Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2008

Stampa
PDF
Indice
Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2008
primo giorno
secondo giorno
terzo giorno
quarto giorno
quinto giorno
sesto giorno
settimo giorno
ottavo giorno
nono giorno
decimo giorno
undicesimo giorno
I premi
Tutte le pagine

Giorno per giorno.
27 agosto - 6 settembre 2008

Martedì 26 agosto – Prologo

ImageMostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2008 - Giorno per giorno.
27 agosto - 6 settembre 2008

Martedì 26 agosto – Prologo
Non è facile, né molto utile, tentare di disegnare il profilo di una grande rassegna internazionale di film sulla base dell'elenco delle opere annunciate. Questo per almeno un paio di buone ragioni. Prima di tutto c'è la tendenza dei maggiori festival (o Mostre) a mettere insieme elenchi di titoli molto ampli partendo dal desiderio, confessato, di offrire ai frequentatori un ventaglio molto ampio di quanto di meglio prodotto dalle maggiori cinematografie, proposto a cui si accoppia quello, inconfessato, di tagliare l'erba sotto i piedi dei concorrenti, privandoli di produzioni che potrebbero rendere appetibili i loro programmi. Una corsa all'accumulo che, da un lato, inzeppa i cartelloni con decine e decine di titoli, non tutti di primissima scelta, dall'altro rende i programmi dei maggiori festival verificabili solo in parte. Se a tutto questo si aggiungono le difficoltà ad avere a disposizione, nei tempi necessari, i titoli che si vogliono e le scelte dei produttori testi ad offrire il miglior lancio possibile ai loro titoli, se ne deduce un groviglio in cui è difficile individuare un bandolo preciso. Messe da parte queste premesse, è possibile rintracciare nel programma della sessantacinquesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia due caratteristiche. La prima è una forte presenza di film italiani: quattro in concorso e una ventina, se si considera l'insieme delle sezioni. Non è un dato sorprendente se si considera che le produzioni americane sono cinque e sei quelle a partecipazione francese. La vera novità si coglie nei commenti che hanno accompagnato questa scelta, valutazioni che, dopo il successo a Cannes di Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino, non hanno esitato a parlare di rinascita del nostro cinema, laddove sarebbe stato assai più predente registrare l'uscita contemporanea di due opere di grande forza che non testimoniano affatto una ripresa generale della cinematografia nazionale. Un altro dato segnala sia la presenza in forze, come già notato, della cinematografia americana, sia di quelle legate alla Francia. Per quanto riguarda i film a stelle e strisce la scelta propone un ventaglio equilibrato di autori e opere collocabili sia in direzione del cinema spettacolare, (Hurt Locker di Kathryn Bigelow, Rachel Getting Married di Jonathan Demme) sia verso quello del film d'autore (Vegas: Based on a True Story di Amir Naderi, The Wrestler di Darren Aronofsky, The Burning Plain di Guillermo Arriaga). La forza della Francia, infine, nasce sia dalla solidità culturale e produttiva di quella cinematografia (Inju, la Bête dans l’ombre di Barbet Schroeder, L’Autre di Patrick Mario Bernard e Pierre Trividic), sia dalla scelta di quel paese di offrire un appoggio alle nazioni africane che guardano con particolare favore all'area francofona (Gabbla dell'algerino Tariq Teguia) sia, infine, all'interesse verso i paesi in cui il cinema sta vivendo stagioni particolarmente fortunate, ma che non dispongono di robuste strutture produttive (Teza di Haile Gerima, coproduzione con Etiopia e Germania, Süt di Semih Kaplanoglu, coproduzione con Turchia e Germania, Nuit de chien di Werner Schroeter, (coproduzione con Germania e Portogallo).
In ogni caso un cartellone che comprende non pochi titoli, sulla carta, ricchi d'interesse. Come si suol dire, il vero al bilancio a quando gli schermi si spegneranno, il 6 settembre.Non è facile, né molto utile, tentare di disegnare il profilo di una grande rassegna internazionale di film sulla base dell'elenco delle opere annunciate. Questo per almeno un paio di buone ragioni. Prima di tutto c'è la tendenza dei maggiori festival (o Mostre) a mettere insieme elenchi di titoli molto ampli partendo dal desiderio, confessato, di offrire ai frequentatori un ventaglio molto ampio di quanto di meglio prodotto dalle maggiori cinematografie, proposto a cui si accoppia quello, inconfessato, di tagliare l'erba sotto i piedi dei concorrenti, privandoli di produzioni che potrebbero rendere appetibili i loro programmi. Una corsa all'accumulo che, da un lato, inzeppa i cartelloni con decine e decine di titoli, non tutti di primissima scelta, dall'altro rende i programmi dei maggiori festival verificabili solo in parte. Se a tutto questo si aggiungono le difficoltà ad avere a disposizione, nei tempi necessari, i titoli che si vogliono e le scelte dei produttori testi ad offrire il miglior lancio possibile ai loro titoli, se ne deduce un groviglio in cui è difficile individuare un bandolo preciso. Messe da parte queste premesse, è possibile rintracciare nel programma della sessantacinquesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia due caratteristiche. La prima è una forte presenza di film italiani: quattro in concorso e una ventina, se si valuta l'insieme delle sezioni. Non è un dato sorprendente se si considera che le produzioni americane sono cinque e sei quelle a partecipazione francese. La vera novità si coglie nei commenti che hanno accompagnato questa scelta, valutazioni che, dopo il successo a Cannes di Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino, non hanno esitato a parlare di rinascita del nostro cinema, laddove sarebbe stato assai più predente registrare l'uscita contemporanea di due opere di grande forza che non testimoniano affatto una ripresa generale della cinematografia nazionale. Un altro dato segnala sia la presenza in forze, come già notato, della cinematografia americana, sia di quelle legate alla Francia. Per quanto riguarda i film a stelle e strisce la scelta propone un ventaglio equilibrato di autori e opere collocabili sia in direzione del cinema spettacolare, (Hurt Locker di Kathryn Bigelow, Rachel Getting Married di Jonathan Demme) sia verso quello del film d'autore (Vegas: Based on a True Story di Amir Naderi, The Wrestler di Darren Aronofsky, The Burning Plain di Guillermo Arriaga). La forza della Francia, infine, nasce sia dalla solidità culturale e produttiva di quella cinematografia (Inju, la Bête dans l’ombre di Barbet Schroeder, L’Autre di Patrick Mario Bernard e Pierre Trividic), sia dalla scelta di quel paese di offrire un appoggio alle nazioni africane che guardano con particolare favore all'area francofona (Gabbla dell'algerino Tariq Teguia) sia, infine, all'interesse verso i paesi in cui il cinema sta vivendo stagioni particolarmente fortunate, ma che non dispongono di robuste strutture produttive (Teza di Haile Gerima, coproduzione con Etiopia e Germania, Süt di Semih Kaplanoglu, coproduzione con Turchia e Germania, Nuit de chien di Werner Schroeter, (coproduzione con Germania e Portogallo).
In ogni caso un cartellone che comprende non pochi titoli, sulla carta, ricchi d'interesse. Come si suol dire, il vero al bilancio a quando gli schermi si spegneranno, il 6 settembre.

Mercoledì 27 agosto – Primo giorno
A prova di spia
A prova di spia
La sessantacinquesima edizione della Mostra di Venezia si è aperta alla grande con un film, presentato fuori concorso, capace di riconciliare gli spettatori delusi da decine di titoli costruiti in modo superspettacolare, ma del tutto vuoti di reale contenuto innovativo. Intelligenza e originalità che, invece, abbondano in questo Burn After Reading (Bruciare dopo aver letto, ma che sui nostri schermi s’intitolerà, molto più banalmente, A prova di spia), ultima fatica dei fratelli Joel e Ethan Coen. Si sa che questi registi amano mescolare, in varia misura, ironia e dramma, non tirandosi indietro neppure davanti alle situazioni più grandguignolesche. Questa volta i toni sono quelli della commedia, con l’ironia che sgorga copiosa e continua. A fare le spese di questa satira è la C.I.A. (Central Intelligence Agency), uno degli organismi spionistici più esaltati e odiati, non solo dagli autori di film. Un analista di lungo corso è rimosso dall’incarico con la motivazione che ama troppo la bottiglia. Si arrabbia, fa una scenata, va via sbattendo la porta. A casa ha una moglie che ha un’amante (uno degli amici di famiglia, a sua volta cornificato da un altro del giro) e aspetta solo un pretesto per divorziare. Sobillata dall’avvocato cui si è rivolta, la donna gli ruba, assieme ai resoconti della situazione patrimoniale, gli appunti che lui ha preparato in vista della confezione di un libro di memorie. Il c.d. con questi materiali finisce casualmente nelle mani di una matura assistente di palestra, che sta cercando disperatamente i denari necessari per una serie di operazioni di chirurgia estetica. Da questo groviglio di adulteri, scambio di persona, pasticci vari nasce una storia complessa che i vecchi datori di lavoro dell’analista tentano vanamente di tenere sotto controllo. Pochi film come questo hanno sferzato con tanta ferocia e lucidità la stupidità dei burocrati di quest’agenzia, la cui immagine ne emerge con le ossa rotte, bollata senza appello d’incapacità e stupidità. Un ritratto impietoso e divertente in cui sangue e revolverate, ci sono anche vari morti ammazzati, sono impiegati in modo sobrio e originale. Davvero un bel film cui danno un contributo straordinario Frances McDormand (la matura signora nell’attesa di liposuzioni varie), George Clooney (l’amante stupidotto e salutista), Brad Pitt (il fessacchiotto istruttore della palestra) e Tilda Swinton (la moglie adultera e avida). Sopra di tutti svetta John Malkovich, nel ruolo dell’analista che non accetta il licenziamento e diventa una furia, quando scopre che la moglie gli ha vuotato le tasche prima di chiedere il divorzio.
Dal visibile all’invisibile
Dal visibile all’invisibile
Assieme al film è stato presentato anche il cortometraggio diretto dal maestro portoghese (quasi cento anni d’età e una settantina d’attività cinematografica) Manoel de Oliveira. Due amici s’incontrano in un’affollata strada di Sāo Paulo, il film è prodotto dal festival cinematografico di quella città, e tentano vanamente di scambiare due chiacchiere, costantemente interrotti dagli squilli dei rispettivi telefonini. L’unica soluzione sarà quella di telefonarsi reciprocamente e di parlare guardandosi in faccia, ma attraverso gli infernali cellulari. Il corto, spiritoso e divertente, s’intitola Do visível ao invisível (Dal visibile all’invisibile) e fa parte del lungometraggio Mundo invisível (Mondo invisibile) cui sono stati chiamati vari autori di fama internazionale.

