Festival di Karlovy Vary 2008

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Festival di Karlovy Vary 2008
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I premi
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43mo Festival Internazionale del film di Karlovy Vary
ImageIl festival di Karlovy Vary, nella Repubblica Ceca, festeggia quest’anno la 43ma edizione confermando e migliorando i suoi tratti caratteristici. E’ una manifestazione particolarmente attenta alle cinematografie europee, in particolare a quelle dei paesi ex-realsocialisti. Un’attenzione che si sposa con una particolare sensibilità verso le opere originali e culturalmente consistenti. Il tutto riuscendo a coinvolgere grandi masse di giovani provenienti dall’intero paese, dalla Repubblica Slovacca e dalla vicina Germania. E’ un popolo variopinto, disordinato, piacevolmente travolgente che ha pochi legami con la solita massa di festivalieri professionali.
Il mattino ha l'oro in bocca
Il mattino ha l'oro in bocca
L’apertura della sezione principale, quella competitiva, ha coinvolto anche un film italiano: Il mattino ha l’oro in bocca di Francesco Patierno, già uscito sui nostri schermi. La storia è tratta dal racconto autobiografico Il giocatore di Marco Baldini, socio e complice di Fiorello, che racconta i suoi esordi a Radio DJ, nei primi anni ottanta. Dovrebbe essere un quadro di genio e sregolatezza, entusiasmo giovanile e infausta passione per il gioco d’azzardo, ma la regia non riesce a dare al film una giusta misura oscillando fra la tragedia dostoevskijana, con venature malavitose, e la commedia italiana. In questo modo rimane in mezzo ad un guado che non porta da nessuna parte. Al massimo gli si può riconoscere una simpatia di fondo cui Elio Germano, nel ruolo del presentatore radiofonico e giocatore compulsivo, offre un contributo non trascurabile.
La verità o quasi
La verità o quasi
Assai più solido La veritè ou presque (La verità o quasi) del francese, d’origini egiziane, Sam Karmann. Siamo dalla parti di quel filone familiare che tanto attira il cinema transalpino e di cui abbiamo avuto vari esempi negli ultimi festival. Questa volta l’attenzione del regista prende spunto dal romanzo True Enough (Abbastanza vero) dell’americano Stephen McCauley per disegnare un complesso groviglio di relazioni fra mogli, mariti, ex-coniugi, attuali amanti, amori etero e omosessuali, genitori e figli. Il film è costruito con abilità, sfrutta con gusto il paesaggio urbano di Lione e si avvale, come di consueto, di una pattuglia di attori molto bravi. Un testo piacevole e ben organizzato che ci parla, come la stragrande maggioranza delle altre opere classificabili in questo minifilone, di una borghesia medio – alta che non ha problemi di denaro, guarda più al proprio ombellico che al resto della società e che, anche quando è costretta a fare i conti con il mondo esterno (si veda il fuggevole episodio dell’arresto di uno dei protagonisti per frode fiscale) lo considera più un trascurabile incidente di percorso che un’occasione per fare i conti con l’esterno.
Attraverso il vetro
Attraverso il vetro
Su Iza Stakla (Attraverso il vetro) del croato Zrinko Ogresta c’è ben poco da dire ed è un peccato perché questo regista ha presentato, nel 2003, proprio a Karlovy Vary l’interessante Here (Tu) che vinse il Premio speciale della giuria. Ancora una volta siamo alle prese con un quadro di relazioni familiari e sentimentali in un ambiente medioborghese. Il tutto ruota attorno alla figura di un architetto trentacinquenne che si sta staccano sempre più dalla moglie, che gli ha dato un figlio, per indirizzarsi verso una collega di studio, sua amante di lunga data. La storia corre verso un finale tragico fra genitori ammalati, sanguinolenti aborti spontanei e litigate su ogni versante. La soluzione, se tale si può chiamare, arriverà da un colpo di pistola sparato da un paramedico che uccide accidentalmente l’amante proprio nel momento in cui il protagonista stava decidendo di lasciare la moglie. Un pasticcio mal girato, peggio sceneggiato e sorretto da interpretazioni a dir poco discutibili.

