Festival di Karlovy Vary 2008 - Pagina 3

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Festival di Karlovy Vary 2008
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Terribilmente felici
Terribilmente felici
Frygteling lykkelig (Terribilmente felice) del danese Henrik Ruben Genz mescola cinema nero ad atmosfere americane sulla vita di provincia, condendo il tutto con qualche suggestione alla Claude Chabrol. Un poliziotto è inviato da Copenhagen una minuscola cittadina dello Jutland del sud quale unico responsabile della locale stazione di polizia. Il trasferimento ha un tono punitivo, causa la cattiva condotta professionale dell’agente che, anche per questo, è stato abbandonato dalla moglie. Nel piccolo villaggio, poche case sui lati di una strada fangosa come nel migliore western classico, lo accolgono alcuni abitanti, sospettosi, sgradevoli e depositari di non pochi scheletri nascosti negli armadi. L’agente deve confrontarsi, in particolare, con un marito violento che picchia la moglie, anche se questa rifiuta di denunciarlo preferendo stuzzicare sessualmente il tutore della legge. Questo comportamento sarà la causa di un paio di omicidi in cui l’agente è coinvolto in prima persona. Quando le cose sembrano aggiustasi, è arrivato l’ordine di ritornare nella capitale, saranno i capi della piccola comunità a ricattarlo per costringerlo a restare, cosa che lui accetterà senza molto dispiacere. Il film, alla base cui base c’è un romanzo dallo stesso titolo di Erling Jepsen (1956) edito nel 2004, è girato in modo molto professionale con un utilizzo assai efficace del paesaggio. E’ una storia in cui confluiscono temi psicologici, metafore sociali, citazioni del grande cinema americano. Un po’ troppa carne al fuoco, che rischia di compromettere il bilancio di un’opera per molti versi interessante e ben costruita da cui sgorga uno sguardo originale su una situazione ricca di suggestioni e rimandi. Da segnalare, in modo particolare, l’intreccio fra notazioni psicologiche e un modo di raccontare tipico del cinema nero, con atmosfere cupe, improvvise aperture tragiche, paesaggi desolati.
Gente di notte
Gente di notte
Due film cechi in concorso, Dĕti noci (Gente di notte) di Michaela Pavlátová e Karamazovi (I Karamazov) di Petr Zelenka. Il primo è d’impostazione nettamente televisiva e traccia il ritratto di una giovane che non riesce a trovare posto nella società in cui vive. Ha abbandonato gli studi e campa facendo la commessa nel turno di notte in un piccolo supermarket aperto 24 ore su 24. Nonostante le incitazioni della madre e gli esempi del successo di alcune sue amiche di scuola non vuole trovare di meglio. Le cose diventano ancora più difficili, quando il fidanzato l’abbandona per un’altra, lasciandola ancora più sola. Unico compagno le è un altro sfigato, specialista nel rovistare nei bidoni dell’immondizia per tranne oggetti ancora utilizzabili. Lui la ama quasi in silenzio, ma lei, dapprima, non ne vuole sapere, solo alla fine, forse troverà una qualche via d’uscita fra le sue braccia. La regista è all’opera seconda, la prima Nevérné hry (Giochi infedeli, 2003) è stata premiata al Festival di San Sebastian, e dedica molta attenzione alla costruzione psicologica del personaggio principale di cui scruta, con discreta abilità, sussulti sentimentali e turbe esistenziali. Peccato che non usi la medesima intensità di sguardo nella costruzione delle altre figure, ad iniziare da quella dell’innamorato spazzino. Questo scarto non consente al film di raggiungere un grado elevato d’analisi, rimanendo nel limbo dell’operina leggera, priva d’infamia e di lode. Lo stesso paesaggio della periferia notturna di una grande città è sfruttato solo parzialmente e reso ben poco interessante da una sfilza di figure abbozzate alla bell’e meglio, inserite in situazioni prevedibili e ben poco curate, come il tentativo di stupro, o popolate da figure, come l’accattona ladra, sagomate su cliché ammuffiti.
