Festival di Cannes 2008 - 7° giorno

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Festival di Cannes 2008
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Due amanti
Due amanti
Martedi' 20 maggio – Settimo giorno.
Il cartellone del concorso ha proposto, uno dopo l’altro, due grandi film americani. James Gray, regista di tre titoli che hanno riscosso grandi consensi da parte della critica (Little Odessa, 1994 - The Yards, 2000 - I padroni della notte [We Own the Night, 2007]), con Two Lovers (Due amanti) raggiunge una maturità e una complessità narrativa che mancavano nei titoli precedenti. La conferma viene anche dalla rinuncia ad utilizzare elementi polizieschi, che possono anche attrarre l’attenzione dello spettatore, ma rischiano spesso di sconfinare nel cliché. In questo caso, invece, la narrazione è pura, le psicologie sono studiate e rappresentate con grande perizia, i temi che stanno a cuore a questo cineasta declinati con abilità. Leonard, figlio del proprietario di una lavanderia di Brooklyn, è piombato in una grave crisi, sino a tentare il suicidio, quando il padre della fidanzata ha bloccato le nozze in quanto i due erano portatori sani di una rara malattia che avrebbero potuto trasmettere ai figli. Ora si affaccia la possibilità di una nuova relazione, con la figlia di un altro imprenditore delle lavanderie con cui suo padre sta per stipulare un accordo di fusione aziendale. La ragazza è bella, più che disponibile, intelligente, sennonché si affaccia all’orizzonte una dirimpettaia bionda, in crisi con l’amante – principale, che chiede a Leonardo consigli e ne infiamma il cuore. Quando i due sono in procinto di fuggire alla chetichella, proprio durante la festa che dovrebbe ufficializzare il rapporto con l‘altra e la fusione delle due aziende, la bella inquieta si tira indietro e a lui non resta che ritornare in famiglia, preparasi ad una vita tranquilla senza grulli per la testa né amore appassionato. Il film è immerso nella comunità ebraica, secondo una passione di questo regista per i gruppi etnici, passione già presente in tutte le sue opere precedenti, ma quello che eleva questo titolo sopra quelli del passato, è la capacità di dare, in poche note, il tono della situazione e il carattere dei personaggi. Questo scontro fra l’aspirazione all’assoluto - l’amore con la A maiuscola - e le esigenze della vita è descritto con intelligenza e sensibilità, mai gridato o declamato, ma sempre suggerito e sussurrato. Grande merito anche di un gruppo di attori davvero fantastico: Joaquin Phoenix, vera presenza feticcio del regista, Gwyneth Paltrow, Vinessa Shaw, Isabella Rossellini.
Lo scambio
Lo scambio
Con Changeling (Lo scambio) di Clint Eastwood il festival ha toccato una delle sue punte più alte. Con quest’opera l’attore e regista si conferma una delle figure più importanti del panorama del cinema americano e un autore di valore mondiale. La storia è ambientata a Los Angeles, negli anni che vanno dal 1928 al 1935. Non ci sono citazioni dirette alla grande crisi del ventinove, ma l’intero film ne è una formidabile metafora. Una donna che sta allevando il figlio da sola non lo trova più a casa. La polizia, corrotta e violenta, fa ben poco per lei e per cercare il piccolo. Dopo cinque mesi la madre si vede consegnare un ragazzino che dice di essere lo scomparso, ma che lei non riconosce. Poco conta che l’altezza del giovane non coincida con quella del figlio, che sia circonciso, mentre l’altro non lo era, che non riconosca la sua maestra né il posto che occupava in aula e che la sua situazione dentaria sia incompatibile con quella dello scomparso. Per le autorità il caso e chiuso e non voglio ritornarci su, anzi, visto che la donna continua ad insistere la fanno rinchiudere in manicomio. Solo il caso e la scoperta di un serial killer attratto da giovani vittime, rimetterà tutto