Festival di Karlovy Vary 2008 - Pagina 2

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Festival di Karlovy Vary 2008
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Tremori lontani
Tremori lontani

Les Tremblement Lointains del belga Manuel Poutte ci porta all’interno del Senegal, ove un medico francese manda avanti, fra mille difficoltà, un piccolo dispensario. Con lui vive la figlia che lo odia perchè lo ritiene responsabile della morte della madre. La ragazza ha una relazione sentimentale con un giovane nativo che sogna di ottenere il visto per raggiungere la fidanzata che vive a Parigi. Il conflitto padre - figlia esplode con l’arrivo di un mercante d’arte in cerca di un idolo antico da rivendere sul mercato europeo. Il commerciante convince il giovane nero, in cambio della promessa di un visto per l’Europa, a guidarlo nella ricerca della statuetta. Alla spedizione si aggregano anche il dottore e la ragazza con esiti che oscilleranno fra il positivo – la possibile riconciliazione fra padre e figlia – e il drammatico allorché la donna confessa al ragazzo, che è analfabeta, di avere stravolto, per gelosia, il senso delle lettere che gli arrivavano dalla Francia. Il film tratta con freddezza espressiva il paesaggio africano, che quasi scompare fra le maglie dei conflitti interpersonali. Questi ultimi, poi, hanno una densità molto esile, dicono ben poco di nuovo e lasciano nel vago alcuni snodi fondamentali, come la reale natura del rapporto padre – figlia. Tutto questo causa una decisa caduta nella narrazione e una progressiva mancanza d’interesse, difetti aggravati da prestazioni attoriali tutt’altro che eccezionali: Jean-François Stévenin sembra capitato nel film più per cogliere l’occasione di una vacanza africana che per vera convinzione, Amélie Daure è completamente fuori ruolo, sia come età, sia come prestazione professionale, Daniel Duval pensa che il suo personaggio possa esprimersi solo con gesti nervosi o alzando il tono di voce. Unica prestazione interessante quella del musicista senegalese Papa Malick N’Diaye che ha toni di autentica sofferenza. Nel complesso un film decisamente modesto.
Pretesti
Pretesti
Pretextos (Pretesti), primo lungometraggio della spagnola Silvia Munt. Sono varie storie che s’incrociano attorno ad una coppia formata da una regista teatrale e un medico geriatra. Lei sta mettendo in scena, in modo nuovo e in uno spazio non tradizionale, la riduzione di un autore irlandese del racconto La signora dal cagnolino (Dama s sobachkoy, 1898) di Anton Pavlovič Čechov. Al centro del riscorso registico ci sono il conflitto fra dovere e desiderio. Il discorso si sviluppa intrecciandosi con la vita quotidiana della teatrante, vicende di altre coppie per cui la creazione artistica partecipa ad un nodo di difficile scioglimento i cui suoni sono raccolti puntualmente ed ossessivamente dal figlio adolescente, nato dal primo matrimonio della donna. La regista ci propone un clima d’impronta antonioniana in cui s’intrecciano riflessioni sul malessere del vivere, le relazioni coniugali e le introspezioni personali. Il risultato è sicuramente positivo, pur con qualche situazione eccessivamente ripetuta e con alcuni passaggi non chiarissimi.
Il dottore tedesco
Il dottere tedesco
Dr. Alemán (Il dottore tedesco) di Tom Schreiber ci riporta a vari temi contemporanei e di forte drammaticità: primo fra tutti il rapporto fra coscienza e sopravvivenza. Un giovane tedesco, appena laureato in medicina, arriva nella cittadina colombiana di Calì per svolgere un tirocinio presso il reparto di Pronto Soccorso in un ospedale. La realtà della città sudamericana, una delle capitali dell’impero della cocaina, lo mette subito a confronto sia con una violenza quotidiana particolarmente diffusa e feroce, sia con la divisione classista fra un’elite borghese ricca e una sterminata platea di poveri o, spesso, miserabili. Casualmente vede in faccia un killer che ha appena ammazzato un rivale ricoverato nell’ospedale, dapprima nega ogni riconoscimento, poi, quando il delinquente tenta di arruolarlo al suo servizio, lo denuncia e lo uccide, non prima di essere stato picchiato a sangue da un clan rivale e veder ammazzare la donna di cui si è innamorato. Il film oscilla fra sequenze grandguignolesche e meditazioni psicologiche, spesso senza riuscire a trovare una sintesi accettabile anche se, nel complesso, si presenta come opera di ottima fattura e di grande interesse.
Gatti bravi
Gatti bravi
Fra i molti titoli passati in questi giorni nelle sezioni collaterali da segnalare Hao mao (Gatti bravi) del cinese Ying Liang, uno degli autori di punta del cinema non ufficiale di quel paese. Il titolo si riferisce alla famosa frase (Non è importante che il gatto sia bianco o nero, purché prenda i topi) con cui Deng Xiaoping (1904 – 1997) diede il via, nei primi anni ottanta, all’economia socialista di mercato basata su un ferreo controllo del Partito Comunista sulle strutture politiche accompagnato da uno sfrenato liberismo economico. Sono indubbiamente bravi gatti quelli per cui lavora il giovane autista tuttofare di un manager che sta cementificando vaste della provincia di Sichuan, un processo di urbanizzazione forzata che non esclude nessun mezzo, legale o illegale. L’attenzione è rivolta ad un intero quartiere fatto di vecchie abitazioni che saranno rase al suolo per far posto ad orrendi grattaceli, con tanto di sfavillanti centri acquisti. Il racconto oscilla fra i problemi familiari e le crisi di coscienza di questo giovane e le pratiche di corruzione e violenza messe in atto dai suoi capi. Uno di questi impazzirà per il rimorso dopo che i suoi uomini hanno dato fuoco ad alcuni edifici per scacciante i proprietari, che non volevano accettare gli sfratti, incendio che ha causato alcuni morti. Quello che la regia ci mostra è un panorama allucinante, un mondo in cui, in nome della modernizzazione, si opprimono i poveri in modo peggiore di quanto capiti nel più feroce capitalismo occidentale. Un quadro in cui non esiste giustizia, ma solo collusione fra affarismo, polizia, politica e magistratura. E’ un immagine sconfortante che mostra di quanto sangue grondi l’altra faccia della medaglia olimpica. Il film è stato girato con pochissimi mezzi: il primo lavoro di questo autore è costato appena 3.000 euro e questo non deve essere andato molto oltre questa cifra. La povertà di risorse ha costretto il regista a girare in elettronico e a fare quasi tutto da solo: regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, direzione artistica. Questa limitazione economica, se ha causato qualche ostacolo dal punto di vista della spettacolarità, non ha intaccato la forza d’urto dell’opera, cui hanno dato un importante contributo i membri del complesso musicale rock Lamb Funeral (Il funerale dell’agnello), altro gruppo ostico al regine.