7° Festival Internazionale del Cinema di Bucarest

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7° Festival Internazionale del Cinema di Bucarest
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La settima edizione del Festival Internazionale del Film di Bucarest è stata aperta da Danis Tanovic (1969), che ha presentato la sua ultima fatica: Cirkus Columbia, tratto dall’omonimo racconto del giornalista Ivica Djikic. Questo cineasta bosniaco è alla terza fatica, dopo il formidabile esordio del 2001 con No man’s land, premio Oscar quale miglior film in lingua non inglese del 2002. Nel 2009 ha diretto Triage accolto da minori fortune, e ora firma un’opera che inclina più verso l’umorismo macabro del primo Emir Kusturica che non la tragedia pura e semplice. Siamo nelle settimane che segnano l’inizio di una delle tante guerre che hanno portato, attraverso un ventaglio di orrori indicibili, allo smembramento della Repubblica Jugoslava in altri cinque stati, autonomi e rissosi. Nel caso specifico il campo è quello della guerra fra Bosnia e Croazia. E’ il 1991 e il filo conduttore lo offre un croato, fuggito anni prima dal paese per non meglio definite persecuzioni per opera del regime titino. Il tizio è emigrato in Germania ove ha fatto fortuna come dimostrano la fiammante Mercedes rossa che guida e la ragazza, più giovane di lui di molti anni, che lo accompagna. E’ ritornato per riprendersi la casa, abbandonata al momento dell’espatrio, e che, per vent’anni, è stata abitata da sua ex – amante, la quale ha anche allevato il loro figlio.
Poiché la donna è bosniaca e lui croato, alle frazioni personali si aggiungono quelle che annunciano il conflitto fra le due comunità. In questo modo il microcosmo paesano e le vicende che lo attraversano diventano l’emblema di una tragedia più generale. Il film si chiude con un soffio d’ottimismo anche se non in maniera apertamente positiva: il nuovo venuto sarà talmente turbato dalla violenza che si annuncia da convincere un suo amico, capo della comunità croata, a schierarsi con i perseguitati e salvare i rispettivi figli dalla guerra. Com’è nello stile di questo tipo di cinema, il dramma s’imparenta con prurigini sessuali – l’amore che esplode fra il ragazzo e la giovane compagna del padre – in un alternarsi d’ironia e dramma. E' un’opera piacevole, anche se più leggera che aggressiva.
E' iniziata anche la sfilata dei film in competizione con Un gelido inverno (Winter’s Bone, 2010) è il film d’esordio dell’americana Debra Granik che ha già vinto numerosi premi, il più importante dei quali è quello assegnatole dalla giuria del Sundance Film Festival e che ora è candidato a ben quattro premi Oscar. E’ la messa sul grande schermo del romando Un Gelido inverno (Winter’s Bone, 2006) di Daniel Woodrell (1953). Vi si racconta, ambientata suo gelidi monti Ozark, in Missouri, il calvario di una diciassettenne che vuole far luce sulla scomparsa del padre, un piccolo fabbricante e spacciatore di metamfetamine, crack, che ha impegnato la fattoria di famiglia per pagarsi la cauzione e uscire dalla prigione, dopo di che è scomparso nel nulla. La ragazza, sulle cui spalle poggi l’intera famiglia, fratello e sorella compresi, intraprende un lungo percorso difficile, doloroso e rischioso, per venire a capo del mistero a prezzo di lividi e sofferenze. Lo fa non certo per amore verso il genitore, che disprezza perché ha denunciato gli altri membri del clan familiare per uscire dalla prigione, quanto per il terrore di perdere le uniche cose che possiedono: baracca e terra. E’ un film buio, girato spesso in atmosfere notturne che affronta un mondo degradato e violento in cui i rapporti di forza contano più di quelli sentimentali o familiari. L’intero racconto è reso cedibile e toccante dalla magia interpretativa della giovane Jennifer Lawrence che qui perfeziona le abilità già mostrate in The Burning Plain - Il confine della solitudine (The Burning Plain, 2008) di Guillermo Arriaga, che le valse il Premio Mastroianni alla 65ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. In altre parole è un’opera intensa e solidamente costruita.
E' stato presentato anche Animal Kingdom che segna l’esordio dell’australiano David Michôd, un ex giornalista di cronaca nera che si addentra, con occhio disincantato, nel mondo della malavita di Victoria. L’apertura è folgorante: il giovane Josh Young è seduto sul divano accanto a sua madre, a guardare la televisione. Poco dopo arriva un gruppo di paramedici e scopriamo che la donna è morta di overdose. In tutto questo tempo il ragazzo non ha smesso di guardare le immagini di uno dei tanti programmi d’indovinelli trasmessi sul piccolo schermo. Rimasto orfano, del padre non si parla mai, va a vivere con la monna, una specie di matrona nevrotica i cui figli hanno formato una banda di rapinatori di banche e spacciatori, in perenne conflitto con una polizia che non esita a usare modi spicci per eliminarli. E’ una guerra che non ammette prigionieri e in cui tutte le efferatezze sono permesse. Lentamente il giovane precipita in questo inferno, sino a sfiorare la delazione. Sarà l’uccisione, da parte del fratello, della ragazza che ha incontrato in quella feroce famiglia e della quale si è innamorato, a spingerlo alla vendetta e, in partica, a mettersi al livello di questo regno animale. Il film ha vinto numerosi premi, fra cui uno dei maggiori del Sundance Film Festival, è pervaso da una straordinaria lucidità nella descrizione di un mondo in cui non ci sono buoni o cattivi, ma solo animali pronti a uccidere per sopravvivere o per il proprio benessere. E’ una prova di maturità registica davvero fuori dal comune e un film destinato a rimanere a lungo nella mente.