in discussione, portando alla condanna dell’assassino e alla decapitazione dell’intero corpo di polizia. Anche se questo coinvolge solo in parte la madre, che continua a sperare nella sopravvivenza del figlio sia ancora vivo. Il film è forte, solido nella costruzione, un vero capolavoro di cinema classico. Vi si ritrovano i filoni fondamentali del mondo di questo regista, un americano purosangue la cui cultura sarebbe sciocco voler etichettare di destra o di sinistra. C’è una fiducia assoluta nell’individuo e nelle sue capacità di lotta. C’è la denuncia coraggiosa dei guasti della società, ma c’è anche la certezza negli anticorpi che le stesse istituzioni sanno generare. C’è la religione, vista di malocchio come struttura di potere, ma utile per il trionfo della verità. C’è la pietà per i colpevoli, ma anche la non contrarietà alla pena di morte, C’è, infine, l’odio verso i pubblici poteri che si macchiano di crimini o traggono vantaggio dalla loro posizione. E’ un quadro impietoso di un’America sul crinale nella maggiore crisi della sua storia che, anche se non è mai citata in modo diretto, è come sospesa su ogni fotogramma. Un film molto bello, firmato da un regista dalla straordinaria forza espressiva.
Versailles
Versailles
Il francese Pierre Schoeller ha portato a Un Certain Regard Versailles, un bel melodrammone con qualche pretesa sociologica. La giovane Nina, madre di un ragazzino di quattro anni, non ha né casa né reddito. Vive, con il figlio, vive per strada dormendo dove capita e mangiando ciò che trova. Nonostante questa condizione di miseria non accetta nessuna forma d’aiuto istituzionale, tanto che finisce a vivere nel bosco di Versailles, in una capanna fatta di cartoni e lamiere di recupero, costruita da ex-drogato refrattario ad ogni forma di vita sociale. I tre, e alcuni altri che hanno fatta la medesima scelta, formano una sorta di comunità primitiva, che non accetta nessun principio d’autorità. Una notte la ragazza fugge lasciando il figlio, dopo qualche ruvidezza, il costruttore della baracca lo prenderà sotto le sue ali protettive, finendo per assumere, agli occhi del piccolo, il ruolo di padre e madre. La donna, nel frattempo trova una collocazione come assistente in una casa di riposo per anziani e cova un forte sensi di colpa per aver abbandonato il figlio. Anche il padre casuale finisce con l’abbandonare l’eremitaggio asociale e ritornare in famiglia con il piccolo. Dopo qualche incertezza i due sono accolti a braccia aperte: l’uomo riconosce il bimbo come suo e si trova un lavoro che, tuttavia, abbandona subito dopo, ripartendo all’avventura e lasciando il pargolo con i nonni adottivi. E’ passata una decina d’anni e arriva una lettera della madre in cui annuncia di aver messo la testa a posto, essersi trovata un lavoro e una casa, e invita il figlio ad andare da lei. I parenti putativi lo lasciano libero di decidere e lui ritorna fra le braccia amorose della mamma. In una dichiarazione il regista cita il gravissimo problema delle 900 mila persone costrette a vivere all’aperto, ma, stando al film, il suo interesse si limita a questa citazione. Quello che scorre sullo schermo è un melodramma strappalacrime, appena aggiornato rispetto ai classici anni cinquanta, stile Raffaello Matarazzo: solo per citare qualche titolo Chi è senza peccato (1952), I figli di nessuno (1951), Catene (1949). . Grandi pianti in sala, mitigati da qualche indignazione per il facile sfruttamento di sentimenti basilari e per lo scudo che il regista si fa con una tragedia infantile. Gli attori (Guillaume Depardieu, Max Bassette de Malgravie, Judith Chela) sono assai poco credibili nei ruoli di poveri brutti, sporchi e cattivi. In poche parole un film ruffiano che ha qualche possibilità di essere amato dal pubblico, forse anche da quello italiano, ma che rimarrà nella memoria ben pochi spettatori.