro il meccanismo di assegnazione dei premi statali annuali ai film migliori. Questo sistema, vagamente simile a quello che sovraintende ai Premi Oscar, assegna alle varie categorie professionali la scelta dei film da premiare. Poiché questi riconoscimenti si traducono in denaro sonante, non è stato raro, denunciano i cineasti, che ci siano state manovre non chiare e veri e propri scambi di voti. Poco dopo la proclamazione dello stato di lotta il governo è caduto e le nuove elezioni hanno portato alla vittoria dell’opposizione socialista. A questo punto non aveva molto senso continuare sulla vecchia strada, ma i cineasti greci non hanno desistito, presentando il proseguimento del boicottaggio come forma di pressione sul nuovo esecutivo. Una decisione abbastanza priva di senso, giacché il nuovo Ministro della Cultura ha subito garantito che una nuova legge sul cinema sarebbe stata presentata, ma che i tempi tecnici imponevano di farlo solo nel corso della seconda metà del 2010. Nonostante queste assicurazioni i cineasti hanno confermato la protesta e, sussurra qualcuno, sono arrivati siano a chiedere al Festival una consistente somma di denaro per organizzare una contro manifestazione ad Atene (!!). Se questi sono inciampi importanti, quello più consistente è venuto, qui come altrove, dalla mancanza di nuovi titoli da inserire in cartellone. Gran parte delle opere viste, infatti, proveniva da altre rassegne (Cannes, Berlino, Venezia, ma anche Amsterdam e Montpellier). E’ questo un tema su cui varrebbe la pena avviare una riflessione. Nel mondo si continuano a produrre molti film, anche se meno degli anni precedenti, ma sono pochi quelli in grado di interessare i festival di qualità. A questo si deve aggiungere la voracità delle maggiori manifestazioni (oggi nessuno rinuncia a mettere in cartellone almeno 150 titoli, quando non sia arriva a superare i 200) per cui ciò che rimane alle manifestazioni che si collocano alla fine dell’anno, è solo la raccolta del meglio visto altrove. E’ una condizione che, da un lato, rafforza il rapporto con il territorio - gli spettatori locali sono in continua crescita - dall’altro riduce il prestigio internazionale di quasi tutte le rassegne di secondo livello. La 50ma edizione del Festival di Salonicco, stretta fra queste difficoltà, si è destreggiata al meglio, ma non ha potuto celebrare l’anniversario con lo smalto che ci si attendeva.

Ajami
Ajami
Il palmares ufficiale ha segnato la vittoria di Ajami sia per quanto riguarda il maggiore riconoscimento sia per ciò sia la migliore sceneggiatura. Questo film aveva già ottenuto una menzione speciale della sezione Camera d’Or (miglior debutto) al festival di Cannes 2009 e il massimo riconoscimento del Festival du Cinema Mediterranèe di Montpellier. L’opera è firmata dall’israeliano Yaron Shani e dal palestinese Scandar Copti che hanno impiegato ben sette anni per portarla a termine. Il quartiere di Ajami, a Jaffa, è uno dei tanti luoghi in cui si mescolano razze e religioni, legalità e delinquenza. Il film è diviso in due parti che corrispondono ad altrettante storie. La prima racconta la faida che si apre fra una famiglia palestinese e un clan beduino dopo che un palestinese ha ferito gravemente un beduino che si era presentato a riscuotere il pizzo nel ristorante gestito da un membro dell’altro gruppo. La mediazione di un venerabile potrebbe anche portare alla pace fra i due gruppi, sennonché la somma stabilita come risarcimento del torto è talmente alta da non poter essere pagata. A questo punto inizia la seconda storia. Un giovane palestinese lavora in nero in un ristorante per raccogliere il denaro necessario a far operare la madre. Qui incontra un quasi coetaneo che sogna un futuro di pace al fianco della fidanzata israeliana. Un altro personaggio, destinato ad avere un’importanza vitale nel racconto è un poliziotto israeliano che vive nella speranza di vendicare un suo fratello trovato morto nel fondo di una grotta. Queste storie s’incroceranno in un finale dai toni grandguignoleschi in cui, alla maniera dei film di Quentin Tarantino, le sparatorie e il sangue si mescolano sprazzi d'ironia. Così raccontato il film, può sembrare persino banale sennonché i due registi s’industriano a mescolare tempi e luoghi, a fare vedere l’oggi prima dello ieri, a trascurare volutamente passaggi normativamente importanti lasciandoli alla fantasia dello spettatore. E’ un processo narrativo non lineare di cui non sempre si comprende la necessità estetica. Allo stesso modo la scelta stilistica di favorire le atmosfere cupe se, da un lato, appare funzionale al sostanziale pessimismo degli autori sulla speranza di una vera pace fra le genti d’Israele, dall’altro affatica lo svilupparsi del racconto rendendo alcune parti più oscure del necessario. In definitiva è un testo a tratti pregevole, sovrabbondante e non sempre lucido.