Tremori lontani
Tremori lontani

Les Tremblement Lointains del belga Manuel Poutte ci porta all’interno del Senegal, ove un medico francese manda avanti, fra mille difficoltà, un piccolo dispensario. Con lui vive la figlia che lo odia perchè lo ritiene responsabile della morte della madre. La ragazza ha una relazione sentimentale con un giovane nativo che sogna di ottenere il visto per raggiungere la fidanzata che vive a Parigi. Il conflitto padre - figlia esplode con l’arrivo di un mercante d’arte in cerca di un idolo antico da rivendere sul mercato europeo. Il commerciante convince il giovane nero, in cambio della promessa di un visto per l’Europa, a guidarlo nella ricerca della statuetta. Alla spedizione si aggregano anche il dottore e la ragazza con esiti che oscilleranno fra il positivo – la possibile riconciliazione fra padre e figlia – e il drammatico allorché la donna confessa al ragazzo, che è analfabeta, di avere stravolto, per gelosia, il senso delle lettere che gli arrivavano dalla Francia. Il film tratta con freddezza espressiva il paesaggio africano, che quasi scompare fra le maglie dei conflitti interpersonali. Questi ultimi, poi, hanno una densità molto esile, dicono ben poco di nuovo e lasciano nel vago alcuni snodi fondamentali, come la reale natura del rapporto padre – figlia. Tutto questo causa una decisa caduta nella narrazione e una progressiva mancanza d’interesse, difetti aggravati da prestazioni attoriali tutt’altro che eccezionali: Jean-François Stévenin sembra capitato nel film più per cogliere l’occasione di una vacanza africana che per vera convinzione, Amélie Daure è completamente fuori ruolo, sia come età, sia come prestazione professionale, Daniel Duval pensa che il suo personaggio possa esprimersi solo con gesti nervosi o alzando il tono di voce. Unica prestazione interessante quella del musicista senegalese Papa Malick N’Diaye che ha toni di autentica sofferenza. Nel complesso un film decisamente modesto.
Pretesti
Pretesti
Pretextos (Pretesti), primo lungometraggio della spagnola Silvia Munt. Sono varie storie che s’incrociano attorno ad una coppia formata da una regista teatrale e un medico geriatra. Lei sta mettendo in scena, in modo nuovo e in uno spazio non tradizionale, la riduzione di un autore irlandese del racconto La signora dal cagnolino (Dama s sobachkoy, 1898) di Anton Pavlovič Čechov. Al centro del riscorso registico ci sono il conflitto fra dovere e desiderio. Il discorso si sviluppa intrecciandosi con la vita quotidiana della teatrante, vicende di altre coppie per cui la creazione artistica partecipa ad un nodo di difficile scioglimento i cui suoni sono raccolti puntualmente ed ossessivamente dal figlio adolescente, nato dal primo matrimonio della donna. La regista ci propone un clima d’impronta antonioniana in cui s’intrecciano riflessioni sul malessere del vivere, le relazioni coniugali e le introspezioni personali. Il risultato è sicuramente positivo, pur con qualche situazione eccessivamente ripetuta e con alcuni passaggi non chiarissimi.
Il dottore tedesco
Il dottere tedesco
Dr. Alemán (Il dottore tedesco) di Tom Schreiber ci riporta a vari temi contemporanei e di forte drammaticità: primo fra tutti il rapporto fra coscienza e sopravvivenza. Un giovane tedesco, appena laureato in medicina, arriva nella cittadina colombiana di Calì per svolgere un tirocinio presso il reparto di Pronto Soccorso in un ospedale. La realtà della città sudamericana, una delle capitali dell’impero della cocaina, lo mette subito a confronto sia con una violenza quotidiana particolarmente diffusa e feroce, sia con la divisione classista fra un’elite borghese ricca e una sterminata platea di poveri o, spesso, miserabili. Casualmente vede in faccia un killer che ha appena ammazzato un rivale ricoverato nell’ospedale, dapprima nega ogni riconoscimento, poi, quando il delinquente tenta di arruolarlo al suo servizio, lo denuncia e lo uccide, non prima di essere stato picchiato a sangue da un clan rivale e veder ammazzare la donna di cui si è innamorato. Il film oscilla fra sequenze grandguignolesche e meditazioni psicologiche, spesso senza riuscire a trovare una sintesi accettabile anche se, nel complesso, si presenta come opera di ottima fattura e di grande interesse.