Giovedì 28 agosto – Secondo giorno
Achille e la tartaruga
Achille e la tartaruga
La passerella dei film in concorso ha preso il via con due mezze delusioni. La più cocente l’ha procurata Takeshi Kitano con Akires to kane (Achille e la tartaruga), terzo capitolo della riflessione sulla sua vita d’artista iniziata con Takeshis’ (2005) e proseguita con Kantoku Banzai! (Gloria al regista! 2007). Questa volta il poliedrico cineasta giapponese segue la vita, dall’infanzia alla maturità, di Mashisu ossessionato dal dipingere e rampollo di un ricco banchiere andato in rovina. Nel corso del film tenta ogni strada, imita ogni corrente e qualsiasi artista di successo, ma il mercante cui si appoggia lo smonta sistematicamente. Solo dopo una serie di disgrazie, fra cui la morte della figlia prostituta e l’abbandono della moglie, troverà un momento di pace. Per arrivarci avrà dovuto tentare il suicidio un paio di volta, tuttavia il ritrovato rapporto con la moglie, forse, aprirà per lui uno spiraglio di tranquillità. Come dire, piuttosto che l’ansia dell’arte a tutti i costi, meglio un’ordinaria vita borghese, ovvero che l’Achille del famoso paradigma di Zenone è riuscito finalmente a raggiungere la tartaruga. Il film vorrebbe allineare una sorta di catalogo satirico su forme e correnti d’arte moderna, ma risulta troppo ripetitivo per essere veramente graffiante. Un mezzo passo falso da parte di un autore in altri casi fantasioso e inventivo come pochi.
Jerichow
Jerichow
Delusione quasi completa, invece, quella di Jerichow del tedesco Cristian Petzold. E’ una storiaccia melodrammatica su un triangolo formato da un immigrato turco che ha sposato un’ex prostituta e se la vede contendere da un giovane aitante, ex militare congedato con disonore e, anche lui, immischiato in traffici non limpidi. I due fedifraghi progettano di uccidere l’imprenditore, senza sapere che è affetto da una grave malattia che gli lascia pochi mesi di vita. Quando l’immigrato scopre la tresca si uccide, lasciando ai due scellerati, si pensa, un incancellabile senso di colpa. Melodramma della migliore specie, ma senza né il pathos che dà fascino al lavoro di autori, come Pedro Almodovar, che hanno fatto del melò terreno d’elezione, né l’ironia con cui altri autori usano questo genere per rovesciarlo dall’interno. Il regista tedesco, al contrario, si prende eccessivamente sul serio per questo il film non dice nulla di nuovo e quel poco che comunica lo fa male.
Shirin
Shirin
C’era molta attesa anche per Shirin dell’iraniano Abbas Kiarostami che ha deciso di raccontare la trasposizione cinematografica del poema persiano omonimo (XII secolo) attraverso i volti di centoquattordici famose attrici iraniane e una star francese, Juliette Binoche, che stanno assistendo alla proiezione del film. Operazione difficile e interessante che non siamo in grado di valutare in quanto la proiezione per la stampa è avvenuta senza sottotitoli italiani e con sporadiche apparizioni di sottotitoli inglesi. Come dire che non mancherà l’occasione, magari in situazioni meno affollate di questa, per ritornarci su.
Pranzo freddo
Pranzo freddo
I film costruiti su un mosaico di episodi e personaggi sono spesso serviti molto bene per descrivere il carattere e i problemi di una società. A questo tipo di cinema la norvegese Eva Sørhaug aggiunge un capitolo di prim'ordine con Lønsj (letteralmente Pranzo, ma il titolo internazionale suona Pranzo freddo). Il film è stato presentato, fuori competizione, nel programma della 23ma edizione della Settimana Internazionale della Critica (S.I.C.). Sono sei storie che nascono da un banale incidente: un ragazzaccio squattrinato e arrogante leva la corrente dal lavabiancheria di cui si è appropriato, in un fabbricato vicino a quello in cui abita, per recuperare i soldi che ha dimenticato nel taschino di una giacchetta che sta lavando. Episodio da nulla, se non che, come nel famoso apologo della farfalla che batte le ali in Cina e causa un disastro in America, quel gesto è all’origine di una serie di episodi, alcuni dei quali gravissimi. Un anziano inquilino, credendo sia andato in panne l’impianto casalingo, manomette una valvola e muore fulminato. La sua scomparsa priva la figlia, che viveva con lui, di un tetto e la costringe ad uscire di casa dopo anni di reclusione. Sempre la mancanza di energia elettrica, blocca l’essiccatrice in cui una signora, fresca mamma, sta asciugando i pantaloni del marito e la cosa innesca una crisi matrimoniale che covava da tempo. Lo stesso giovinastro finisce sfrattato dalla stanza in cui abitava, non avendo pagato in tempo l’affitto pattuito con l’inquilino principale. Sono tanti piccoli disastri uno solo dei quali andrà a buon fine (l’ex – reclusa ritrova il senso della vita e del contratto con la natura) che svelano i tratti di un’umanità in bilico fra disperazione, crollo psicologico e marginalità. Allo stesso tempo denunciano l’ipocrisia che si annida sotto le belle maniere e il quieto vivere borghese. E’ un ventaglio di caratteri disegnati mirabilmente e descritti con grande perizia, ciascuno dei quali assume un valore emblematico preciso. Il film è immerso in limpide luci pastello che rendono ancor più drammatiche le tensioni che si vengono sviluppando. In poche parole un testo molto bello, ricco di sfumature ficcanti e costruito con perizia.
Venerdì 29 agosto – Terzo giorno
La pianura in fiamme
La pianura in fiamme
Quando si giudica la selezione di una grande rassegna cinematografica bisogna tenere conto della necessità per gli organizzatori di scegliere i vari titoli avendo ben presente il ventaglio dei premi da assegnare. C’è da scommettere che il motivo per cui è stato messo in concorso The Burning Plain (La pianura in fiamme), opera d’esordio dello sceneggiatore Guillermo Arringa - 21 grammi il peso dell’anima (2003) e Babel (2006) entrambi Alejandro González Iñárritu) - è da ricollegarsi, soprattutto, alla competizione per la migliore interpretazione femminile. Nel film, infatti, due attrici consumate e molto brave, Charlise Theron e Kim Basinger, danno prova di quanto è alto il professionismo americano. La storia raccontata può essere riassunta così: un uomo e una donna, sposati con altri partner, muoiono, mentre fanno l’amore in una sorta di camper. A causare l’incendio, con fini solo d’intimidazione degenerati in tragedia, è la figlia della donna che vuole punirne l’infedeltà. L’incendiaria intreccia, poco dopo, una relazione amorosa con il figlio del fedifrago. Dalla relazione nasce una bambina che la giovane madre abbandona. Anni dopo ritroviamo questa donna nei panni di direttrice di un ristorante di lusso in un’importante città. Tuttavia il passato è destinato a ritornare, questa volta sotto l’aspetto della figlia, ora adolescente, inviata a lai dal padre, rimasto gravemente ferito in un incidente aereo. Qualche incomprensione, come prevedibile, e possibile ricomposizione della famiglia. Questo se si vuole distendere linearmente una trama che la regia spezzetta in vari momenti che affianca mescolando tempi e personaggi, in modo da creare, quantomeno nelle intenzioni, un clima di tensione dalla tenuta alquanto debole. In poche parole un melodramma passabilmente piagnucoloso, riscattato dall’interpretazione dei due mostri sacri.
Inju – La bestia nell’ombra
Inju – La bestia nell’ombra
Quasi nulla da dire, invece, per Inju, la Bête dans l’ombre (Inju – La bestia nell’ombra) che l’eclettico regista franco – iraniano Barbet Schroeder ha tratto dal romanzo omonimo del giapponese Edogawa Rampo. In giallo pasticciato e prevedibile - dopo una ventina di minuti, qualsiasi buon lettore di polizieschi scopre chi si cela dietro il sadico romanziere al centro della ricerca – basato sullo scontro fra due romanzieri: un francese specializzato in letteratura noir giapponese e uno scrittore nipponico di successo, che nessuno ha mai incontrato di persona. L’unica curiosità è quella di immaginare le ragioni per cui il film è stato selezionato, vista la banalità della storia e la grossolanità dello stile.
La rabbia di Paolini
La rabbia di Pasolini
Giuseppe Bertolucci ha avuto incarico dalla Cineteca di Bologna di curare la ricostruzione, secondo le plausibili intenzioni dell’autore, de La rabbia di Pier Paolo Pasolini, qui presentata come programma speciale. Nel 1963 un produttore, che era anche l’editore di un cinegiornale di stampo nettamente reazionario (Mondo Libero), ebbe l’idea di presentare gli anni del dopoguerra visti attraverso i materiali raccolti dal suo cine - settimanale con la classica formula: visto da sinistra, visto da destra. All’inizio si pensò ad un film affidato al regista di Accattone a cui affiancarne, in seguito, un altro di taglio opposto. Considerazioni economiche indussero a unire i due momenti sotto un unico titolo unendo il lavoro di Pier Paolo Pisolini, sconciato con il consenso dello stesso autore, a un secondo firmato dallo scrittore di anticomunista Giovannino Guareschi. Solo che la complessità e la chiaroveggenza del grande poeta e cineasta si scontrarono subito con la grossolanità e il propagandismo guareschiano. Il film fu un fisco commerciale, ritirato quasi subito l’uscita e se ne perse il ricordo, da qui l’idea di tentare di ricostruire quella che doveva essere la prima versione pasoliniana. Ne è nato un testo sconcertante per valore profetico, lucidità di comprensione dei fenomeni che si stavano sviluppando proprio in quegli anni che condizioneranno l’Italia sino ai nostri giorni. Da mettere in rilievo la denuncia del ruolo della televisione come moderno strumento di ottundimento della coscienza critica, la complessità con cui sono affrontati nodi drammatici come la rivoluzione Ungherese del 1956, il dolore e la sofferenza per la progressiva massificazione dei giovani. Un documento davvero eccezionale e da non perdere.
Puccini e la fanciulla
Puccini e la fanciulla
Un’altra piacevole sorpresa l’ha riservata Paolo Benvenuti che, con Paola Baroni, è andato a scovare un episodio, tutt’altro che encomiabile, nella vita di un grande musicista: Puccini e la fanciulla. Siamo a Torre del Lago nel 1908 e il maestro sta componendo La fanciulla del West, quando il suo entourage familiare è sconvolto dai sospetti della moglie verso una domestica accusata d’essere l’amante del compositore. La poveretta è chiusa in casa, angariata in vario modo, spinta al suicidio. Solo dopo la sua morte si scoprirà che era vergine e che l’acrimonia nei suoi confronti era stata scatenata dalla figlia del musicista, amante del librettista dell’opera. La regia racconta questa storia in modo linearmente perfetto, lavorando le immagini in maniera straordinaria, rinunciando quasi del tutto ai dialoghi in favore dei suoni della natura, la musica e il canto. Siamo ben lontani dal classico discorso su come le grandi opere nascano dalle esperienze autobiografiche degli autori. Siamo, invece, immersi in un discorso di classe che indica come siano i poveri e gli umili a pagare il prezzo dei disordini dei ricchi e potenti. Un film colto e straordinario che conferma le doti di un cineasta schivo e grande.
Guardiani notturni
Guardiani notturni
La prima opera in competizione della 23ma Settimana Internazionale della Critica viene dalla Bosnia Erzegovina, s’intitola Čurari Noči (Guardiani notturni) e porta la firma dell’esordiente Namik Kabil. Due sorveglianti di un emporio di mobili passano la notte combattendo la noia sfidandosi ad una sorta di gioco infantile, chiacchierando delle rispettive vicende private e litigando a distanza con un ex militare ubriaco che abita nell’edificio di fronte. E’ un universo senza donne, la cui presenza è rilevata solo da telefonate, ambientato in uno scenario pieno di oggetti accatastati, quasi un panorama post nucleare causato da un ordigno capace di uccidere tutti gli esseri umani, ma rilasciare intatte le cose. E’ la metafora della condizione di quel martoriato paese, prima fra le vittime della dissoluzione dell’ex – Jugoslavia. Un mondo da cui sono scomparsi i nemici, ma sono rimasti quasi intatti e sempre dolorosi i ricordi delle violenze subite e perpetrate. Un quadro infernale in cui persino le memorie della guerra rischiano di farsi mito. Il film è troppo parlato e alquanto statico per commuovere realmente, ma testimonia una condizione umana non meno dolorosa delle ferite inflitte dalle bombe e dai colpi d’arma da fuoco.