Medaglia al valore
Medaglia al valore
Il premio speciale della giuria è andato a un film molto bello e quasi nuovo perché, negli stessi giorni, è stato premiato anche al Festival di Torino. Medalia de onoare (Medaglia al valore) del rumeno Calin Peter Netzer che ha ottenuto anche, ex aequo, quello per la migliore sceneggiatura, il riconoscimento dei critici (FIPRESCI) e il diploma per il migliore interprete maschile. E’ un riconoscimento che conferma il felice momento attraversato da questa cinematografia. Un ex combattente della seconda guerra mondiale, oggi settantacinquenne, riceve dal ministero della guerra la comunicazione che è stato insignito di una medaglia al valore per un’azione compiuta nel 1944, durante la guerra contro i nazisti dopo che la Romania aveva cambiato fronte passando dall’alleanza con le potenze dell’Asse a quella con l’Unione Sovietica. Da qualche tempo pensionato, l’uomo vive fra le mille difficoltà che segnano la vita di tutti i giorni. Il figlio è emigrato in Canada, si è sposato con una ragazza di colore e intrattiene rapporti quasi solo con la madre. La vita coniugale è segnata da mutismo fra i coniugi, un rancore inspessito dagli inciampi della vita quotidiana: il riscaldamento che non funziona, la difficoltà di saldate puntualmente le spese d’amministrazione, i vicini che parlano quasi solo con la moglie. In quest’universo grigio il riconoscimento ministeriale diventa, una sorta di rivincita, un momento di ritrovata dignità. Sennonché, pochi giorni dopo arriva una seconda lettera che segnala come la prima comunicazione sia inviata per errore: la medaglia non è del pensionato ma di un suo quasi omonimo. Sembrerebbe un piccolo incidente, ma l’uomo si è inorgoglito, ha trovato una ragione d’identità, non vuole restituire il pezzetto di metallo e, quando è costretto a farlo a forza, se ne compra un altro da un rigattiere e lo sfoggia con orgoglio al pranzo organizzato per la visita del figlio, ritornato brevemente a casa dopo un paio d’anni. E’ una cerimonia in cui l’imbarazzo si taglia con il coltello, tutti sembrano felici, anche se quasi non parlano con lui, solo il nipotino, che lui vede per la prima volta, da importanza alla medaglia, ma lo fa solo per giocarci. L’anziano, triste e deluso, può solo trincerarsi dietro un mesto sorriso di circostanza. E’ una storia molto semplice, trattata con finezza e grande attenzione psicologica. Vi traspare molto di più che non un semplice aneddoto, bensì il quadro di una condizione umana umiliata ieri, messa da parte oggi. Questo vecchio illuso è parente stretto dei milioni di esseri umani prima schiacciati dal socialismo reale, poi travolti dal capitalismo selvaggio. Un film che tratteggia un quadro di grande umanità e lo fa con misura e delicatezza.
Cinema mobile
Cinema mobile
Già che siamo in tema di cinema rumeno, una delle pochissime cinematografie che mostrano ancora una pregevole vivacità creativa, citiamo Caravana cinematografica (Cinema mobile) del rumeno Titus Munteam conferma lo stato di buona salute di questa cinematografia anche quando imbocca strade già sperimentate. In quest’opera risuonano echi di testi conosciuti, uno per tutti L’ispettore generale (Revizor, 1936) di Nikolaj Vasil'evič Gogol' (1809 – 1852) e richiami stilistici alla commedia di costume italiana. Siamo nel 1959 in un piccolo villaggio di campagna ove arriva un funzionario culturale mandato dalla direzione provinciale del partito con cinema mobile per proiettare ai paesani l’ennesimo film bellico di esaltazione del regime. E’ un giovane funzionario ambizioso, ottuso e frustrato. Ha passato la giovinezza in un orfanatrofio e ora vive l’incarico come una rivincita delle umiliazioni che ha dovuto subire. La cronaca disorganizzazione della burocrazia - nessuno ha tenuto conto che gli abitanti del paesino lavorano in una città vicina e ritornano solo il sabato per cui non c’è quasi nessuno, così come non si sono state prese in considerazione le continue interruzioni nell’erogazione dell’energia elettrica - e l’inclemenza del tempo - infuria varo e proprio alluvione - forniscono il pretesto al piccolo burocrate per scorgere sabotatori e anticomunisti da ogni parte. Così, quando un mandriano debole di mente, manda le mucche a cozzare contro il camion - cinema facendolo finire in un fosso, non accetta che la cosa come un banale incidente di percorso, ma vi scorge una trama sovversiva da denunciare alle autorità. Allo stesso modo quando alcuni rulli di pellicola finiscono accidentalmente in acqua, non pensa a una normale sbadataggine, ma a una trama controrivoluzionaria. L’unica cosa che lo intenerisce sono i begli occhi e il corpo sinuoso della giovane bibliotecaria la cui immagine mentre si aggiusta le calze lo induce a masturbarsi, visto dalla donna, mentre scorre ciò che resta del film patriottico. In qualche modo la missione educatrice è portata temine, ma, prima di ripartire per il capoluogo di provincia il piccolo burocrate fa fermare il camion davanti alla casa in cui abita la giovane, scende e la violenta. Poco dopo arriva la notizia che, nonostante le assicurazioni fornite dal piccolo funzionario prima di andare via, una commissione d’inchiesta è già in viaggio per scovare i sabotatori che si annidano fra i poveri paesani. E’ un film molto amaro, una di quelle opere che coprono con sorriso e gag la denuncia di un’epoca terribile che nessuno rimpiange. Il modello narrativo è, in tutta evidenza, quello della commedia italiana, anche se la malinconia e la pena superano notevolmente la voglia di ridere. Stilisticamente il film non eccelle in originalità, ma ha una forza morale e politica che merita grande attenzione.