Gatti bravi
Gatti bravi
Fra i molti titoli passati in questi giorni nelle sezioni collaterali da segnalare Hao mao (Gatti bravi) del cinese Ying Liang, uno degli autori di punta del cinema non ufficiale di quel paese. Il titolo si riferisce alla famosa frase (Non è importante che il gatto sia bianco o nero, purché prenda i topi) con cui Deng Xiaoping (1904 – 1997) diede il via, nei primi anni ottanta, all’economia socialista di mercato basata su un ferreo controllo del Partito Comunista sulle strutture politiche accompagnato da uno sfrenato liberismo economico. Sono indubbiamente bravi gatti quelli per cui lavora il giovane autista tuttofare di un manager che sta cementificando vaste della provincia di Sichuan, un processo di urbanizzazione forzata che non esclude nessun mezzo, legale o illegale. L’attenzione è rivolta ad un intero quartiere fatto di vecchie abitazioni che saranno rase al suolo per far posto ad orrendi grattaceli, con tanto di sfavillanti centri acquisti. Il racconto oscilla fra i problemi familiari e le crisi di coscienza di questo giovane e le pratiche di corruzione e violenza messe in atto dai suoi capi. Uno di questi impazzirà per il rimorso dopo che i suoi uomini hanno dato fuoco ad alcuni edifici per scacciante i proprietari, che non volevano accettare gli sfratti, incendio che ha causato alcuni morti. Quello che la regia ci mostra è un panorama allucinante, un mondo in cui, in nome della modernizzazione, si opprimono i poveri in modo peggiore di quanto capiti nel più feroce capitalismo occidentale. Un quadro in cui non esiste giustizia, ma solo collusione fra affarismo, polizia, politica e magistratura. E’ un immagine sconfortante che mostra di quanto sangue grondi l’altra faccia della medaglia olimpica. Il film è stato girato con pochissimi mezzi: il primo lavoro di questo autore è costato appena 3.000 euro e questo non deve essere andato molto oltre questa cifra. La povertà di risorse ha costretto il regista a girare in elettronico e a fare quasi tutto da solo: regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, direzione artistica. Questa limitazione economica, se ha causato qualche ostacolo dal punto di vista della spettacolarità, non ha intaccato la forza d’urto dell’opera, cui hanno dato un importante contributo i membri del complesso musicale rock Lamb Funeral (Il funerale dell’agnello), altro gruppo ostico al regine.

Terribilmente felici
Terribilmente felici
Frygteling lykkelig (Terribilmente felice) del danese Henrik Ruben Genz mescola cinema nero ad atmosfere americane sulla vita di provincia, condendo il tutto con qualche suggestione alla Claude Chabrol. Un poliziotto è inviato da Copenhagen una minuscola cittadina dello Jutland del sud quale unico responsabile della locale stazione di polizia. Il trasferimento ha un tono punitivo, causa la cattiva condotta professionale dell’agente che, anche per questo, è stato abbandonato dalla moglie. Nel piccolo villaggio, poche case sui lati di una strada fangosa come nel migliore western classico, lo accolgono alcuni abitanti, sospettosi, sgradevoli e depositari di non pochi scheletri nascosti negli armadi. L’agente deve confrontarsi, in particolare, con un marito violento che picchia la moglie, anche se questa rifiuta di denunciarlo preferendo stuzzicare sessualmente il tutore della legge. Questo comportamento sarà la causa di un paio di omicidi in cui l’agente è coinvolto in prima persona. Quando le cose sembrano aggiustasi, è arrivato l’ordine di ritornare nella capitale, saranno i capi della piccola comunità a ricattarlo per costringerlo a restare, cosa che lui accetterà senza molto dispiacere. Il film, alla base cui base c’è un romanzo dallo stesso titolo di Erling Jepsen (1956) edito nel 2004, è girato in modo molto professionale con un utilizzo assai efficace del paesaggio. E’ una storia in cui confluiscono temi psicologici, metafore sociali, citazioni del grande cinema americano. Un po’ troppa carne al fuoco, che rischia di compromettere il bilancio di un’opera per molti versi interessante e ben costruita da cui sgorga uno sguardo originale su una situazione ricca di suggestioni e rimandi. Da segnalare, in modo particolare, l’intreccio fra notazioni psicologiche e un modo di raccontare tipico del cinema nero, con atmosfere cupe, improvvise aperture tragiche, paesaggi desolati.
