Festival di Cannes 2005

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Festival di Cannes 2005: una buona, ordinaria amministrazione

sito ufficiale: http://www.festival-cannes.fr/
Image La cinquantottesima edizione del Festival si è svolta all'insegna di una tranquilla conferma di talenti già consolidati, nel senso che, se nessun film in programma ha indignato per bruttezza, non c'è stato neppure l'opera che ha primeggiato su tutte le altre in modo indiscutibile.
Il francese Lemming (nome di un piccolo roditore lappone) di Dominik Moll è un groviglio in cui s’intrecciano storie d’amore, fantasmi, torme d'animali migranti. Il senso dovrebbe essere quello della forza dei legami profondi, anche a costo di delitti, veri o sognati. Il risultato è un film oscuro, lungo e abbastanza pasticciato.
Bashing (L'emarginata) del giapponese Kobayashi Masahiro prende di petto un problema terribile. Tratto da un fatto di cronica racconta le vessazioni, la vera e propria emarginazione violenta a cui è sottoposta una volontaria andata in Iraq per dare un aiuto umanitario, rapita e liberata dopo grandi sforzi del governo nipponico. Al ritorno incontra una generale atmosfera d'odio, la licenziano, aggrediscono, colpiscono anche la sua famiglia, al punto che il padre si suicida. È un ritratto, di taglio quasi televisivo, su un’intolleranza che affonda le radici in antiche vocazioni imperiali e revansciste.
Klilometre Zero (chilometro zero) del curdo Hiner Saleem (Vodka Lemon, 2003) è un'opera più di pancia che di testa. Tutto è raccontato in flash back da una coppia di curdi emigrati a Parigi che stanno gioendo per la caduta di Saddam Hussein e ricordano le grottesche e drammatiche vicende che hanno dovuto attraversare durante la dittatura. L'asse del film è nel lungo viaggio che un giovane militare curdo, arruolato con la forza e la violenza, compie ritornando in patria per accompagnare, assieme ad un autista arabo, la salma di un suo connazionale ucciso al fronte. Il percorso è, ad un tempo, drammatico e grottesco con tanto di militari feroci, boriosi e stupidi, popolazioni martoriate, uccisioni immotivate. Sono i mesi della grande mattanza con i gas, perpetrata dagli uomini del dittatore di Bagdad ai danni di migliaia di civili inermi. Il film lascia perplessi per la forza polemica che non si piega ad alcuna seria riflessione. E' un manifesto, un grido di protesta e, come tale, non vuole sentire ragioni. Benedice la fine del sanguinoso tiranno, ma sembra quasi non preoccuparsi della macelleria che ne ha seguito la caduta. Più che comprensibile come urlo di dolore di un popolo, meno come quadro complesso di una realtà terribile.
Last Day è l'ultima fatica di Gus van Sant, vincitore con Elephant della Palma d'Oro 2003. La macchina da presa è puntata su Kurt Cobain, un musicista rock, morto in solitudine nel 1994, a soli 27 anni. Usando la solita imperturbabilità da entomologo, il regista segue le ultime giornate di vita di quest'artista. È un vero calvario fra deliri, fughe, sogni, lampi di genio musicale, il tutto immerso in un'atmosfera di droga e sesso. Il film convince meno del precedente, in quanto qui si sente ancor più il distacco fra il dramma e una qualsiasi situazione esterna al piccolo gruppo che s'autoisola e autodistrugge. La macchina da presa è mossa con bravura e, a tratti, freddezza chirurgica, anche se molti piani - sequenza sembrano persino compiaciuti nella loro lunghezza insistita.
Persino un autore mito per la cinefilia come Atom Egoyan ha fatto un passo indietro con Where The Truth Lies (Dov''è la verità), un buon prodotto da cinema americano degli anni cinquanta basato su un omicidio compiuto nel giro di un paio di famosi intrattenitori televisivi con qualche scheletro nell'armadio. Psicanalisi, suspence, girovagare fra i tempi e i personaggi, tutto è al servizio di un film solido, ben costruito, ma passabilmente non originale.