Verso nord
Verso nord
Il premio per la migliore regia è andato a Norteado (Verso nord) del messicano Rigoberto Perezcano è un bel quadro sociale che ha al centro un giovane che tenta di entrare illegalmente negli Stati Uniti passando per la frontiera vicina alla città di Tijuana. Scoperto e respinto due volte, forse riuscirà nell’impresa nascondendosi in una poltrona trasportata dall’anziano Asensio, che ha incontrato nella città di confine. Sempre nella cittadina di confine ha conosciuto due donne, entrambe vedove bianche dell’emigrazione clandestina. Ela gestisce un negozietto di generi alimentari e Cata la aiuta. Entrambe finiscono nel letto del prestante aspirante emigrante, che ha lasciato al villaggio moglie e figli, dando cita a storie d’amore intrecciate da cui emerge la profonda solitudine e la miseria in cui sono immerse queste genti che vivono quasi in miseria davanti alla porta degli Stati Uniti. Il film intreccia con abilità e misura storie individuali e sguardo generale, sonda con acutezza le psicologie dei personaggi, ma non tralascia il panorama complessivo in cui sono inserite. E’ un’opera importante, robusta nella costruzione e precisa nel tratteggio dei caratteri.
Il giorno che Dio è andato in ferie
Il giorno che Dio è andato in ferie
Ruth Nirere, interprete di Le jour où Dieu est parti en voyage (Il giorno che Dio è andato in ferie) del belga Philippe van Leeuw, ha ottenuto il riconoscimento per la migliore interpretazione femminile. Il film ci riposta ai primi giorni del genocidio ruandese, fra il 6 aprile e la metà di luglio del 1994. In questi cento giorni gli hutu scatenarono una caccia ai tutsi (Watussi) non risparmiando donne, vecchi bambini. La scintilla che fece esplodere la carneficina fu la morte del presidente Juvénal Habyarimana, il cui aereo fu abbattuto da un missile terra aria che mai si seppe con sicurezza lanciato da chi mentre era di ritorno, insieme al collega del Burundi Cyprien Ntaryamira, da un colloquio di pace che avrebbe dovuto stabilire una tregua negli scontri fra le due etnie. I morti furono più di un milione, la maggior parte uccisi a colpi di machete. In quell’atmosfera terribile la giovane tutsi Jacqueline riesce a salvarsi nascondendosi, prima, in una soffitta e fuggendo, poi, nella foresta. Qui incontra un uomo ferito, ma anch’egli sopravvissuto. Lo cura urinando sulla ferita e vive con lui qualche settimana. Quando l’uomo trova, casualmente, un machete e inizia a costruire una capanna, lei fugge nuovamente e ritorna, ben sapendo che cosa la attende, nel villaggio da cui era fuggita. Il film è girato molto bene, con pochissimi dialoghi e un’ottima direzione d’attori. Mette da parte, sin quasi dalle prime sequenza, qualsiasi connotato storico per concentrarsi su una fuga dal pericolo fuori dal tempo, né segnata da un preciso luogo geografico. Una lotta per la sopravvivenza contro il tempo, gli uomini e gli elementi che tende ad assumere un valore universale. Così facendo perde non pochi punti di forza e si allinea alle mille altri racconti di fughe già visti.
Persone scomparse
Persone scomparse
Altri riconoscimenti sono andati a Sarameul chatseumnida (Persone scomparse) del sudcoreano Lee Seo e a Es Kommt der Tag (Il giorno verrà), opera seconda della tedesca Susanne Schneider. Il primo ruota attorno alla figura di un minorato mentale, angariato e usato come uno schiavo dal proprietario di un’agenzia d’affari. Il piccolo boss - dotato di moglie, figli e amante - lo utilizza per affiggere volantini di ricerca di persone e animali scomparsi senza sapere che alcuni sono stati sequestrati e uccisi proprio dal disabile. Quest’ultimo soffre di una sindrome che potremo definire del cane, nel senso che vive come un animale e ambisce solo ad avere un padrone. Quando il piccolo affarista scopre le malefatte dell’invalido e lo licenzia, questi lo uccide e ne occulta il corpo. Ora è il volto del piccolo boss ad apparire sui manifesti delle persone scomparse. Il subnormale, intanto, è alla ricerca di un nuovo padrone. Dovrebbe essere una sorta di metafora della dipendenza dal potere autoritario e dei crimini di cui si macchiano i servi incapaci di distinguere gli ordini giusti da quelli sbagliati. Dovrebbe, ma il film cozza contro l’eccessiva specificità psicologica del caso. Lo stile narrativo tende a confondere i piani del racconto e questo non facilita lo scorrimento della storia. Inoltre i toni sono sistematicamente sopra le righe: l’invalido ha un aspetto ributtante, il titolare dell’impresa è antipatico, bugiardo e violento con i deboli, insomma stereotipi più che personaggi adeguatamente costruiti. In altre parole, una corsa al limite che pesa negativamente sul bilancio dell’opera.