Gente di notte
Gente di notte
Due film cechi in concorso, Dĕti noci (Gente di notte) di Michaela Pavlátová e Karamazovi (I Karamazov) di Petr Zelenka. Il primo è d’impostazione nettamente televisiva e traccia il ritratto di una giovane che non riesce a trovare posto nella società in cui vive. Ha abbandonato gli studi e campa facendo la commessa nel turno di notte in un piccolo supermarket aperto 24 ore su 24. Nonostante le incitazioni della madre e gli esempi del successo di alcune sue amiche di scuola non vuole trovare di meglio. Le cose diventano ancora più difficili, quando il fidanzato l’abbandona per un’altra, lasciandola ancora più sola. Unico compagno le è un altro sfigato, specialista nel rovistare nei bidoni dell’immondizia per tranne oggetti ancora utilizzabili. Lui la ama quasi in silenzio, ma lei, dapprima, non ne vuole sapere, solo alla fine, forse troverà una qualche via d’uscita fra le sue braccia. La regista è all’opera seconda, la prima Nevérné hry (Giochi infedeli, 2003) è stata premiata al Festival di San Sebastian, e dedica molta attenzione alla costruzione psicologica del personaggio principale di cui scruta, con discreta abilità, sussulti sentimentali e turbe esistenziali. Peccato che non usi la medesima intensità di sguardo nella costruzione delle altre figure, ad iniziare da quella dell’innamorato spazzino. Questo scarto non consente al film di raggiungere un grado elevato d’analisi, rimanendo nel limbo dell’operina leggera, priva d’infamia e di lode. Lo stesso paesaggio della periferia notturna di una grande città è sfruttato solo parzialmente e reso ben poco interessante da una sfilza di figure abbozzate alla bell’e meglio, inserite in situazioni prevedibili e ben poco curate, come il tentativo di stupro, o popolate da figure, come l’accattona ladra, sagomate su cliché ammuffiti.
I Karamazov
I Kranazov
Molto più interessante il lavoro fatto da Petr Zelenca che è partito da una messa in scena teatrale de I Fratelli Karamazov (1879) di Fedor Michajlovic Dostoevskij (1821 -1881), versione per il palcoscenico curata dal regista e attore LukᚠHlavica, che, a sua volta, ha rielaborato un famoso adattamento di Evald Schorm (1931 - 1988). Una compagnia ceca partecipa al Festival del Teatro Alternativo di Cracovia recitano questo testo in una fabbrica, in via di demolizione, nella città – satellite di Nowa Huta, la stessa utilizzata da Andrzej Wajda per L'uomo di marmo (Człowiek z marmuru, 1976). Gli attori provano lo spettacolo in questo scenario di vecchi macchinari, avendo come unici spettatori alcuni operai, uno dei quali ha un figlio morente causa un incidente sul lavoro avvenuto proprio in quegli spazi pochi giorni prima. La tensione della recitazione e il forte suono delle parole, peraltro pronunciate in una lingua che non comprendono, ammaglieranno l’improvvisato pubblico al punto da distrarlo dalle ansie quotidiane. Il padre del ragazzo moribondo vorrà restare a vedere la rappresentazione sino in fondo, anche quando lo avvertiranno che il ragazzo e morto. Solo dopo la discesa di un ideale sipario e, forse, anche per la forza della tragedia cui ha assistito, si ucciderà. Il film segue l’ideale filo rosso che questo regista viene intessendo attorno alla responsabilità degli intellettuali verso una società che ha perso ogni fede, compresa quella in Dio. E’ un itinerario che lo ha portato a seguire il lavoro di complessi rock (Mňága – Happy End, 1996), la difficile rinascita di un musicista dall’inferno della droga alla quasi normalità (Rok dábla, [L’anno del Diavolo], 2002) passando attraverso una feroce critica del conformismo di Knoflíkáři (Bottonofili, 1997). Un percorso ricco di invenzioni visive, di situazioni originali e di grandi illuminazioni stilistiche. In ogni caso, ed anche in quest’ultimo lavoro, si parte da un quasi documentario per approdare ad una costruzione narrativa del tutto originale, si elaborano materiali già esistenti per dare loro nuovo significato. Questa volta i riflettori sono puntati sulla parte più densa dell’opera del grande scrittore russo: il senso di responsabilità e di colpa che stringe l’animo di chi ha commesso un delitto, anche se la legge degli uomini lo ignora o, peggio, lo assolve. Il fatto, poi che sia stata scelta una fabbrica diruta come scenario aggiunge al tema un argomento di modernità in più, così come la vecchia versione di Evald Schorm, uno degli autori di punta della primavera di Praga (Il coraggio quotidiano [Kazdy den odvahu, 1964]) e una delle figure maggiormente oppresse dal regime nato dai cingoli dei carri armati del Patto di Varsavia, aveva un senso particolarmente forte nella Cecoslovacchia realsocialista.