I Karamazov
I Kranazov
Molto più interessante il lavoro fatto da Petr Zelenca che è partito da una messa in scena teatrale de I Fratelli Karamazov (1879) di Fedor Michajlovic Dostoevskij (1821 -1881), versione per il palcoscenico curata dal regista e attore LukᚠHlavica, che, a sua volta, ha rielaborato un famoso adattamento di Evald Schorm (1931 - 1988). Una compagnia ceca partecipa al Festival del Teatro Alternativo di Cracovia recitano questo testo in una fabbrica, in via di demolizione, nella città – satellite di Nowa Huta, la stessa utilizzata da Andrzej Wajda per L'uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1976). Gli attori provano lo spettacolo in questo scenario di vecchi macchinari, avendo come unici spettatori alcuni operai, uno dei quali ha un figlio morente causa un incidente sul lavoro avvenuto proprio in quegli spazi pochi giorni prima. La tensione della recitazione e il forte suono delle parole, peraltro pronunciate in una lingua che non comprendono, ammaglieranno l’improvvisato pubblico al punto da distrarlo dalle ansie quotidiane. Il padre del ragazzo moribondo vorrà restare a vedere la rappresentazione sino in fondo, anche quando lo avvertiranno che il ragazzo e morto. Solo dopo la discesa di un ideale sipario e, forse, anche per la forza della tragedia cui ha assistito, si ucciderà. Il film segue l’ideale filo rosso che questo regista viene intessendo attorno alla responsabilità degli intellettuali verso una società che ha perso ogni fede, compresa quella in Dio. E’ un itinerario che lo ha portato a seguire il lavoro di complessi rock (Mňága – Happy End, 1996), la difficile rinascita di un musicista dall’inferno della droga alla quasi normalità (Rok dábla, [L’anno del Diavolo], 2002) passando attraverso una feroce critica del conformismo di Knoflíkáři (Bottonofili, 1997). Un percorso ricco di invenzioni visive, di situazioni originali e di grandi illuminazioni stilistiche. In ogni caso, ed anche in quest’ultimo lavoro, si parte da un quasi documentario per approdare ad una costruzione narrativa del tutto originale, si elaborano materiali già esistenti per dare loro nuovo significato. Questa volta i riflettori sono puntati sulla parte più densa dell’opera del grande scrittore russo: il senso di responsabilità e di colpa che stringe l’animo di chi ha commesso un delitto, anche se la legge degli uomini lo ignora o, peggio, lo assolve. Il fatto, poi che sia stata scelta una fabbrica diruta come scenario aggiunge al tema un argomento di modernità in più, così come la vecchia versione di Evald Schorm, uno degli autori di punta della primavera di Praga (Il coraggio quotidiano [Kazdy den odvahu, 1964]) e una delle figure maggiormente oppresse dal regime nato dai cingoli dei carri armati del Patto di Varsavia, aveva un senso particolarmente forte nella Cecoslovacchia realsocialista.
Prigioniero
Prigioniero
Plennyi (Prigioniero) porta la firma del russo Alexey Uchitel ed è tratto dal racconto Il prigioniero del Caucaso di Vladimir Makanin: Lo è quello della guerra cecena. Due soldati russi e un guerrigliero dai begli occhi, appena fatto catturato, devono percorre un lungo cammino in territorio ostile per portare aiuto ad un’autocolonna caduta in un’imboscata. Strada facendo i rapporti fra carcerieri e prigioniero mutano lentamente e uno di loro inizia a provare un sentimento umano non privo di venature omosessuali. Le vicende belliche costringeranno proprio questo militare ad uccidere il bel ribelle per impedirgli di chiedere aiuto. Il film è molto lontano dalla forza di denuncia che serpeggiava in altre opere sulla guerra caucasica e pencola più sul versante del puro racconto bellico che non su quello della denuncia. E’ girato con molta professionalità, ma rimastica cose e situazioni già viste.