Il giorno verrà
Il giorno verrà
L'opera della regista tedesca ruota attorno a Judith, una viticoltrice alsaziana che conduce, con il marito francese e due figli, un’azienda che ha conosciuto giorni migliori. Un giorno le capita in casa la giovane Alice che si comporta in modo strano. Presto scopriremo che anche lei è figlia sua. La donna l’ha abbandonata trenta anni or sono quando, partecipando a una banda di terroristi, stile RAF (Rote Armee Fraktion), aveva dovuto fuggire dopo aver commesso un omicidio nel corso di una rapina di autofinanziamento. Il passato riemerge, la nuova famiglia, che nulla sapeva, ne è sconvolta, la ragazza appena arrivata, pretende una sorta di nemesi. L’avrà con la decisione della madre di ritornare in Germania per consegnarsi alla polizia. Lo farà davvero? La macchina da presa la lascia che guarda incerta le prime case oltre la frontiera. Il tema dell’eredità del terrorismo politico è argomento di prim’ordine che assume, in Germania, toni particolarmente drammatici in considerazione della ferocia mostrata dai brigatisti e dell’altrettanta violenza con cui lo Stato li ha combattuti. Su questo versante il film ha il merito di affrontare temi e drammi tutt’altro che sopiti, ma ha anche la debolezza di farlo attraverso una storia molto privata, una vicenda in cui psicologie e scambi interpersonali finiscono per avere largamente la meglio sul quadro sociale. Lo stile narrativo è classico, la regista non cerca tanto i colpi di scena, quanto la rappresentazione corretta dei personaggi. In definitiva un film ben costruito, ma meno coraggioso si quanto era lecito attendersi.

La non amata
La non amata
Passiamo ora in rassegna gli altri titoli in concorso. In The Unloved (La non amata) la britannica Samantha Morton tratteggia il ritratto di un’undicenne sottratta al padre, cui il tribunale l’aveva affidata dopo la separazione dalla moglie, che finisce in una sorta di casa – famiglia gestita dai servizi sociali dopo che si è scoperto che il genitore la picchiava selvaggiamente. Nel nuovo ambiente la ragazzina fa conoscenza di una sedicenne ladra e ribelle che diventa per lei una sorta di sorella maggiore cui affidarsi. Il film è centrato sulla descrizione dei sussulti e della psicologia di questa non amata che cerca disperatamente qualcuno cui volere bene e che la accetti e curi. E’ un ritratto terribile della condizione dei giovani - un quadro finale ci fornisce le cifre impressionanti di quanti ragazzi sono a carico dei servizi sociali inglesi – e delle lacerazioni che colpiscono il loro animo. E’ un film dal taglio tradizionale ma costruito con grande forza e commozione.
L'ultima estate alla Boyita
L'ultima estate alla Boyita
El ùltino verano de la Boyita (L'ultima estate alla Boyita) dell'argentina Julia Solomonoff è la classica storia di apprendimento e crescita al cui centro c'è una bambina che sta entrando nell'adolescenza. Sua sorella ha avuto le prime mestruazioni, cosa che lei le invidia, suo padre, un dottore, la porta a trascorrere le vacanze estive nella fattoria di famiglia, la Boyita. Qui ritrova un amichetto, poco più grande di lei, figlio del fattore che amministra la tenuta. Il giovane è affetto da una rara forma di ermafroditismo e, per questo, nasconde il corpo. Il padre del giovane vive la malattia come una sorta di peccato vergognoso, picchia il figlio e non lo fa curare. Il ragazzo fugge da casa quando il padre vende il suo cavallo favorito, ma il medico ricompra l’animale e consente al giovane di vincere un’importante gara ippica. Al traguardo il giovane non si ferma e continua a cavalcare sino a perdersi nell'orizzonte. La ragazzina assiste a tutto questo e lo trasforma in esperienza di vita destinata a un ricordo perenne. Il film descrive con misura e tatto un momento difficile nell’esistenza di ciascuno, ne coglie con intelligenza le sfumature, rifugge da pur possibili venature morbose e si afferma come una piccola opera segnata da buon gusto e attenzione.
Il campo del padre
Il campo del padre
Apaföld (Il campo del padre) dell’ungherese Viktor Oszkár Nagy è un bel racconto basato sul difficile rapporto fra un genitore, da poco uscito di prigione, e il figlio che gli rimprovera la relazione con una nuova compagna, sorella della prima moglie. Tutto questo ha per sfondo la volontà dell'ex detenuto di rifarsi una vita costruendo un vigneto, questo in contrasto con il desiderio del giovane di affrancarsi dalla custodia paterna, anche a costo di diventare un delinquente. E' un film formalmente ben costruito e retto da ottimi attori, ma sostanzialmente calligrafico nell'impostazione e nello stile. E', in altre parole, una buona prova di regia ma fine a se stessa.
San Nicola
San Nicola
St. Nick (San Nicola) dell’americano David Lowery racconta di fratello e sorella - lui ha undici anni, lei sei - in fuga da casa di famiglia senza che ce ne sia spiegato il motivo. Si aggirano senza meta nei boschi e nei casolari abbandonati di un Texas visto con sguardo inusuale. Alla fine saranno catturati e ricondotti a casa, ma poche ore dopo il ragazzo è già nuovamente sulla strada. E’ uno di quei film che tanto piacciono al nuovo cinema americano per il modo in cui sposano immagini realiste a un racconto dai connotati quasi surreali. Qui il regista mostra di saper ben guidare i piccoli interpreti e di costruire una storia in cui la tensione fa dimenticare le non poche incongruenze narrative catturando l’attenzione dello spettatore dal primo all’ultimo fotogramma, ma senza rispondere a nessuna delle domande che possono venirgli in mente.