Sabato 30 agosto – Quarto giorno
Un giorno perfetto
Un giorno perfetto
Un giorno perfetto è il titolo del primo film italiano in concorso, lo ha diretto Ferzan Ozpetek sceneggiando, con Sandro Petraglia, l’omonimo romanzo (2005) di Melania G. Mazzucco. E’ la tragica storia di un omicidio - suicidio che ha come protagonista un agente di polizia, caposcorta di un onorevole che sta per essere trombato. L’uomo non ha mai superato il trauma dell’abbandono della moglie, alla quale rimproverava immaginari tradimenti con conseguenze di botte e violenze fisiche varie. Dopo aver seguito l’ex consorte per un’intera giornata, averla aggredita ancora una volta e tentato di stuprarla, le sottrae i figli, li porta nella casa in cui la famiglia abitava un tempo, spara e uccide il più piccolo, ferisce gravemente la maggiore e si uccide. Attorno a questo dramma ci sono altre piccole storie, spesso appena accennate, di donne sole, tradite, umiliate. Rispetto ai film precedenti di questo regista manca la giocosità gay che segnava, ad esempio, Le fate ignoranti (2001) e Saturno contro (2006). Quest’ultima fatica riconferma sia la maestria con cui il cineasta sa dirigere le attrici, traendone interpretazioni intense, qui Isabella Ferrari da veramente il meglio di se, sia un gusto per il melodramma unito ad una pregevole sensibilità nello spegnerne le punte più acute. Si veda ad esempio l’intera sequenza dell’uccisione e ferimento dei figli e quella del suicidio: in entrambi i casi nulla è mostrato esplicitamente se non qualche traccia di sangue e alcuni dettagli indispensabili a chiarire e dare pathos alla sequenza. E’ un film che analizza e racconta molto bene lo smarrimento di donne in piena maturità che si vedono franare tutte le coordinate fisiche e sociali su cui avevano costruito la loro esistenza. Un’opera non originalissima, anzi decisamente classica nello stile, ma solida nella costruzione.
Città di plastica
Città di plastica
Giusto il contrario di quanto accade in Dangkou (Città di plastica) dell’hongkonghese, regista e direttore della fotografia, Yu Lik-wai. E’ un’opera scombinata, tendente al noir, che inizia con toni realistici – lo scontro fra politici corrotti e un boss del traffico di merce contraffatta – per finire con toni da video clip, colori allucinati, immagini che citano apertamente il disegno animato, il tutto condito di filosofemi da cioccolatini Perugina. In poche parole un pasticcio di difficile digeribilità.
35 bicchierini di rum bevuti d'unfiato
35 bicchierini di rum bevuti d’un fiato
Meglio allora i 35 rum (35 bicchierini di rum bevuti d’un fiato) in cui la francese Claire Denis racconta la lunga elaborazione del lutto di un vedovo e della giovane figlia meticcia. L’ambiente è quello dei lavoratori della metropolitana parigina, quasi tutti di colore, con i ritmi abitudinari, la tensione continua, le piccole vite borghesi. Tale è l’ambiente in cui si muovono Lionel e la figlia Joséphine che hanno perso da poco la moglie e madre, una tedesca, e tirano avanti sorreggendosi a vicenda e cementando un sentimento profondo, forte, ma non privo di qualche venatura incestuosa. La lenta elaborazione del dolore si chiuderà con un viaggio a Lubecca, sulla tomba della defunta, e con il matrimonio della ragazza con un vicino. Il film è delicato e preciso, un po’ prevedibile e forse con qualche lungaggine di troppo, ma psicologicamente ben costruito e interpretato in modo perfetto.
Vendi!
Vendi!
Il musical, meglio il film cantato, è uno dei generi di successo del cinema asiatico. In India, ad esempio, sono decine e decine le opere di questo tipo prodotte ogni anno, (i cosiddetti Masala Film, dal nome dell’omonimo mix di erbe e spezie che è alla base di ogni piatto nazionale) tanto che alcune di esse, seppur rivedute e corrette secondo i gusti occidentali, sono arrivate sino sugli schermi europei. Alla Settimana Internazionale della Critica è stato presentato $e11.ou7! – Sell Out! (Vendi!) del malese di Yeo Joon Han. Il film s’inserisce in questo filone del cinema e canzoni con una particolare caratteristica: quella di immergere i classici stilemi del genere (amore contrastato, lieto fine, ironia...) in un contesto di critica sociale dai tratti decisamente feroci. Solo per dare una vaga indicazione siamo dalle parti dell’operazione messa in campo nel 1961 da Jerome Robbins e Robert Wise con la trasposizione sullo schermo del musical West Side Story di Arthur Laurents, Leonard Bernstein e Stephen Sondheim. In questo caso il rapporto fra finzione e realtà è particolarmente stringente e ben emblematizzato dalle parti in cui, seppur fuggevolmente, il regista ci mostra immagini di reale povertà e degrado. Il fulcro della storia ruota attorno a due capitalisti, ferocemente grotteschi, che, con molte altre attività, controllano anche una stazione televisiva in cui lavora una giornalista cinica e arrivista. Minacciata di licenziamento se non farà risalire l’audience del programma che presenta – un ridicolo salotto cui partecipano pseudo artisti – la giornalista s’inventa un reality in cui si colgono le ultima parole dei moribondi. La materia non è poi, così abbondante perciò la conduttrice parte alla ricerca di potenziali suicidi. Uno lo trova in un inventore brutalizzato dagli stessi padroni della televisione che ha ideato una macchina portentosa, capace di trarre meraviglie dai fagioli di soia. L’ingegnere, follemente innamorato della presentatrice che lo ha sempre respinto, accetta di correre il rischio di morire in diretta: sarà il pubblico attraverso gli sms inviati alla redazione a decidere se a morire sarà la parte idealista dell’inventore o quella più affaristica. Il nostro, infatti, si è diviso in due persone, perfettamente identiche, salvo che una raccoglie inventiva e ideali, l’atra le parti grette. Il verdetto, oltre a salvargli magicamente la vita, segnerà la fortuna sua come imprenditore. Le parti migliori del film sono quelle in cui la regia satireggia, sino al grottesco, le macabre follie cui giunge la ricerca ossessiva dell’audience. Meno originale la miscela fra canto, fantasia e critica sociale, ma questo non intacca significativamente il bilancio, più che positivo, dell’opera.