Prigioniero
Prigioniero
Plennyi (Prigioniero) porta la firma del russo Alexey Uchitel ed è tratto dal racconto Il prigioniero del Caucaso di Vladimir Makanin: Lo è quello della guerra cecena. Due soldati russi e un guerrigliero dai begli occhi, appena fatto catturato, devono percorre un lungo cammino in territorio ostile per portare aiuto ad un’autocolonna caduta in un’imboscata. Strada facendo i rapporti fra carcerieri e prigioniero mutano lentamente e uno di loro inizia a provare un sentimento umano non privo di venature omosessuali. Le vicende belliche costringeranno proprio questo militare ad uccidere il bel ribelle per impedirgli di chiedere aiuto. Il film è molto lontano dalla forza di denuncia che serpeggiava in altre opere sulla guerra caucasica e pencola più sul versante del puro racconto bellico che non su quello della denuncia. E’ girato con molta professionalità, ma rimastica cose e situazioni già viste.

Il pozzo
Il pozzo
Dixia de Tiankong (Il pozzo) di Zhang Chi offre un ritratto della vita quotidiana in una città mineraria della Cina Occidentale. Lo fa seguendo la storia di una famigliola composta di un addetto agli ascensori della miniera, la figlia che lavora nella stessa azienda e il figlio più giovane che va, meglio dovrebbe andare, ancora a scuola. La ragazza è fidanzata ad un giovane minatore, ma il loro rapporto si spezza, quando i colleghi l’accusano di aver fatto carriera concedendo favori sessuali al direttore. A questo punto lei sceglie di abbandonare tutto e sposare un ricco emergente che abita in una città vicina. Suo fratello tenta di evitare la vita in miniera organizzando piccoli traffici con un compagno, ma lo mandano in prigione. Uscitone sposa una parrucchiera e finisce anche lui a lavorare per l’azienda estrattiva. Il padre, appena pensionato, scopre di essere seriamente ammalato e, forse come ultimo gesto, parte alla ricerca della ex - moglie che lo ha abbandonato, con i due figli, molti anni prima. Il film ha un tono melanconico, quotidiano, esasperatamente lento e racconta, usando pochissimi dialoghi, storie dai toni banali, ma che contrastano con il trionfalismo dilagante sui miracoli economici conseguiti dal paese. E’ una scelta che non soddisfa del tutto, in quanto rischia di consegnare allo spettatore un’immagine eccessivamente edulcorata della terribile vita cui sono costretti i minatori. La stessa malinconia che sprizza da ogni poro, in particolare dagli sguardi dei personaggi rischia di assumere un tono esistenziale, del tutto separato dalla condizioni oggettive in cui quest’umanità è immersa. Da un punto di vista strettamente stilistico la regia si muove sulla scia del moderno cinema orientale, quello fatto di silenzi più che di parole, rapporti con il paesaggio e notazioni suggerite. Tuttavia, è una scelta che appare più di principio che non realmente sentita come esigenza espressiva collegata a quel tema e a quelle vicende.
L'investigatore
L'investigatore
Assai più interessante A nyomozó (L’investigatore), opera prima dell’umgherese Attila Gigor. Il film affronta il tema dell’uomo solo ed emarginato che, di colpo, ritrova un punto di riferimento, in questo caso attraverso un omicidio. Tibor Malkáv ha 37 anni, lavora come anatomopatologo, ha un buon stipendio e una madre ricoverata in ospedale che sta morendo di cancro e la cui vita potrebbe essere allungata con un’operazione che è fatta solo in Svezia. E’ un solitario senza amici e con seri problemi di comunicazione. Un giorno incontra uno strano personaggio che gli offre una consistente somma di denaro se ucciderà una certa persona. Accetta e ammazza la vittima designata, salvo scoprire, due giorni dopo, che era suo fratello di cui ignorava l’esistenza. Profondamente turbato, inizia una personale indagine per scoprire che cosa c'è dietro l’omicidio che ha commesso. La forza del film è nel ritratto di un uomo banale che cova una ricchezza di voglie e sentimenti pronti ad esplodere alla prima occasione. Un film molto bello, curatissimo nelle immagini, articolato su una storia non facile e non sempre chiarissima, in cui ciò che conta è la descrizione dei personaggi, qui sorretti da un cast di altissimo valore.