Il sangue e la pioggia
Il sangue e la pioggia
La sangre y la lluvia (Il sangue e la pioggia) del colombiano Jorge Navas è un noir dalla struttura tradizionale e prevedibile. La storia si sviluppa in una notte di pioggia a Bogotà, dove una pubblicitaria alcolizzata e assatanata di sesso incontra casualmente un taxista che sta fuggendo da un gruppo di delinquenti che vogliono vendicare la morte di un loro compare, ucciso dal fratello dell’autista. Asfalto bagnato, alcol e cocaina a valanga, amplessi sordidi, luci al neon, revolverate, botte e massacro finale inseriscono quest’opera nel binario del più tradizionale cinema di genere senza aggiungervi un grammo di novità.
Heliopolis
Heliopolis
Heliopolis dell'egiziano Ahmad Abdalla è il classico racconto a più personaggi riuniti dal fatto di vivere nel quartiere cairota di Heliopolis. I modelli cui s'ispira il regista sono numerosi e di vecchissima data. C'è il soldatino costretto a un lungo servizio di guardia che allevia la solitudine sfamando un cagnolino randagio, il medico che ha ottenuto un incarico all’estero ed è incerto se andare o restare, la coppia che sta mettendo su casa e deve fare conti con la mancanza di soldi. In poche parole un'umanità varia che sopravvive nel caos di una grande città. C’è davvero poco di nuovo dal punto di vista narrativo e ancor meno da quello stilistico. Il modello, accolto quasi pedissequamente, è quello di un certo neorealismo minimo, davvero fuori tempo.
Niente di personale
Niente di personale
Come già notato i titoli in cartellone, erano davvero molti. Alcuni meritano di essere ricordati. Una delle opere più interessanti è stata Nonthing Personal (Niente di personale), primo lungometraggio dell’olandese d’origine polacca Urszula Antoniak. Vi si descrivono con precisione e grande partecipazione i triboli di una giovane che reagisce alla fine di un amore (morte o fuga dell’amato non è dato sapere) iniziando a camminare verso nord. Dormendo in tenda, campando di poco, circondata da un paesaggio verde e freddo della Connemara (Irlanda occidentale) arriva in un’isola magnifica in cui vive un vedovo che cura un piccolo giardino, cattura aragoste e le offre un tetto. Dapprima lei rifiuta sospettando delle intenzioni dell’uomo, poi, poco a poco, è conquistata dalla sua gentilezza sino a condividerne il letto. Proprio quando sembra essere approdata a un momento di quiete, l’uomo muore improvvisamente. Lei si stringe per un’ultima volta alla salma, poi riprende il viaggio incurante del fatto che il morto l’ha lasciata erede della casa e dei suoi averi. E’ quello che si suole dire un film d’attori, nel senso che gran parte del fascino dell’opera poggia sulla recitazione perfetta e toccante di Stephen Rea e Lotte Verbeek. Tuttavia non si esauriscono in questa direzione i dati positivi di un film che trova nella costruzione del quadro di due solitudini, anche l’uomo è rimasto vedovo da poco, punte di alta commozione. Pregevole, in particolare, la performance di Lotte Verbeek che riesce a rendere più che credibile lo strazio che traspare da una violenza di comportamento che copre e svela una profonda necessità d’affetto. Davvero un testo pregevole.

L'era dello stupido
L'era dello stupido
The Age of Stupid di Franny Armstrong è un bel documentario, prodotto da Greenpeace e dal WWF, sui disastri climatici che stanno minacciando l’equilibrio della natura nel mondo. La forma scelta è quella adottata da molti film di fantascienza, solo che, in questo caso dati e ipotesi sul futuro prossimo sono sorrette da rigorosi studi scientifici. Nel 2055 un sopravissuto alla catastrofe mondiale ha radunato in un’enorme torre nel nord della Norvegia i maggiori tesori artistici del mondo e conservato copia di tutti gli animali presenti oggi sulla terra. Davanti ad un computer avveniristico racconta come ci si sia avviati al disastro non dando ascolto ai numerosi allarmi lanciati dagli scienziati che avevano previsto come il crescente livello di sprechi e consumi stesse per rompere in modo irreversibile il fragile equilibrio su cui si basa la vita sul nostro pianeta. Anche l’ambientazione, come le previsioni, parte dalla realtà, infatti, da vari anni la Norvegia ha costruito una sorta di frigorifero naturale che conserva sotto il ghiaccio ogni tipo si vegetale presente sulla terra, questo per impedire che la continua moria di specie distrugga il patrimonio complesso e vario su cui si basa l’equilibrio del mondo. E’ un film impegnato, volutamente e salutarmente allarmista, cui, purtroppo, poche orecchie presteranno attenzione.