Domenica 31 agosto – Quinto giorno
Il papà di Giovanna
Il papà di Giovanna
Il papà di Giovanna di Pupi Avati rispetta, nel bene e nel male, le caratteristiche tipiche di questo autore. Nel bene, perché offre un controllo altissimo delle prestazioni attoriali, unite ad una storia raccontata in modo classico e piano. Nel male, in quanto conferma la sospensione nel vuoto dei suoi film, nel senso che narrano vicende fuori del tempo e dalla storia. Nonostante i molti ingredienti scenografici, la citazione diretta degli anni in cui si collocano con tanto di riferimento a eventi storici e movimenti politici, tutto sembra svolgerti in un’epoca indefinita, priva di reali agganci con le cronache e la storia del tempo in cui il racconto è immerso. Nel caso specifico di tratta di un periodo denso d’eventi, si parte dal 1938 per arrivare sino al 1953, e di uno scenario, quello di Bologna, in cui accaddero fatti fondamentali per la connotazione del secolo e del paese. La vicenda è presto detta: una ragazza di 17 anni, psicologicamente instabile, uccide una coetanea, appartenente ad una famiglia ricca e potente, convinta che le abbia rubato l’innamorato. In realtà il ragazzo la usava come copertura per la relazione segreta che aveva con l’altra. Condannata al manicomio criminale ne uscirà dopo anni. Durante questo periodo il padre non ha cessato di assisterla in ogni modo, mentre la madre ha rotto i vincoli familiari ed è andata a vivere con un poliziotto che ha aderito alla Repubblica Sociale e che, alla fine della guerra, sarà fucilato dai partigiani. E’ questo l’unico episodio in cui il regista prende apertamente posizione e lo fa con un livore antiresistenziale grossolano e fastidioso. In ogni caso le cose si arrangiano con il ritorno a casa della donna e la ricostruzione della tranquilla famigliola borghese. Storia raccontata bene, ma priva di un qualsiasi riferimento politico o storico. Ciò non significa che, nel complesso, il regista non si collochi da una ben precisa parte, quella genericamente definita revisionista, ma solo che simboli, discorsi pubblici e altri ingredienti non riescono a motivare minimamente il film. Resta da dire dell’interpretazione che, come il solito, è d’altissimo livello e conferma la duttilità di Silvio Orlando, il talento quella giovane Alba Rohrwacher e rivela le insospettate doti attoriali Enzo Greggio, qui sobrio sino all’essenziale e apprezzabilmente misurato.
L'altra
L'altra
Storia di follia anche quella raccontata dai francesi Patric Mario Bernard e Pierre Trividic in L’autre (L’altra), radiografa la discesa nella pazzia di un’assistente sociale abbandonata dal compagno. La donna non si rassegna e si costruisce una nemica immaginaria nella nuova partner dell’ex-amante. Anche in questo caso grande interpretazione di Dominique Blanc e storia privatissima, del tutto sganciata dall’ambiente in cui è immersa. Come dire un’altra seria concorrente al premio per la migliore interpretazione femminile, ma nulla più.
Ponyo sul precipizio sul mare
Ponyo sul precipizio sul mare
Il terzo film in concorso della giornata, Gake no ue no Ponyo (Ponyo sul precipizio sul mare) era un disegno animato, veniva dal gippone, e portava la firma del maestro Hayao Miyazaki, già coronato con un Leone d’Oro alla carriera nel 2005. La storia racconta, l’amicizia fra un bimbo e una pesciolina che sogna di trasformarsi in essere umano, è densa di riferimenti poetici ed ecologici. Dobbiamo confessare la nostra incapacità ad esprimere un giudizio articolato per un genere che richiede competenze e conoscenze particolari. Da profani possiamo solo appezzare la lievità poetica dell’assunto, il grande livello dell’animazione e un ritmo narrativo agile quanto sostenuto.
Il bambino di Kabul
Il bambino di Kabul
Alla Settimana Internazionale della Critica è stato presentato Kabuli Kid (Il bambino di Kabul) di Barmak Akram. In una capitale afghana caotica e profondamente segnata dalle guerre che hanno attraversato il paese, un taxista si trova in macchina un fantolino di pochi mesi, abbandonato dall’ultima cliente che ha caricato. Inizia così una corsa attraverso la città, prima per sbarazzarsi del neonato, poi per rintracciare la madre. Sono due giornate in cui il protagonista incontra personaggi e situazioni che formano il mosaico di una società miserabile, priva di speranze, pericolosamente incline all’intransigenza religiosa. Il film ha un taglio volutamente neorealista, scelto dal neoregista - un artista a tutto tondo rifugiatosi in Francia anni or sono per sfuggire alla persecuzioni talebane - per comporre un affresco ampio e variegato di un paese che non conosce la pace da almeno vent’anni. Un elemento di particolare interesse lo ha lo sguardo rivolto alla condizione delle donne, con l’appendice della ricerca fanatica di una discendenza maschile. Le vere protagoniste del film, oltre al conducente dal buon cuore, sono le numerose bambine e madri che partecipano al discorso corale, spesso ridotte a pure voci di corpi celati da pesanti burqa. Un film generoso e importante, anche politicamente: nel dibattito che ha seguito il film il cineasta ha invitato a mandare nel suo paese meno uomini armati e più visitatori portatori d’interesse autentico per un popolo e una cultura millenari. Forse questo è il miglior commento.