Election (Elezione) di Johnnie To segue la strada dei precedenti Breaking News (Edizione straordinaria) e Rudao Longhu Bang (visto a Venezia 2004): uno sguardo misurato quanto riguarda l'azione, almeno se rapportato ad altri film di genere, quanto quasi partecipe sulla società malavitosa. Qui siamo all'elezione, all'interno del consesso delle triadi di Hong Kong, di un nuovo capo. Due rivali si fronteggiano e la lotta sarà senza esclusione di colpi sino a che resterà un solo vincitore, quello che più confida nelle tradizioni e nel senso storico dell'organizzazione. È presuntuoso e inutile pretendere di valutare film come questo e gli atteggiamenti che sott'intendono (apparentante così simili a cere fascinazioni per i padrini) senza dominare abbastanza a fondo la cultura cinese. Partendo da questa confessione di relativa impotenza resta da apprezzare la forza professionale della costruzione, la misura delle sequenze che non eccedono mai nel senso di una sovrabbondanza d'effetti speciali e la capacità di costruire un racconto che emozionalmente tiene dal primo all'ultimo minuto. Un film che si vede con piacere, ma che lascia per pressi e fa venire voglia di saperne di più, il che non è poco.
Cachè (Niente da nascondere) segna il ritorno di Michael Haneke a quel cinema forte, perfetto nella confezione cui ha segnato gli anni inizi della sua carriera nel lungometraggio, dopo un lungo, fortunato periodo di lavoro nella televisione austriaca. Una fase aperta nel 1989 con Der Siebente Kontinent (Il settimo continente) e sostanzialmente conclusa con 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, 1994). Dopo questo periodo ha avuto la possibilità di lavorare su grandi coproduzioni europee che, se gli hanno offerto un campo d'ampio respiro, hanno anche insidiato la sua purezza stilistica. Con questo film ritorna alle origini, alle opere intessute di una violenza psicologica estrema - quasi mai una goccia di sangue ma atmosfere feroci che suonano condanna all'impotenza, all'indifferenza e alla grettezza che si nascondono sotto i panni perbenisti della società opulenta. I suoi personaggi appartengono, di solito, alla borghesia medio - alta, nascondono segreti inconfessabili, provano sensi di colpa nei confronti dei figli che, da parte loro, li contraccambiano con altrettanta indifferenza e odio. È la situazione in cui si viene a trovare anche Georges, raffinato giornalista televisivo, conduttore di uno stimato salotto letterario che, di colpo, si trova al centro di una vera e propria persecuzione: gli arrivano a casa con cadenza sempre più ravvicinata lunghi video che riprendono in campo fermo la sua casa, la fattoria in cui è nato, disegni dal taglio infantile grondanti sangue. Non sa da chi arrivano, né che cosa vuole il misterioso mittente. Lentamente le cose quasi arrivano a chiarirsi e tutto sembra fare capo ad un episodio accaduto nell'infanzia del protagonista, quando, nel pieno della guerra d'Algeria, la polizia parigina massacrò oltre duecento immigrati colpevoli solo di manifestare per l'indipendenza della loro patria d'origine. In quell'anno, il 1961, ancora bambino, diede a suo modo una mano alla repressione, impedendo l'adozione di un piccolo orfano di una coppia sparita nel vortice repressivo. Un gesto che condannò il piccolo ad una vita di miseria e di soggezione culturale. Quell'antica colpa chiede ora il suo risarcimento e ad esigerlo saranno proprio suo figlio e quello della vittima di allora. Il film ha una struttura compatta, intelligente che lascia allo spettatore ogni giudizio; persino il disvelamento finale degli autori della congiura ha i toni di una possibilità fra molte altre. Ciò che è chiaro è la denuncia della responsabilità di chi crede d'essere al riparo da tutto solo perché fortunato di nascita o di condizione sociale. Il tema della colpa per le sofferenze del mondo e le responsabilità verso gli emarginati è una sorta di filo rosso che ritorna nel lavoro di regista e rende grande e commuovente anche questo bel film.