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Hadewijch è l’ultima fatica di Bruno Dumont che conferma il suo interesse per i temi religiosi e i problemi dello spirito. Un interesse che mescola aneliti all’assoluto a immagini crude di sesso e citazioni di violenza. In questo caso al centro del racconto c’è una giovane studentessa di teologia proveniente da una ricca famiglia parigina: è nata in un castello e abita un appartamento che sembra un museo. Travolta da una forte passione per il Cristo che, per lei, assume anche connotati carnali, tenta di umiliarsi in ogni modo per raggiungere l’assoluta perfezione spirituale: non mangia, soffre il freddo, prega in continuazione. E’ messa alla porta dalle suore del convento, dove è andata per monacarsi, perché il suo eccesso di devozione appare in contrasto con l’umiltà richiesta dal velo. Uscita incontra casualmente un giovane mussulmano, ladro e ribelle, che la introduce in una moschea in cui suo fratello predica la guerra santa. Convinta dalle cocenti parole del predicatore, dopo un viaggio in un paese mediorientale ove vede con i suoi occhi le miserie della guerra e la difficile condizione delle popolazioni arabe, partecipa a un atto terroristico nei pressi dell’Arc de Triomphe. Ritornata in convento, sarà raggiunta dalla polizia che le comunica, intuiamo, sia le conseguenze dell’attentato sia l’arresto dei terroristi. Disperata tenta di annegarsi, ma sarà salvata da un giovane muratore con una fedina penale non proprio immacolata. Questo piccolo criminale rappresenta, all’occhio del regista, una sorta di opposizione realista alla folle passione della giovane. Il tema è complesso e il regista lo sviluppa attraverso immagini perfette, usando attori non professionisti che si adattano splendidamente ai ruoli loro assegnati. Il percorso è quello già segnato da La vie de Jésus (1997) a L'humanité (1999) con la ricerca di una spiritualità che parte dal reale, con tutte le sue complessità e miserie, per arrivare al sublime, in questo caso all’equilibrio fra fanatismo e vera fede. Un film intrigante, ben costruito che dipana una tesi che può anche non coinvolgere, ma che merita attenzione e rispetto.
Naufragio sulla luna
Naufragio sulla luna
Kim ssi pyo ryu gi (Naufrago sulla luna) del sudcoreano Lee Hey-jun cita, sin dal titolo internazionale, il film di Robert Zemeckis (Cast Away, 2000), ne prende in blocco la situazione – un uomo solo deve sopravvivere in un luogo deserto – ma vi aggiunge alcuni elementi narrativi atti a facilitare il successo commerciale dell’opera. Un giovane rampante è disperato: i debiti che ha accumulato, e non è in grado di pagare, lo stanno portando al fallimento. Disperato decide di suicidarsi gettandosi da un alto ponte che attraversa un grande fiume. Non muore, ma approda su un’isola disabitata al centro del corso d’acqua. La grande città è di fronte a lui, ma non c’è modo d’arrivarci, i turisti che navigano sui battelli panoramici rispondono ai suoi gesti con cenni di saluto. In poche parole è naufrago a poche centinaia di metri da casa. L’unica che lo vede è una ragazza che vive autoreclusa dopo un incidente che le ha lasciato una grande cicatrice sul viso. Non ha rapporti con nessuno, neppure con sua madre che vive nello stesso appartamento e con cui comunica solo attraverso messaggini telefonici. I suoi rapporti con l’esterno sono attraverso il computer r il potente teleobiettivo di una macchina fotografica installata su un treppiede davanti alla finestra. Con questo strumento scorge il naufrago cittadino e lo scambia per un extraterrestre, iniziando con lui un fitto scambio di messaggi in bottiglia cui l’uomo risponde con scritte sulla sabbia. Il contatto umano la spinge a uscire dalla reclusione e, quando il naufrago sarà finalmente portato via dall’isola, ad andarlo a cercare e a sorridergli. Il film è ben costruito, ha un piacevole retrogusto sentimentale ed è assai meno banale di quanto si potesse temere.

Macellata
Macellata
Fra le molte sezioni collaterali del festival ce n’era una dedicata al cinema filippino. Qui abbiamo visto due film del regista Brillante Mendoza che confermano l’eterogeneità degli interessi e dello stile di quest’autore. Kinatay (Macellata) racconta la notte interminabile passata da un giovane studente di criminologia che ha appena regolarizzato il legame con la donna che gli ha dato un figlio. Lo studente, per consentire alla compagna di studiare a sua volta, si mette al servizio di una banda incaricata di punire una prostituta che non ha pagato la droga che le è stata fornita. La donna è sequestrata, picchiata, stuprata e, alla fine, squartata. Un bel programmino lungo poco meno di due ore, girato con macchina a mano e con toni cupi, spesso nel buio quasi totale. Lo scopo dovrebbe essere quello di denunciare la violenza e l'incapacità della polizia a porvi rimedio, in realtà il tasso di compiacimento è talmente alto da rasentare il disgusto. Come già accadeva nel precedente Serbis (2008) l'impressione è di un'operazione furba, che solletica i peggiori istinti dello spettatore facendo finta di denunciarli.
Lola
Lola
Completamente diverso Lola dello stesso autore che sembra opera di un altro cineasta. Le due Lola che compaiono del film sono le anziane nonne di nipoti coinvolti in un terribile fatto di sangue. Una è la parente di un giovane ucciso, l’altra l’ava del probabile omicida. Tutto si svolge in parallelo e nel corso di poche giornate, da una parte c’è la preparazione del funerale della vittima e la richiesta di giustizia, dall’altra il tentativo di alleviare la condizione del detenuto e la ricerca di una somma sufficiente a tacitare i parenti del morto in modo che il giudice possa concedere la libertà in attesa di giudizio. Ciò che il regista ci dice con queste vicende parallele è che non vi sono né vittime né carnefici, ma solo poveri esseri umani in balia di una società violenta e classista. Il film è ben costruito e girato abilmente, anche se la tesi principale che vi circola appare non del tutto convincente e rischia di sembrare eccessivamente assolutoria. L’abilità del cineasta c’è tutta, ma ciò che convince di meno è il senso complessivo dell’operazione e il significato essenziale del discorso.