Lunedì 1 settembre – Sesto giorno
La terra degli uomini rossi – Birdwatchers
La terra degli uomini rossi – Birdwatchers
La terra degli uomini rossi – Birdwatchers del cileno, d’origine italiana, Marco Bechis è il terzo film nazionale approdato nel cartellone della Mostra. La storia ha un inizio fulminante. Un gruppo di turisti procede su un’imbarcazione lungo un fiume brasiliano fotografando uccelli rari (birdwatchers), ad un tratto compare un gruppo di indios debitamente truci e svestiti, grande emozione, solo che, lo scopriamo subito dopo, di tratta di comparse assoldate per fare colore. Il seguito del film, invece, ha un taglio quasi da documentario politico e racconta la lotta di quegli stessi nativi per rientrare in possesso di alcuni, minimi, degli spazi loro sottratti nel tempo dagli agricoltori bianchi che vi hanno impiantato grandi coltivazioni tansgeniche. E’ un po’ il ritorno ai temi e alle scene della conquista delle terre avvenuta nel nostro meridione nell’immediato dopoguerra, solo che, in questo caso, non si tratta di sottrarre spazio a latifondisti assenteisti, quando di darne a chi sta morendo nelle riserve indiane. Il regista è troppo intelligente e accorto per sposare, sic et simpliciter, la causa degli indios, senza prestare ascolto alla voce dei fazendeiros, spesso brasiliani di quarta o quinta generazione. Ciò che condanna è il rifiuto del dialogo, l’intolleranza, la grettezza del possesso. La sua posizione è quella del procuratore inviato a conciliare le parti, che assicura l’interesse del governo per una soluzione equa a patto che non vi siano altre occupazioni, né violenze da parte dei proprietari. Cosa prontamente smentita con l’assassinio del capo degli occupanti. L’immagine finale - un lungo piano sequenza dall’alto che contrappone la bellezza della foresta pluviale, in cui risuonano le grida di guerra dei nativi, alla geometria dei campi coltivati - emblematizza questa necessità di conciliazione e dialogo. Il film si muove, dunque, su un piano per nulla retorico, non fa leva sull’esasperazione del pathos, casomai utilizza l’ironia – l’intera storia erotica fra una delle occupanti e il guardiano mandato a controllarli – per stemperare toni eccessivamente drammatici. In definitiva un buon film, ma non un’opera realmente memorabile.
Latte
Latte
Meglio allora il turco Sem¡h Kaplanoğlu che ha presentato Sűt (Latte), suo quarto film e conferma di una poetica di prim’ordine. Il film fa parte di una trilogia anatolica aperta da Yumurta (Uova, 2007). Ancora una volta la regia affronta tre temi: il conflitto fra cultura e vita rurale, quello fra innovazione e tradizione e le relazioni interpersonali fra genitori e figli. Al centro del racconto una madre, giovane vedova, è un figlio appena diplomato che trascorre lunghe ore leggendo e scrivendo poesie. Il sogno del ragazzo - affetto da una forma di epilessia che gli eviterà il servizio militare, ma che lui vivrà come una minorazione - è diventare un vero poeta, pubblicato e riconosciuto nel mondo della cultura. Nel frattempo deve badare alle cose della vita di tutti i giorni: la fabbricazione e la vendita del formaggio e la cura degli animali. Quando la madre incontra un vedovo e decide di riaccasarsi, per lui è un vero trauma che lo spinge sino a un tentativo di omicidio. Lo fermerà un grande pesce, misteriosamente apparso ai suoi piedi. Sembra un simbolo di salvezza cattolica, ma questa interpretazione, lo riconosciamo, è alquanto azzardata. Il film è girato con voluta lentezza, immagini molto belle e ritmo narrativo quasi inesistente. E’ un tipo di cinema destinato a suscitare pareri contrastanti, così come appare tutt’altro che univoca la lettura del finale: il giovane recupera la realtà andando a lavorare in miniera, ma la luce che brilla sul suo casco assume, a tratti, i connotati di un vero sole. Un film su cui riflettere e da leggere con pazienza e animo aperto.
Vegas: da una storia vera
Vegas: da una storia vera
Il terzo titolo della competizione portava la firma dell’americano, d’origine iraniana, Amir Naderi. Vegas: Based on a True Story (Vegas: basato su una storia vera) racconta la sete di denaro che spinge alla follia un tranquillo padre di famiglia. In tre – lui, la moglie e il figlio – vivono a Las Vegas, fuori delle luci dei grandi casinò, i due adulti hanno un passato da schiavi del gioco ed ora campano a malapena facendo, lui, il gommista, lei, la cameriera. La donna si è costruita un piccolo giardino che cura con amore quasi maniacale. Tutto sembra andare bene sin quando un truffatore racconta loro che nel giardino della loro casa è sepolto il bottino di una mitica rapina il cui frutto non è stato mai ritrovato. Progressivamente l’uomo cede alla pazzia follia, scava buche sempre più profonde, distrugge la piccola serra messa in piedi dalla moglie, fa a brandelli la casa. E’ un’opera a tesi, il cui esisto è presto leggibile, generosa e politicamente corretta nell’impostazione quanto stiracchiata nell’esecuzione. Un esempio di buon cinema civile privo di quello slancio innovativo che segna le grandi opere.
Due linee
Due Linee
La Settimana Internazionale della Critica ha presentato İki Çizgi (Due linee) del turco Selim Evci. La cinematografia di Istanbul sta sviluppando un filone di grande interesse. Sono opere centrate su un'attenta analisi dei rapporti interpersonali, colti, quasi sempre in ambiti medi borghesi e spesso segnati dallo spostamento dai luoghi di vita abituali. Un trasferimento che agisce come detonatore per far esplodere contraddizioni latenti, malinconie profonde, insoddisfazioni prima mascherate dalla routine quotidiana. Il capofila di questo percorso è Nuri Bilge Ceylan, un attore, fotografo e cineasta, che, con cinque titoli all'attivo (Kasaba – La piccola città, 1997 - Mays sikintisi – Nubi di maggio, 1999 – Uzak – Distante, 2002 – Iklimler - Il piacere e l'amore, 2006 – 3 maymun – 3 scimmie, 2008-), ha raccolto molti e importanti riconoscimenti internazionali affermandosi come uno degli autori di punta del cinema contemporaneo. Gli sono compagni cineasti come Zeki Demirkubuz, Reha Erdem e Semih Kaplanoğlu. Possiamo parlare, in modo generico, fatte salve le caratteristiche di ciascun autore e le differenze culturali, di un cinema antonioniano, nel senso che muove dai rapporti fra esseri umani per illustrare e rendere evidenti le caratteristiche di una condizione alienata e insoddisfatta, capace di disegnare quadri sociali che valgono ben oltre le storie raccontate. Selim Evci si inserisce in questo filone con autorevolezza proponendo una storia fatta quasi di nulla e, proprio per questo, ricca di riferimenti e occasioni di riflessione. Una coppia benestante formata da un fotografo e una dirigente di una grande azienda, parte per una vacanza sulla costa anatolica. Durante il viaggio la coppia incontra due giovani vicine di casa, che l'uomo spiava segretamente. Le ragazze hanno finito la benzina e lui le aiuta mostrando un interesse che va oltre la semplice cortesia. Quando la coppia rimane senza carburante a sua volta, è la donna ad abbandonare il compagno per chiedere aiuto ad un automobilista di passaggio. Sembrano accadimenti da nulla, ma quando si ritrovano soli, la sera in un motel, fantasie erotiche e violenza esplodono facendo emergere, in un crescendo drammatico, tensioni sepolte da tempo. Al mattino, tutto sembra ritornare come sempre, il velo dell'ipocrisia, squarciato per un attimo, è stato subito richiuso. E' un quadro psicologico forte, descritto in modo preciso e che svela una condizione d'insoddisfazione e oppressione ampiamente diffusa. Un esempio di questo contrasto produttivo fra vita e simbolo si può individuare nella sequenza in cui i due amanti s’immergono, l’uno distante dall’altra, in un campo di girasoli. Sembrerebbe una sequenza naturale, quasi la registrazione di necessità fisiologiche, ma il regista la trasforma in una metafora del loro essere soli, staccati l’uno dall’altro, monadi in coppia. Lo stile percorre alcuni fra i punti cardine di questo filone, dalla limitazione dei dialoghi, sino al pudore delle scene sessuali, accompagnate, tuttavia, da una forte, continua tensione erotica. In cinema di grande suggestione e tesa creatività.

Martedì 2 settembre – Settimo giorno
Teza
Teza
Giornata dedicata ai film sulla storia, reale o letta come metafora. Ha dato il via Teza di Hile Gerima, etiope esule in Germania, che ha raccontato le vicende del suo paese fra la fine del regno di Hailé Selassié (1892 –1975) nel 1974, e i bui anni della dittatura socialista del generale Haile Mariam Mengistu, sino alla guerra civile scatenatasi fra i due tronconi del Partito Comunista Etiope, uno devoto all’URSS morente, l’altro filo-albanese. Il tutto è rivisto con gli occhi di un biologo formatisi nella Germania dall’Est, ritornato in patria dopo aver subito una grave menomazione nel corso di un’aggressione razzista e teso a ricostruirsi una vita normale nonostante i pregiudizi, gli odi classisti, il disordine politico che segnano nel profondo la realtà etiope. Il film è generoso nell’esposizione di una storia cui l’Occidente ha prestato ben poca attenzione, mescola momenti fantastici, tipici del cinema animista africano, con brani quasi neorealisti. Nel complesso il melange funziona bene e, anche se l’opera non raggiunge altissimi livelli espressivi, ci consegna un testo interessante e di affascinante lettura.
Soldato di carta
Soldato di carta
La metafora si complica con Bumaznyj Soldat (Soldato di carta) del russo Alexey German jr. Il protagonista del film è l’ufficiale medico incaricato dell’assistenza al primo cosmonauta sovietico, Jurij Alekseevič Gagarin (1934 - 1968), mandato in orbita per poche ore nel 1961. Lo scenario è, soprattutto, quello dell’inospitale steppa del Kazakistan, nel pressi di quello che sarà il cosmodromo Bajkonur, qui il protagonista vive giorni tormentati dalla malattia cardia che lo affligge e il rovello per i rischi che infligge al futuro uomo delle stelle, il cui ritorno incolume sulla terra non è affatto scontato. In poche parole è un grumo assai denso e complesso di patemi personali che rappresentano le tensioni e il clima del primo disgelo sovietico. Un pausa di luce fra ferite dei crimini staliniani e timide speranze di apertura politica e culturale. Il film mette molta, troppa carne al fuoco e appesantisce ulteriormente il discorso con una stile basato su immagini livide, in pieno stile leningradese, primi e primissimi piani, ossessivamente allineati, discorsi smozzicati che si sovrappongono e non concludono. Il tutto a testimoniare un caos morale che sfocerà nella lunga glaciazione brezneviana. Non è una prova riuscita in pieno, mancano troppi collegamenti fra i fatti per questo lo spettatore, non esperto di cose sovietiche, rischia di trovarsi eccessivamente frastornato. In complesso una proposta curiosa e interessante, ma frammentaria e parziale.
Notti dei cani
Notti dei cani
Metafora pura e scarsa comprensibilità, invece in Nuit de Chien (Notte di Cani) che il tedesco Werner Schroeter ha tratto dal romanzo Para esta noche (Per questa notte) di Juan Carlos Onetti. Il film è ambientato nella città portoghese di Porto, mai citata, e racconta una notte di sangue, torture, assassini durante una guerra civile fra le fazioni di un partito salito al potere elargendo grande speranze di rinnovamento e trasformatosi in una serie di ghenghe di potere. Tutto è indistinto, si potrebbe parlare del nazismo, come del comunismo staliniano o del castrismo. Ci sono indizi in ogni direzione, ma nulla è proposto con nettezza. La storia è quella del pellegrinare di un ex eroe della rivoluzione in cerca della donna di cui è innamorato che è scomparsa nell’infuriare degli scontri. In poche parole un pasticcio intellettualistico e molto ambiguo.
Pranzo di Ferragosto
Pranzo di Ferragosto
Il pranzo di Ferragosto è uno dei quei film apparentemente fatti di nulla e non più consistenti di un piacevole aneddoto. In realtà, a leggerlo con la dovuta attenzione, dice molte più cose di quanto se ne colgano ad una prima visione. Intanto è una riflessione sulla vecchiaia, le sue pulsioni, anche erotiche, negate dalla buona creanza, ma sempre ribollenti in qualsiasi essere umano. Non si deve dimenticare, poi, che parlare di anziani in una società come la nostra, in cui il culto dell’essere giovani pervade ogni manifestazione, dalla pubblicità alla politica, è un atto di aperta trasgressione rispetto ai moduli espressivi e narrativi comunemente accettati. Se questo non bastasse c’è la sottile descrizione psicologica con cui Gianni Di Gregorio affronta i personaggi, senza nulla tacere quanto a piccolezze, piccole viltà, opportunismi vari, ma anche senza dimenticare di guardarli con un occhio sensibile alla loro umanità ferita, al dolore per un inarrestabile decadimento fisico che li isola dal mondo sedicente attivo che, spesso, li fa guardare con disprezzo. Un altro merito del film è nell’abilità con cui il regista guida queste attempate debuttanti traendo dalla loro presenza un gustosissimo succo che sa di recitazione unita a rispetto per la loro essenza umana profonda. Un film percorso da una proficua ambiguità sia nel disegno degli interpreti, sia nella costruzione di una situazione capace di superare l’apparente banalità del quotidiano per farsi apologo di dolore e riflessione in direzione di uno sguardo complessivo che, con un amaro sorriso sulle labbra, svela una condizione orribile e umanissima.