Il fotografo
il fotografo
Le ultime proiezioni del concorso non hanno portato novità, sia nel giudizio complessivo sia questa edizione della manifestazione sia sulla qualità delle singole opere. The Photograph (Il fotografo) del singaporegno Nan Triveni Achnas è una storia dolente che mette in scena il rapporto, più volte sfruttato, fra un anziano al fine della vita e una giovane. Sita si prostituisce per raccogliere il denaro necessario a curare la nonna e mantenere la figlia rimaste al villaggio. Alla ricerca di una stanza da affittare a poco prezzo, s’imbatte in un anziano fotografo che gestisce, con attenzione maniacale, il suo lavoro ed è roso dal rimorso per aver causato, involontariamente, la morte della moglie, quando entrambi erano ancora giovani. Va da sé che i rapporti fra il vecchio e la ragazza arriveranno ad una forma di solidarietà e comprensione reciproca, non prima di aver attraversato un lungo periodo di tensioni e scontri. Il film è realizzato bene e beneficia di una fotografia di ottimo livello, ma appare decisamente datato e inserito in un tipo di cinema un po’ polveroso e decisamente ovvio.
La chitarra
La chitarra
Le cose sono andate ancora peggio The Guitar (La chitarra) dell’americana Amy Redford, figlia della star – mito Robert. Siamo nei pressi della commedia a lieto, fine con venature cupe. La giovane Melody riceve, in una mattinata, tre notizie capaci, ciascuna, di ammazzare un toro. Scopre di avere un cancro che le concede un massimo di due mesi di vita, perde il posto di lavoro e il fidanzato l’abbandona. Disperata, decide di vivere alla grande i giorni che le rimangono: affitta un lussuoso appartamento, lo arreda con mobili costosi, compera vestiti non meno cari e si regala una preziosa chitarra che aveva sognato sin da bambina, arrivando al punto di tentare di rubarla dal negozio in cui era esposta. Il tutto pagato con le carte di credito di cui è intestataria. Per alcune settimane non esce dal suo bozzolo, il che non le impedisce di intrecciare rapporti etero e omosessuali, a uno e due partner. Quando il credito finisce ed è costretta ad uscire di casa, scopre di non essere più ammalata: la botta di felicità che si è concessa l’ha guarita. Certo, ora ci sono i debita da pagare, ma un secondo colpo di fortuna la toglie dai guai facendola associare ad un gruppo musicale di successo. Commedia nera a lieto fine, si è detto, ma rimangono non pochi dubbi, a parte la prevedibilità e le numerose sfilacciature di cui il film soffre. In primo luogo c’è la pericolosa affermazione secondo cui il cancro si potrebbe sconfiggere che piacevoli botte di vita. Affermazione quantomeno discutibile se non pericolosa. Poi c’è l’intero discorso sull’esistenza governata solo da colpi di fortuna o sfortuna. Infine le molte banalità e la scarsità della vena ironica. Come dire un film che si vede con piacere, ma che si dimentica altrettanto velocemente.
Sonetaula
Sonetaula
Fra i molti film che formano il vasto panorama delle sezioni collaterali si è visto anche un film italiano che ha avuto una circolazione solo quasi simbolica sui nostri schermi. S’intitola Sonetàula e lo ha diretto Salvatore Mereu che si era già fatto notare e premiare per l’opera d’esordio, Ballo a tre passi, vista nel quadro della Settimana della Critica della Mostra di Venezia 2002. Il film, basato su un racconto di Giuseppe Fiori, è parlato in sardo stretto e girato con la camera quasi sempre sul volto e il corpo dei personaggi, ma questo non lo degrada a pura produzione televisiva in quanto sia il tema sia le scelte stilistiche profonde ne fanno un’opra originale e personalissima. Durante un arco temporale assai ampio, dal 1938 all’inizio degli anni cinquanta, seguiamo la storia di un giovane fuorilegge, divenuto tale in seguito ad una grave ingiustizia commessa nei confronti della sua famiglia: il padre è stato accusato falsamente e condannato per omicidio, il nonno lo aveva vendicato uccidendo il falso accusatore e lui era diventato l’unico puntello della famiglia. Lentamente da sgarbo a vendetta, da abigeato a uccisione delle greci dei rivali, Sonetàula, questo il soprannome dato al giovane, diventa latitante, fuorilegge, bandito sulla cui testa pesa un taglia consistente. Il film segue questo calvario sino alla morte del protagonista tracciando il quadro di una società arcaica, poverissima che vede lo Stato e le forze dell’ordine come qualche cosa di completamente estraneo. Una sorta di corpo d’occupazione di cui diffidare e da contrastare in ogni modo. La costruzione dell’opera ricorda La terra trema (1948) il film siciliano di Luchino Visconti parlato in siciliano stretto (nelle sale fu distribuita una versione sottotitolata che ebbe vita brevissima), ma si discosta da quell’opera per il realismo del tocco, che contrasta un certo estetismo viscontiano, e per uno sguardo particolarmente duro alle condizioni della Sardegna del tempo. Anni in cui anche il semplice arrivo della corrente elettrica era festeggiato come un evento straordinario. Davvero un bel film girato magnificamente e interpretato in modo sofferto e autentico da un gruppo di attori non professionisti (secondo la migliore lezione neorealista) di straordinaria efficacia.