Drammi occidentali
Drammi occidentali
Eastern Play (Drammi occidentali) del bulgaro Kamen Kalev è il classico ritratto delle drammatiche condizioni, morali e materiali, in cui sono piombati i paesi ex – socialisti dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il filo del racconto passa attraverso le storie di due fratelli: un artista frustrato, appena uscito dal baratro della droga, e un giovane tentato dalla violenza di una banda fascista e razzista. Tutt'attorno ci sono famiglie distrutte, donne emarginate, politici disposti a usare la delinquenza comune per raggiungere i propri obiettivi di potere. Esaminato da un punto di vista stilistico, il film non contiene grandi elementi di novità, ma ha il pregio di affermare con forza lo stato di profonda decadenza e violenza diffusa di cui sono preda molti paesi dell’ex Europa orientale.

Danzare sul ghiaccio
Danzare sul ghiaccio
Questo Festival ha sempre riservato uno spazio di rilievo al cinema di casa. Quest’anno, causa anche il boicottaggio citato in apertura, questa sezione si è rivelata assai più esile del previsto. Per informazione citiamo alcuni titoli che vi sono comparsi. Orevondas ston pago (Danzare sul ghiaccio) è il secondo film narrativo del regista greco Stavros Ioannou e s’inserisce bene nel filone civile dedicato ai migranti, in particolare alle tragedie che deve affrontare chi tenta di passare clandestinamente da un paese all’altro. I precedenti non mancano certo, a iniziare da Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi sino ai più recenti Die Reise der Hoffnung (Il viaggio della speranza, 1990), del regista svizzero premio Oscar Xavier Koller, e Verso l’Eden (Eden à l'Ouest, 2009) di Costa-Gavras. Tre giovani donne, una russa, una bulgara e una rumena, si affidano a un passeur che, dalla Bulgaria dovrebbe farle arrivare in Grecia. Poiché tutte e tre sono giovani e carine, è ovvio che chi le aiuti a scavalcare i monti - un figuro così losco e violento che non si capisce come facciano a fidarsi di lui - cerca di violentarle. La cosa gli va bene con la prima, la russa si dimostra disponibile, mentre la rumena si ribella e lo uccide. Ora le tre donne sono sole nella fitta boscaglia che divide i due paesi e decidono di tentare il passaggio da solo. Pioggia, prima, e neve, poi, rendono la cosa particolarmente difficile. La rumena si ammala e muore per il freddo le altre due incappano in un branco di cacciatori che, tanto per cambiare, picchiano e violentano la russa. Mentre risparmiano la bulgara che ha i piedi congelati e, di lì a poco si lascerà morire sotto la neve. Quasi uno scherzo della sorte, perché lei è una provetta pattinatrice, da qui il titolo, che andava in Grecia nella speranza di proseguire la carriera. Rimane solo la russa che corre nella neve, forse si salverà, forse morirà anche lei. Lo spunto è stato offerto, dice il regista, da una storia realmente accaduta e non si stenta a crederlo: basta aprire un giornale in un qualsiasi giorno per trovare altre storie, di terra o di mare, che raccontano tragedie analoghe. Lo stile narrativo è fortemente influenzato dalla carriera documentaria del regista e dall’interesse che prova nei confronti del neorealismo. La macchina da presa propone ambienti veri, ci racconta una storia plausibile, punta in modo deciso sui sentimenti e sul dolore, ma non muove un passo in direzione di una ricerca d’innovazione linguistica, così come non si preoccupa minimamente di approfondire il tema che rimane molo simile a un dato di fatto quasi naturale e non determinato da un preciso ordine del mondo.
Piccole rivolte
Piccole rivolte
In ogni caso è opera infinitamente migliore di Mikres exegersis (Piccole rivolte) del pittore e teatrante greco Kyriakos Katzourakis. Il film parte dal ritrovamento di un affresco del pittore Manuel Panselinos (tredicesimo secolo) per imbastire una storiaccia che ruota attorno a un’attrice di provincia che assomiglia straordinariamente a uno dei personaggi del dipinto e ama un giovane ricercatore giunto nel piccolo villaggio in cui lei abita attratto dalla notizia della scoperta del dipinto. Il marito della donna non la prende bene e imbraccia il fucile minacciando di ucciderla se seguirà il suo amante. Dopo qualche anno il ricercatore ritorna nel villaggio e ritrova la donna che alleva, da solo, il bimbo nato dalla relazione adulterina. Così raccontata, può sembrare una storia semplice, ma il regista la riempie di fumisterie, passaggi temporali oscuri, citazioni incomprensibili. In poche parole è un gioco intellettualistico per nulla interessante.