Mercoledì 3 settembre – Ottavo giorno
Rachel si sposa
Rachel si sposa
Rachel Getting Married (Rachel si sposa) di Jonathan Demme è il terzo titolo americano in concorso. In una famiglia ricca, progressista, aperta ai rapporti interetnici si sta per celebrare il matrimonio della figlia maggiore. E’ l’occasione per il ritorno a casa, in licenza temporanea, della figlia minore, che sta passando un periodo di riabilitazione dalla dipendenza di droghe dopo aver causato, in stato confusionale, la morte del fratellino. Come delle migliori riunioni di famiglia, i momenti di gioia si alternano all’uscita degli scheletri dagli armadi. Gelosie e rancori fra sorelle, eccesso di buonismo da parte del padre, ora accasato con una donna di colore dopo il divorzio da una moglie conformista e perbenista, scoperta gioiosa che la futura sposa già aspetta un bambino. Tutto questo accompagnato alle turbe della ragazza in libertà vigilata, ai suoi smarrimenti, al dolore per un senso di colpa tutt’altro che superato. E’ un quadro, preciso e ricco di sfumature, di un interno familiare cui la regia guarda con un po’ troppa indulgenza, stiracchiando le situazioni, rinunciando a trarre una valutazione qualsiasi in favore di uno sguardo freddo sull’esistente. Un buon ritratto complessivo, ma non un’opera memorabile. Da sottolineare la grande e sofferta prestazione di Anne Hathaway, nel ruolo della sorella in crisi, che si candida con forza al premio per la migliore interpretazione femminile.
I gattonatori del cielo
I gattonatori del cielo
In concorso si è visto anche un secondo disegno animato giapponese. The Sky Crawler (I gattonatori del cielo) di Mamoru Oshii prende le mosse dal romanzo omonimo di Hiroschi Mori e racconta, in clima da fantascienza, la guerra infinita fra due multinazionali che usano come piloti adolescenti, modificati geneticamente in modo che non invecchiano mai. Non solo, quando uno di loro muore in uno scontro aereo, se ne impianta il patrimonio conoscitivo in un altro essere, in modo che nulla vada perduto. Come già segnalato in precedenza, questo tipo di cinema richiede conoscenze specifiche, perciò basti l’impressione di un disegno computerizzato d’altissimo livello e di un tema decisamente inquietante, affrontato senza ottimismo o di facili soluzioni. Forse non un film perfetto, dal punto di vista della tecnica, ma ben più interessante di tanti altri prodotti insopportabilmente zuccherosi.
Le spiagge di Agnès
Le spiagge di Agnès
Fuori concorso si è visto anche l’ultimo, straordinario, documento autobiografico della cineasta francese Agnès Varda che, rivisitando le spiagge della sua vita (Les Plages d’Agnès), ci offre una riflessione su un’esistenza e una sequenza d’eventi che hanno segnato il secolo scorso, in uno con la testimonianza di una genialità, con solo cinematografica, di grande forza. E’ un film ad un tempo dolce e struggente, che rievoca grandi personaggi, purtroppo scomparsi, come Philippe Noiret, Jean Villar, Gérard Philipe, o attori, all’epoca esordienti, come Catherine Deneuve, Michel Piccoli e Gérard Depardieu. Un tour dolce e doloroso nella memoria di un’intera generazione.
L'apprendista
L'apprendista
Il cinema francese ha abbandonato da tempo Parigi quale scenario unico o quasi delle sue opere. Favorito anche da una serie di norme che assegnano alle grandi regioni la possibilità di concedere sostanziose agevolazioni finanziare ai produttori che girano sul loro territorio, un’importante parte del cinema di questo paese ha volto lo sguardo alle regioni pirenaiche, a quelle del Passo di Calais, al lionese, in poche parole alla Francia profonda. Nel quadro di questo rinnovato interesse al decentramento c'è da segnalare una particolare attenzione per la campagna, come dimostra, ad esempio, il lungo e minuzioso lavoro che il regista e grande fotografo Raymond Depardon ha dedicato agli agricoltori che vivono nel Massiccio Centrale con la serie Profils paysans (Profili contadini): L’appoche (L’approccio, 2000), Le quotidien (Il quotidiano, 2005), La vie moderne (La vita moderna). E' un tipo di cinema che non rinuncia alla narrazione, ma la filtra attraverso uno stile che utilizza i tempi e i modi del documentario, ad iniziare dall'uso di attori presi dalla strada, come si diceva ai tempi del neorealismo. Samul Collardey, documentarista di vaglia - Renè et Yvonne (Renè e Yvonne, 2004), Du soleil en hiver (Sole in inverno, 2005) - ha scelto, per esordire nel lungometraggio con L'apprenti (L'apprendista), una storia che mette in parallelo i rapporti padre – figlio e uno sguardo lucido e solidale alla vita nei campi. Il film racconta l'anno scolastico, attraverso tre stagioni, di un quindicenne che studia in un istituto agrario alternando lezioni sui libri all'esperienza pratica presso una piccola fattoria. Siamo nel Doubs, nella Franche-Comté (Franca Contea), ai confini con la Svizzera. Qui, in una campagna dolce e severa, fotografata in modo stupendo dallo stesso regista, lo studente, allevato dalla madre operaia dopo che il padre se n'è andato, stabilisce un legame quasi figliare con l'anziano proprietario dell'azienda che, a sua volta, ha il cuore oppresso dalla morte, a soli cinque anni, del figlio maschio. Sono due solitudini che trovano un terreno comune nel lavoro e nel rapporto con una natura che la regia si guarda bene dall'idealizzare. A questo proposito si veda la partecipe oggettività con cui sono descritti alcuni momenti molto emozionali, come l'uccisione del maiale, la nascita del vitello o la caccia con la fionda alle galline. Parallelamente allo sguardo sul paesaggio, il film si segnala per l'efficacia di una colonna sonora che intreccia canzoni moderne e rumori della natura. Ne emerge un ritratto complesso, che evita le facile semplificazioni e le nostalgie di maniera per guardare con occhio attento ad un mondo arcaico – moderno che sopravvive a prezzo di grandi sacrifici. Un'umanità troppo spesso trascurata, ma vitale quanto poche altre.

Giovedì 4 settembre – Nono giorno
L’armadietto del dolore
L’armadietto del dolore
Il film più atteso della giornata porta la firma dell’americana Kathryn Bigwlow e s’intitola The Hurt Locker (L’armadietto del dolore). Sin da quando è stato annunciato alcuni commentatori hanno parlato di un’opera sulla guerra irakena, informazione non del tutto esatta. Infatti, anche se il quadro in cui la storia s’inserisce è quello di una Baghdad sconvolta da attentati quotidiani, ciò che interessa alla regista è il ritratto psicologico di alcuni artificieri addetti al disinnesco di bombe e giubbetti esplosivi. Sono uomini sconvolti da violenza, rischio, paura di morire, ma che riescono a rimanere vivi sia per la rassegnazione con cui affrontano la situazione, sia perché, molti di loro, non saprebbero più che fare nella vita normale. Tale è l’artificiere James, che ha già passato un periodo di ferma in Afghanistan e che ora ha bisogno dell’adrenalina distillata dal rischio come di una vera droga. Tanto che, quando avrà la possibilità di congedarsi e ritornare a moglie e figlio, preferirà riprendere il cammino dell’Iraq. In maggiore dettaglio la storia è quella delle giornate, scandite dal conteggio dei giorni che mancano al congedo, di una compagnia di sminatori incaricati di disinnescare le numerose bombe collocate dai ribelli nel mezzo delle città o sul corpo di kamikaze più o meno consenzienti. Non tutti riusciranno ad arrivare integri alla fine della ferma, molti saranno feriti, alcuni moriranno, tutti rimarranno sconvolti per anni dall’esperienza che hanno vissuto. Come già nel caso del lontano Blue Steel – Bersaglio mortale (Blue Steel, 1990), la regista mostra una particolare sensibilità verso i problemi che affiggono gli uomini e le donne in armi, per questo il film non può essere collocato fra quelli che affrontano il conflitto irakeno, prendendo posizione pro o contro, ma appartiene più al genere dei ritratti psicologici. Ne deriva un tono non privo d'ambiguità che, da una parte condanna gli orrori della guerra – in particolare quelli commessi da chi semina bombe fra la popolazione civile – dall’altra, guarda con occhio partecipe a questi uomini ormai trasformati in veri e propri morti viventi.
Interno
Interno
Altre ambiguità in Gabbla (Interno) dell’algerino Tariq Teguia. Il film alterna brani girati con sguardo realistico a parti in cui la plausibilità lascia il passo al simbolico – fantastico. Riassunto in poche righe racconta la storia di un topografo in crisi politica e personale che decide di aiutare una giovane nera fuggita da un paese in guerra (il Sudan?) a raggiungere il Marocco per poi tentare di arrivare in Spagna. I due percorrono gran parte del deserto algerino su uno strano trabiccolo, riescono a schivare i controlli della polizia, fanno l’amore in una sequenza fra il reale e il sognato, arrivano alla frontiera. Lei riuscirà a passare, lui sarà fermato dal datore di lavoro, cui aveva rubato l’automobile, che lo aveva mandato a tracciare una nuova linea elettrica in una zona politicamente turbolenta. Ci sono parti quasi didascaliche – le chiacchiere a vuoto dei rivoluzionari da tavolino – sguardi affascinati e struggenti sulla miseria dei contadini e la bellezza dei paesaggi, ciò che manca è un filo conduttore nettamente individuabile che leghi i vari momenti, trasformando una serie di frasi in un discorso unico, coerente, linearmente intelligibile.
Cetriolo
Cetriolo
Le grandi trasformazioni che segnano la politica cinese hanno dato vita a laceranti contraddizioni che stanno mettendo in forse il disegno di coniugare rigido controllo politico con sfrenato liberalismo in economia. Una di queste crepe ha al centro le grandi masse, soprattutto contadine, affluite nelle megalopoli a cercare un riscatto dalle condizioni miserabili, spesso ancestrali, che segnano ancor oggi la vita delle campagne e della periferia meno ricca. E' un terreno rovente, da cui sta attingendo a piene mani una nuova generazione di cineasti tesa a mettere assieme denuncia sociale con nuovi linguaggi espressivi. Sono autori non amati dal regime che riescono a sfruttare le pieghe di un sistema teso a controllare ogni snodo sociale, ma incapace a chiudere tutti i varchi di critica e dissenso, più o meno aperto. Se al Festival di Karlovy Vary avevamo avuto modo di cogliere uno di questi frutti succosi e semiclandestini, Hao mao (Gatti bravi) di Ying Liang, la Settimana Internazionale della Critica, ci ha offerto la possibilità di conoscere un nuovo autore inscrivibile in questo filone: Zou Yaowu che ha firmato Huanggua (Cetriolo). E' un mosaico di tre storie che convergono, casualmente, attorno al banchetto di un fruttivendolo ambulante. E' proprio questo poveraccio, sposato con una donna muta e padre di un figlio per il quale fa grandi sacrifici al fine di permettergli di ottenere un livello d'istruzione che lo metta al riparo da una vita grama come la sua, a mostrarci il volto di una società vittima di una criminalità diffusa. C'è, poi, il regista che spera di realizzare un film e che, nel frattempo, campa con i soldi della compagna, che, a sua insaputa, si prostituisce. La terza vicenda ha al centro un ex – operaio arrivato a Pechino in cerca di occupazione dopo la chiusura della fabbrica in cui lavorava. Nessuno lo vuole, sia perché la sua professionalità non serve più, sia per una forma di razzismo, neppure troppo celato, verso coloro che vengono dalle regioni più arretrate. La sua condizione è aggravata dal tradimento della moglie e dal comportamento del figlio, coinvolto nei crimini di una banda di giovinastri. E' un vasto affresco di degrado, povertà, delinquenza diffusa da cui non c'è via d'uscita se non il delitto, il suicidio o la morte. Un panorama che la regia tratteggia con abilità, incastrandone le varie parti con sapiente architettura. Un film di ampio respiro e una testimonianza agghiacciante di una società in cui il più sfrenato liberismo convive con un implacabile controllo politico.