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La 43ma edizione del Festival del Cinema di Karlovy Vary ha confermato l’importanza e le tendenze di questa manifestazione. La puntata di quest’anno ha nuovamente sottolineato l’interesse di una selezione che guarda soprattutto ad un cinema che mantiene, pur nell’innovazione degli stili, un saldo legame con i problemi sociali e umani che segnano il nostro tempo. Questo si è accompagnato ad un vasto ventaglio informativo su quanto di meglio passa ogni anno nei maggiori festival. Il tutto in un clima di lenta, ma continua innovazione di strutture ed apparati tecnici, miglioramenti che anno risolto, per buona parte, i problemi di spazio e vetustà delle sale che da sempre costituiscono il cruccio degli organizzatori di quest’iniziativa. Non pochi fra i film presenti nella sezione maggiore, quella competitiva, hanno suscitato pareri discordi, ma sempre nella certezza che si trattava di opere importanti, portatici di problematiche attuali perciò meritevoli di attenta considerazione.
Un elemento del tutto particolare, infine, è venuto dai filmati uniti alla presentazione di ciascun film. E’ questa una caratteristica peculiare a questa manifestazione che, con il passare del tempo, è venuta costruendo un piccolo archivio di ministorie che, per quanto spezzettate in diversi episodi, formano una ventaglio di piccoli racconti segnati da un particolare umorismo.
Terribilmente felice
Terribilmente felice
Quest’anno sono stati presi di mira i maggiori dirigenti della rassegna, comparsi in una serie di quattro disegni animati che presentano la società elettrica che offre la sponsorizzazione principale della manifestazione; ad essi si sono accompagnati altrettanti folgoranti cortometraggi, diretti da Ivan Zachariáš, che ha lavorato su un’idea di Martin Krejčí. Sono quattro piccoli racconti, rigorosamente in bianco e nero, in cui alcuni fra i premiati delle passate edizioni mostrano come hanno utilizzato la statuetta – una donna nuda che solleva un pesante globo di cristallo – loro assegnata per il contributo che hanno dato al cinema mondiale. Si va dal tentativo di rimettere assieme i pezzi del globo (Věra Chytilová), all’uso come pestapastiglie (Miloš Forman), al mezzo per tacitare un telefono inopportuno (Danny De Vito), sino alle spiegazioni date da Harvey Keitelad a un barista su come gli abbiano rotto un piede facendoci cadere il trofeo. Sono biglietti da visita intelligenti e divertenti, in linea con lo spirito della rassegna.
Il fotografo
Il fotografo
Per quanto riguarda i premi assegnati dalla giuria principale non ci sono obiezioni da fare, a parte quella di aver trascurato A nyomozó (L’investigatore) di Attila Gigor, che ci è sembrato il migliore fra i film proposti in concorso. Nonostante ciò nulla da dire sul maggior riconoscimento andato a Frygtelig Lykkelig (Terribilmente Felice) del danese Henrik Ruben Genz di cui abbiamo apprezzato sia l’uso del paesaggio sia l’intreccio fra notazioni psicologiche e atmosfere da cinema nero. Giudizio positivo anche sul premio speciale a disposizione della giuria, assegnato al singaporegno Nan Triveni Achnas, autore di The Photograph (Il fotografo) ove, pur muovendo da situazioni non originali, si descrivono con grazia e delicatezza sofferte reazioni psicologiche. Il premi per le migliori recitazioni, femminile e maschile, hanno coronato gli interpreti di Dĕti noci (Gente di Notte), della regista ceca Michaela Pavlátová, due attori (Martha Issová e Jiří Mádl) la cui bravura non riesce a sollevare adeguatamente un film decisamente modesto. Condivisibile anche il premio alla regia che ha laureato il russo Alexey Uchitel, autore di Plennyj (Prigioniero), opera ben costruita anche se piuttosto reticente sulla reale drammaticità della guerra cececna.