La volontà di Padre Jean Meslier
La volontà di Padre Jean Meslier
I diachili tou lerea Ioanni Meslier (La volontà di Padre Jean Meslier) di Dimitris Kollatos prende spinto dalla figura del prete Jean Meslier (1664 – 1729), considerato uno dei precursori del socialismo, e dal suo testamento in cui chiedeva scusa ai fedeli per quanto di falso aveva predicato in tutta la vita, per aver mentito nell'esercizio di una professione di prete non consona alle sue convinzioni filosofiche. Il film è stilisticamente ingenuo, quasi un’opera amatoriale e racconta di un prete dei giorni nostri che esercita in una parrocchia dell’isola di Tinos ed è ossessionato dagli stessi dubbi del suo illustre predecessore. Lo è al punto di gettare la tonaca alle ortiche. E' un film generoso nel suo acceso ateismo ma grezzo nella forma e nello stile.
Baretto
Baretto
E’ anche quanto accade in Kantina (Baretto) di Stavros Kaplanidis che mette al centro del suo lavoro un baracchino gestito dal quarantenne Philippos che serve bevande e carne alla piastra, assistito dal cinico Odysseas, nello slargo di una strada costiera. Il quasi ristorante è aperto dal tramonto all’alba e vede passare personaggi di ogni tipo: donne sole, turisti in gita, rapinatori maldestri, guardie del corpo da fotoromanzo. Dovrebbe essere il quadro di un’umanità varia, ma non va oltre la commedia popolare, piuttosto sgangherata e mal fatta.

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I premi
Alessandro d’Oro al miglior film (40.000 euro)
AJAMI di Scandar Copti e Yaron Shani (Israele / Germania).
Alessandro d’argento – Premio speciale della giuria (25.000)
MEDALIA DE ONOARE (Medaglia al valore) di Calin Netzer (Romania).
Premio al miglior regista
Rigoberto Perezcano per NORTEADO (Verso nord) (Messico / Spagna).
Premio alla migliore sceneggiatura ex-aequo
Scandar Copti e Yaron Shani per AJAMI (Israele / Germania)
e
Tudor Voicani per MEDALIA DE ONOARE (medaglia al valore) di Calin Netzer (Romania).
Premio alla migliore attrice
Ruth Nirere interprete di LE JOUR OÚ DIEU EST PARTI EN VOYAGE (Il giorno che Dio è andato in vacanza) di Philippe van Leeuw (Belgio / Francia).
Premio per il miglior attore
Victor Rebengiuc interprete di MEDALIA DE ONOARE (medaglia al valore) di Calin Netzer (Romania).
Premio per il contributo artistico
SARAMEUL CHATSEUMNIDA (Persone scomparse) di Lee Seo (Corea del Sud).
Menzione speciale
Katharina Schüttler interprete del film ES KOOOOT DER TAG (Il giorno verrà) di Susanne Schneider (Germania / Francia).
Menzione speciale per la sceneggiatura e il soggetto
BAKAL BOYS (Ragazzi di metalli diversi) di Ralston Jover (Filippine).
Premio FIPRESCI
- Per la sezione internazionale
MEDALIA DE ONOARE (medaglia al valore) di Calin Netzer (Romania).
- Per la sezione Cinema greco
O DIAHIRISTIS (L’amministratore di caseggiato) di Periklis Hoursoglou (Grecia).
Premio per i valori umani (15.000 euro)
Il canale parlamentare della televisione ellenica l’ha assegnato a
LEBANON (Libano) di Samuel Maoz (Israele / Francia / Germania).
Premio FISCHER del pubblico (4.000 euro)
AJAMI di Scandar Copti e Yaron Shani (Israele / Germania).
Premio della sezione Cinema Greco (4.000 euro)
BILOBA di Sophia Papachristou (Grecia).
Premio della sezione Sguardo Balcanico (3.000 euro)
HONEYMOONS (Lune di miele) di Goran Paskaljevic (Serbia / Albania).
Premio della sezione Ondata digitale greca (3.000 euro).
TO TELEFTEO TRAGOUDI TOU ELVIS (L’ultima canzone di Elvis) di Vassilis Raissis (Grecia).
Premio del sindacato dei tecnici greci del cinema e della televisione (ETEKT)
- Per la sezione internazionale
MEDALIA DE ONOARE (medaglia al valore) di Calin Netzer (Romania).
Premio cinema e città (10.000 euro) offerto dalla municipalità di Salonicco
LA SANGRE Y LA LLUVIA (Il sangue e la pioggia) di Jorge Navas (Colombia / Argentina).
Premio Ondata Digitale – Alessandro digitale
Primo premio (15.000 euro)
TO TELEFTEO TRAGOUDI TOU ELVIS (L’ultima canzone di Elvis) di Vassilis Raissis (Grecia).
Secondo premio (10.000 euro)
TO KOUTI (La scatola) di Fotis Passos e Apostolis Passos (Grecia).
Premio Incroci (10.000 euro)
PASQUA di Ivan Marinovic (Slovenia/ Repubblica Ceca / Montenegro).
Menzione speciale
ODYSSEY OF A VAGABOND PRINCESS (Odissea di una principessa vagabonda) di Altinai Petrovic Njegosh (Francia).
Premi Fondo Balcanico per lo sviluppo delle sceneggiature (10.000 euro)
MOTHER OF ASPHALT (Madre d’asfalto) regia: Dalibor Matanic (Croazia). ROMANIAN SPRING (Primavera rumena) di Anca Miruna Lazarescu (Romania / Germania).
ORANGE GARDENS (Il giardino degli aranci) di Özkan Küçük (Turchia).