Venerdì 5 settembre – Decimo giorno
Il seme della discordia
Il seme della discordia
Scrive Pappi Corsicato che l’ispirazione per Il seme della discordia, quarto titolo italiano in cartellone nella sezione competitiva della Mostra, gli è venuta dal racconto La marchesa Von O (1808) di Heinrich Von Kleist (1777 – 1811). Sarà sicuramente vero, ma ciò che ne ha tratto è un film scombinato e stilisticamente frammentario, tanto che i momenti che dovrebbero alzare la tensione fanno ridere, mentre quelli deputati all’ironia lasciano indifferenti. La storia è quella di una bella signora che si scopre incinta dopo un’aggressione notturna e deve vedersela con un marito la cui infertilità è stata modicamente accertata. Il tutto sullo sfondo del quartiere direzionale di Napoli, zona di edifici supermoderni, con abbondanza di bei giovanotti, caste esibizioni di deretani e recitazione da fotoromanzo. Molto probabilmente l’intenzione era proprio quella di irridere o nobilitare la letteratura bassa, dal melò al romanzo popolare, ma il risultato è un film sgangherato, mal girato, indegno di comparire nel cartellone di una grande rassegna cinematografica.
Il lottatore
Il lottatore
The Wrestler (Il lottatore) dell’americano Darren Aronofsky (L'albero della vita, 2006) è uno di quei film che i selezionatori scelgono pensando, soprattutto, ai premi da assegnare all’interpretazione, in questo caso a quella maschile. Randy “The Ram” (L’ariete) Robinson è un combattente di wrestler, sorta di lotta libera ai limiti del puro spettacolo, famoso negli anni ottanta e ora costretto a sopravvivere alternando lavoretti manuali a sporadiche comparse in combattimenti organizzati in scuole o club privati. Un infarto sembra bloccarne la carriera in modo definitivo visto che, ai malanni, si aggiunge la nostalgia per la figlia abbandonata in tenera età, l’amore, che sembra non corrisposto, con una spogliarellista e l’aggravarsi delle difficoltà economiche. La sfida con il fisico è per un ultimo combattimento che lo contrappone ad un’altra vecchia gloria. Accetterà lo scontro e morirà sul ring. E’ il classico ritratto di un perdente che alterna melanconia a sregolatezza, ultime speranze al rifiuto di rinunciare alla vita di un tempo. Mickey Rourke costruisce assai bene un personaggio che ha molti punti di contatto con la sua biografia, gli dà i tempi giusti ed esibisce con sofferenza un fisico disfatto dall’alcool e delle ferite subite negli incontri. E' un’interpretazione di ottimo livello, ma non troppo originale, sagomata su un personaggio estremo e, allo stesso tempo, già rappresentato così tante volte da non costituire un merito particolare.
Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate
Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate
La Settimana Internazionale della Critica ha chiuso i battenti presentano, fuori concorso, Pinuccio Lovero – Sogno di una morte di mezza estate. E’ quello che, in gergo, è definito docufilm, come dire un documentario creativo in cui la registrazione della realtà si accompagna a una precisa volontà d’invenzione narrativa. Il film, in verità poco più di un mediometraggio (un’ora circa d’immagini), porta la firma di Pippo Mezzapesa, già autore di pregevoli cortometraggi: Lido Azzurro (2001), Zinanà (2004), Come a Cassano (2006). Questa volta l’obiettivo disegna il ritratto, fra l’ironico e l’amaro, di un precario di Bitonto, città natale del regista, che sogna di fare il guardiano di cimitero. Dopo vari mestieri e un’attesa infinita, ottiene l’incarico (a tempo determinato) presso il camposanto di Mariotto, una frazione della città. Solo che nei primi cinque mesi di lavoro nessuno muore, con grande gioia degli abitanti e crescente disperazione del piccolo mondo che ruota attorno a funerali e inumazioni: fioristi, aziende di pompe funebri, marmisti. La mancanza di lavoro non scoraggia l’entusiasta necroforo che s’ingegna a tenere in ordine le tombe, spazzare colombai, scavare fosse, tanto per portarsi avanti con il lavoro. E’ un’opera in cui il grottesco va a braccetto con uno sguardo acuto sul profondo sud (deliziose le interviste al sindaco e al direttore della banda cittadina) mettendone in luce sia l’inventiva, sia il lato cialtronesco (lavoro nero, precariato, intreccio fra politica ed economia, presunzione di fare ogni mestiere senza studio e preparazione). Un piccolo film che dice davvero mole cose solo che si sappia guardalo andando oltre la superficie delle immagini, ad iniziare dai alcuni fra i molti problemi, economici e strutturali, che affliggono il nostro Meridione.