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I PREMI
Concorso lungometraggi
GRAN PREMIO – Globo di cristallo e 30.000 dollari da dividersi in parti eguali fra il regista e il produttore
Frygtelig Lykkelig (Terribilmente Felice) di Henrik Ruben Genz, Danimarca.
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA e 20.000 dollari da dividersi in parti eguali fra il regista e il produttore
The Photograph (Il fotografo) di Nan T. Achnas, coproduzione fra Indonesia – Francia – Olanda – Svizzera - Svezia.
PREMIO ALLA MIGLIORE REGIA
Plennyj (Prigioniero) di Alexey Uchitel, coproduzione fra Russia e Bulgaria.
MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE
Martha Issová per il film Dĕti noci (Gente di Notte) di Michaela Pavlátová, Repubblica Ceca.
MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE
Jiří Mádl per il film Dĕti noci (Gente di Notte) di Michaela Pavlátová, Repubblica Ceca.
MEZIONI SPECIALI
Karamazovi (I Karamazov) di Petr Zelenka, coproduzione fra Repubblica Ceca e Polonia.
A nyomozó (L’investigatore) di Attila Gigor, coproduzione fra Ungheria – Svezia - Irlanda.
Concorso documentario
MIGLIOR DOCUMENTARIO DI LUNGHEZZA INFERIORE AI 30 MINUTI (premio di 5.000 dollari)
Letűnt világ (Mondo perduto) di Gyula Nemes, coproduzione fra Ungheria e Finlandia.
MIGLIO DOCUMENTARIO DI LUNGHEZZA SUPERIORE AI 30 MINUTI (premio di 5.000 dollari)
A Man on Wire (L’uomo sul filo) di James Marsh, Gran Bretagna.
MENZIONE SPECIALE
Bigger, Stronger, Faster (Più grande, più forte, più veloce) di Christopher Bell, Stati Uniti.
Premi della sezione East of the West (L’est dell’ovest).
MIGLIOR FILM (10.000 DOLALRI)
Tulpan di Sergey Dvortsevoy, coproduzione fra Kazakistan – Germania – Svizzera – Russia – Polonia.
MENZIONE SPECIALE
Šivački (Sarta) di Lyudmil Todorov, Bulgaria.
Premi per l’eccezionale contributo dato al cinema.
Robert De Niro
, USA
Dušan Hanák, Slovacchia
Juraj Jakubisko, Slovacchia
Ivan Passer, USA
Premio del presidente
Danny Glover, USA
Christopher Lee, Gran Bretagna.
Premio della città di Karlovy Vary
Armin Mueller-Stahl, Germania.
Premio del pubblico offerto dal giornale PRÁVO
12 di Nikita Michalkov, Russia.
Premi non ufficiali.
PREMIO MACCHINA DA PRESA INDIPENDENTE DELLA TELEVISIONE CECA.
Rusalka (Sirena) di Anna Melikyan, Russia.
PREMIO ETICHETTA EUROPA CINEMA (sostegno alla distribuzione nel circuito europeo)
Bahrtalo! (Jó szerencsét!) (Bahrtalo! – Buona fortuna!) di Róbert Lakatos, coproduzione fra Ungheria – Austria – Germania.
PREMIO DELLA CRITICA INTERNAZIONALE (FIPRESCI)
Karamazovi (I Karamazov) di Petr Zelenka, coproduzione fra Repubblica Ceca e Polonia.
PREMIO DELLA GIURIA ECUMENICA
The Photograph (Il fotografo), di Nan T. Achnas, coproduzione fra Indonesia – Francia – Olanda – Svizzera - Svezia.
PREMIO DON CHISCIOTTE DELLA FICC (Federazione Internazionale dei cineclub)
A nyomozó (L’investigatore) di Attila Gigor, coproduzione fra Ungheria – Svezia - Irlanda.
PREMI NETPAC (Ente per la promozione del cinema asiatico)
Written (Scritto) di Kim Byung-woo, Corea del Sud
Tulpan di Sergey Dvortsevoy, coproduzione fra Kazakistan – Germania – Svizzera – Russia – Polonia.