Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2008 - quarto giorno

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Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2008
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Sabato 30 agosto – Quarto giorno
Un giorno perfetto
Un giorno perfetto
Un giorno perfetto è il titolo del primo film italiano in concorso, lo ha diretto Ferzan Ozpetek sceneggiando, con Sandro Petraglia, l’omonimo romanzo (2005) di Melania G. Mazzucco. E’ la tragica storia di un omicidio - suicidio che ha come protagonista un agente di polizia, caposcorta di un onorevole che sta per essere trombato. L’uomo non ha mai superato il trauma dell’abbandono della moglie, alla quale rimproverava immaginari tradimenti con conseguenze di botte e violenze fisiche varie. Dopo aver seguito l’ex consorte per un’intera giornata, averla aggredita ancora una volta e tentato di stuprarla, le sottrae i figli, li porta nella casa in cui la famiglia abitava un tempo, spara e uccide il più piccolo, ferisce gravemente la maggiore e si uccide. Attorno a questo dramma ci sono altre piccole storie, spesso appena accennate, di donne sole, tradite, umiliate. Rispetto ai film precedenti di questo regista manca la giocosità gay che segnava, ad esempio, Le fate ignoranti (2001) e Saturno contro (2006). Quest’ultima fatica riconferma sia la maestria con cui il cineasta sa dirigere le attrici, traendone interpretazioni intense, qui Isabella Ferrari da veramente il meglio di se, sia un gusto per il melodramma unito ad una pregevole sensibilità nello spegnerne le punte più acute. Si veda ad esempio l’intera sequenza dell’uccisione e ferimento dei figli e quella del suicidio: in entrambi i casi nulla è mostrato esplicitamente se non qualche traccia di sangue e alcuni dettagli indispensabili a chiarire e dare pathos alla sequenza. E’ un film che analizza e racconta molto bene lo smarrimento di donne in piena maturità che si vedono franare tutte le coordinate fisiche e sociali su cui avevano costruito la loro esistenza. Un’opera non originalissima, anzi decisamente classica nello stile, ma solida nella costruzione.
Città di plastica
Città di plastica
Giusto il contrario di quanto accade in Dangkou (Città di plastica) dell’hongkonghese, regista e direttore della fotografia, Yu Lik-wai. E’ un’opera scombinata, tendente al noir, che inizia con toni realistici – lo scontro fra politici corrotti e un boss del traffico di merce contraffatta – per finire con toni da video clip, colori allucinati, immagini che citano apertamente il disegno animato, il tutto condito di filosofemi da cioccolatini Perugina. In poche parole un pasticcio di difficile digeribilità.
35 bicchierini di rum bevuti d'unfiato
35 bicchierini di rum bevuti d’un fiato
Meglio allora i 35 rum (35 bicchierini di rum bevuti d’un fiato) in cui la francese Claire Denis racconta la lunga elaborazione del lutto di un vedovo e della giovane figlia meticcia. L’ambiente è quello dei lavoratori della metropolitana parigina, quasi tutti di colore, con i ritmi abitudinari, la tensione continua, le piccole vite borghesi. Tale è l’ambiente in cui si muovono Lionel e la figlia Joséphine che hanno perso da poco la moglie e madre, una tedesca, e tirano avanti sorreggendosi a vicenda e cementando un sentimento profondo, forte, ma non privo di qualche venatura incestuosa. La lenta elaborazione del dolore si chiuderà con un viaggio a Lubecca, sulla tomba della defunta, e con il matrimonio della ragazza con un vicino. Il film è delicato e preciso, un po’ prevedibile e forse con qualche lungaggine di troppo, ma psicologicamente ben costruito e interpretato in modo perfetto.
Vendi!
Vendi!
Il musical, meglio il film cantato, è uno dei generi di successo del cinema asiatico. In India, ad esempio, sono decine e decine le opere di questo tipo prodotte ogni anno, (i cosiddetti Masala Film, dal nome dell’omonimo mix di erbe e spezie che è alla base di ogni piatto nazionale) tanto che alcune di esse, seppur rivedute e corrette secondo i gusti occidentali, sono arrivate sino sugli schermi europei. Alla Settimana Internazionale della Critica è stato presentato $e11.ou7! – Sell Out! (Vendi!) del malese di Yeo Joon Han. Il film s’inserisce in questo filone del cinema e canzoni con una particolare caratteristica: quella di immergere i classici stilemi del genere (amore contrastato, lieto fine, ironia...) in un contesto di critica sociale dai tratti decisamente feroci. Solo per dare una vaga indicazione siamo dalle parti dell’operazione messa in campo nel 1961 da Jerome Robbins e Robert Wise con la trasposizione sullo schermo del musical West Side Story di Arthur Laurents, Leonard Bernstein e Stephen Sondheim. In questo caso il rapporto fra finzione e realtà è particolarmente stringente e ben emblematizzato dalle parti in cui, seppur fuggevolmente, il regista ci mostra immagini di reale povertà e degrado. Il fulcro della storia ruota attorno a due capitalisti, ferocemente grotteschi, che, con molte altre attività, controllano anche una stazione televisiva in cui lavora una giornalista cinica e arrivista. Minacciata di licenziamento se non farà risalire l’audience del programma che presenta – un ridicolo salotto cui partecipano pseudo artisti – la giornalista s’inventa un reality in cui si colgono le ultima parole dei moribondi. La materia non è poi, così abbondante perciò la conduttrice parte alla ricerca di potenziali suicidi. Uno lo trova in un inventore brutalizzato dagli stessi padroni della televisione che ha ideato una macchina portentosa, capace di trarre meraviglie dai fagioli di soia. L’ingegnere, follemente innamorato della presentatrice che lo ha sempre respinto, accetta di correre il rischio di morire in diretta: sarà il pubblico attraverso gli sms inviati alla redazione a decidere se a morire sarà la parte idealista dell’inventore o quella più affaristica. Il nostro, infatti, si è diviso in due persone, perfettamente identiche, salvo che una raccoglie inventiva e ideali, l’atra le parti grette. Il verdetto, oltre a salvargli magicamente la vita, segnerà la fortuna sua come imprenditore. Le parti migliori del film sono quelle in cui la regia satireggia, sino al grottesco, le macabre follie cui giunge la ricerca ossessiva dell’audience. Meno originale la miscela fra canto, fantasia e critica sociale, ma questo non intacca significativamente il bilancio, più che positivo, dell’opera.