Sabato 6 settembre – Undicesimo giorno
Image
Questa 65ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte cinematografica è stata davvero modesta, sia sul piano strutturale sia su quello della qualità delle opere presentate. Andiamo con ordine. Il bilancio finale della rassegna ha fatto registrare un forte calo delle presenze che, in alcuni casi, come negli alberghi di alto prestigio, è arrivato a sfiorare il 40 per cento. Sono molte le ragioni che stanno dietro questa flessione. Ha avuto un ruolo forte la debolezza del dollaro nei confronti dell’euro, fiacchezza che ha scoraggiato sia i frequentatori provenienti dagli Stati Uniti, sia, più in generale, il turismo americano. Un peso ancor più rilevante lo ha avuto la crisi economica che il paese attraversa, questo, in particolare, ha costretto a casa molti che, negli anni scorsi, venivano alla Mostra più per diletto personale che per precisi impegni professionali. Un ultimo, pesantissimo, macigno è arrivato dagli insopportabili costi del Lido, dove è quasi impossibile trovare alloggi a un prezzo accettabile e dove anche il più modesto dei ristoranti impone esborsi doppi o tripli rispetto a quelli praticati, a pari livello di servizio, in una qualsiasi città italiana. Solo per fare un esempio, nel bar di fronte al Palazzo del Cinema, una bottiglietta di acqua minerale costa 4 euro, 6 una lattina di Coca Cola. Si dirà che anche a Cannes ci sono bar e alberghi costosissimi, ma là il ventaglio dell’offerta e vastissimo e ciascuno può scegliere secondo le propine finanze: entrare in un fast food economico o pranzare in un ristorante di lusso. Al Lido questo non è possibile. Persino la soluzione dell’acquisto al supermercato e consumazione in camera è resa difficile dall’esistenza di pochi punti vendita di questo tipo, tutti piuttosto lontani dal centro della Mostra.
Image
A questi intoppi si è aggiunta la decisione della Direzione di far pagare 50 euro il diritto di segreteria per ottenere l’accredito, senza che questo comporti neppure l’omaggio di un catalogo che, invece, è venduto a ben 22 euro. Tutto ciò ha decimato la folla dei giovani cinefili che gli anni precedenti costituivano il cuore variopinto della Mostra. In poche parole, per molti il Lido è diventato insopportabilmente caro. Tale lo è anche per molti medi distributori che vivono su bilanci risicati e non sono in grado di sopportare questi salassi. Un altro elemento che ha pesato non poco è stata una selezione modesta, orgogliosa, troppo orgogliosa, del fatto che presentava quasi tutte opere inedite, ma incapace di allineare titoli di forte richiamo culturale o commerciale. Su questo punto occorre essere chiari. Non è che Marco Müller e i suo collaboratori siano diventati improvvisamente ciechi e sordi, è il cinema mondiale che sta attraversando una crisi creativa senza precedenti. Sino ad alcuni anni or sono se scemavano i film importanti in una nazione o in un continente, erano subito sostituiti con altri provenienti da diverse parti del mondo. Oggi non è più così. Esauritasi la spinta iraniana, causa l’oppressione censoria del regime di Mahmud Ahmadinejad, quasi soffocata la primavera cinese sotto un diluvio di produzioni che mirano alla superspettacolarità, troppo rare le voci che provengono da Romania, Russia, Polonia, quasi isterilitasi la nouvelle vague argentina, troppo compromessa con il commercio quella spagnola, non resta che affidarsi al solito cinema francese, anch’esso con problemi di non poco conto, o a quello turco. Un deserto in cui difficile recuperare un consistente paniere da offrire al pubblico.
Image
Ciò premesso, bisogna anche dire che alcuni errori sono stati fatti, primo fra tutti l’eccessivo spazio concesso al cinema italiano con quattro titoli, solo un paio dei quali (Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek e La terra degli uomini rossi – Birdwatchers di Marco Bechis) davvero degni di una grande rassegna internazionale. D’altro canto sono stati dimenticati titoli come Puccini e la fanciulla di Paolo Benvenuti e Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio, molto probabilmente per ragioni di potere contrattuale delle società che li hanno commercializzati: tutti i titoli scelti erano da RAI-O1 o dalla berlusconiana Medusa. Resterebbero da valutare possibilità e ipotesi per il futuro, anche in vista della costruzione di un nuovo palazzo del cinema. In primo luogo c’è da dire che appare sempre più irrealistica l’ipotesi di creare qui un vero, impostante mercato del cinema. Non ci sono né le condizioni logistiche, né quelle pratiche per un’impresa del genere. E', invece, ben più realistico il progetto di recuperare alla Mostra quel ruolo di palcoscenico e centro d’elaborazione culturale che tutt’ora manca nell’orizzonte internazionale filmico e che qui potrebbe trovare un punto di forza. Per muoversi su questa strada servirebbe una dirigenza capace di liberarsi delle suggestioni cannensi e dal sogno di fare un grande festival di tipo tradizionale. Condizioni che, al momento attuale appaiono del tutto improbabili.
Image
Per concludere qualche parola sui premi. Innanzi tutto c’è ben poco da dire sull’operato di una giuria che ha dovuto scegliere fra titoli, tutto sommato, equivalenti. Resta da sottolineare come il film vincitore, The Wrestler di Darren Aronofsky, sia più un esempio di recitazione, peraltro segnata da molti elementi autobiografici, che non un’opera cinematograficamente originale e stilisticamente importante. Allo stesso modo, il premio a Silvio Orlando per la sua prestazione ne Il papà di Giovanna di Pupi Avati, laurea un attore meritevole di grande rispetto, ma che, in questo caso, non ha offerto affatto una prestazione superiore a quella alcuni fra gli altri interpreti presenti in concorso. In poche parole, un verdetto del tutto conforme, e non poteva essere altrimenti, ad una Mostra di modesto livello.

65ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
Il lottatore
Il lottatore
Premi ufficiali
La Giuria Venezia 65, presieduta da Wim Wenders e composta da Juriy Arabov, Valeria Golino, Douglas Gordon, Lucrecia Martel, John Landis, Johnnie To dopo aver visionato tutti i ventuno film in concorso, ha deciso di assegnare i seguenti premi:
LEONE D’ORO per il miglior film a:
The Wrestler di Darren ARONOFSKY (Usa)
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
Aleksey German Jr. per Bumažnyj Soldat (Paper Soldier) (Russia)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
Teza di Haile Gerima (Etiopia, Germania, Francia)
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a:
Silvio Orlando per Il papà di Giovanna di Pupi AVATI (Italia)
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a:
Dominique Blanc per L’autre di Patrick Mario Bernard, Pierre Trividic (Francia)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente a:
Jennifer Lawrence per The Burning Plain di Guillermo Arriaga (Usa)
OSELLA per la migliore fotografia a:
Alisher Khamidhodjaev e Maxim Drozdov per Bumažnyj Soldat (Paper Soldier) di Aleksey German Jr. (Russia)
OSELLA per la migliore sceneggiatura a:
Haile Gerima per Teza di Haile Gerima (Etiopia, Germania, Francia)
LEONE SPECIALE per l’insieme dell’opera a:
Werner Schroeter
La Giuria ha deciso di assegnare un Leone Speciale a Werner Schroeter per il complesso dei suoi innovativi lavori portati avanti con tenacia e senza compromessi da 40 anni.
PREMIO “LUIGI DE LAURENTIIS” PER LA MIGLIOR OPERA PRIMA
La Giuria Premio “Luigi De Laurentiis” per la Miglior Opera Prima della 65. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, composta da Abdellatif Kechiche (Presidente), Alice Braga, Gregory Jacobs, Donald Ranvaud, Heidrun Schleef, ha deliberato all’unanimità di assegnare il premio a:
Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio (SIC - Settimana Internazionale della Critica, Italia)
Aurelio De Laurentiis e Filmauro assegnano un premio in denaro di 100.000 USD, che sarà suddiviso in parti uguali tra il regista e il produttore. Al regista andrà inoltre un buono di 40.000 Euro da spendere in pellicola offerto da Kodak.
Teza
Teza
Premi collaterali

Premio FIPRESCI
miglior film Venezia 65 a Gabbla (Inland) di Tariq Teguia
miglior film Orizzonti e Settimana Internazionale della Critica a Goodbye Solo di Ramin Bahrani
Premio SIGNIS
a The Hurt Locker di Kathryn Bigelow
menzione speciale a Vegas: Based on a True Story di Amir Naderi
menzione speciale a Teza di Haile Gerima
Premio Settimana Internazionale della Critica
a L’Apprenti di Samuel Collardey
Premio Francesco Pasinetti (SNGCI)
miglior film a Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio
menzione speciale a Pa-ra-da di Marco Pontecorvo
miglior protagonista maschile Silvio Orlando per Il papà di Giovanna
miglior protagonista femminile Isabella Ferrari per Un giorno perfetto
Premio Isvema per un film opera prima o seconda
a Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio
Premio Label Europa Cinemas - Giornate degli Autori 2008
a Machan di Uberto Pasolini
Premio Doc/it – Sicilia Film Commission
a Below Sea Level di Gianfranco Rosi
menzione speciale a L’Apprenti di Samuel Collardey
Premio Leoncino d'oro 2008
a Il papà di Giovanna di Pupi Avati
segnalazione Cinema for UNICEF a Teza di Haile Gerima
Art Cinema Award
Dikoe Pole (Wild Field) di Mikhail Kalatozishvili
Premio La Navicella – Venezia Cinema
a The Hurt Locker di Kathryn Bigelow
Premio C.I.C.T. UNESCO Enrico Fulchignoni
a BirdWatchers – La terra degli uomini rossi di Marco Bechis
Premio Speciale Christopher D. Smithers Foundation
a Stella di Sylvie Verheyde
Biografilm Lancia Award - fiction
a Rachel Getting Married di Jonathan Demme
Biografilm Lancia Award - documentario
a Below Sea Level di Gianfranco Rosi
Premio Nazareno Taddei
a Il papà di Giovanna di Pupi Avati
Premio Don Gnocchi
a Pa-ra-da di Marco Pontecorvo
menzione speciale a Ezio Greggio per Il papà di Giovanna
Premio Future Film Festival Digital Award
a The Sky Crawlers di Mamoru Oshii
menzione speciale a Gake no ue no Ponyo (Ponyo on the Cliff by the Sea) di Hayao Miyazaki
Premio Brian
a Khastegi
Premio Queer Lion
a Un altro pianeta di Stefano Tummolini
Premio Lanterna Magica (Cgs)
a Pa-ra-da di Marco Pontecorvo
Cinemavvenire
miglior film in concorso a Vegas: Based on a True Story di Amir Naderi
premio “Il cerchio non è rotondo. Cinema per la pace e la ricchezza della diversità” a Teza di Haile Gerima.
Il prenzo di Ferragosto
Il prenzo di Ferragosto
Premio FEDIC
a Machan di Uberto Pasolini
Premio Bastone Bianco (Filmcritica)
a Akires to kame (Achilles and the Tortoise) di Takeshi Kitano
Premio Human Rights Film Network Award
a The Hurt Locker di Kahryn Bigelow
Premio Arca Cinemagiovani
miglior film Venezia 65 a The Hurt Locker di Kathryn Bigelow
miglior film italiano a Pranzo di Ferragosto di Gianni Di Gregorio
premio “Altre Visioni” a Sell Out! di Yeo Joon Han
Premio EIUC Human Rights Film Award
a Kabuli Kid di Akram Barmak
Premio Lina Mangiacapre
a Stella di Sylvie Verheyde
Premio Air For Film Fest
a Pa-ra-da di Marco Pontecorvo
Premio Open 2008
a The Butcher’s Shop di Philip Haas
Premio “Poveri ma belli”
a Puccini e la fanciulla di Paolo Benvenuti
Premio Fondazione Mimmo Rotella
per un film che riveli un saldo legame con le arti figurative
a Gake no ue no Ponyo (Ponyo on the Cliff by the Sea) di Hayao Miyazaki