Festival di Cannes 2007

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Festival di Cannes 2007 - Giorno per giorno.
16-27 maggio 2007

sito ufficiale: http://www.festival-cannes.fr/

 sito ufficiale: http://www.festival-cannes.fr/
Image Mercoledì 16 maggio – Primo Giorno. 
Il Festival del Cinema di Cannes compie sessanta anni. Non sono pochi per una manifestazione cinematografica, anche non costituiscono un record visto che, per esempio, La mostra di Venezia di anni ne ha tre di più. Con lo spirito, orgoglioso e nazionalista che contraddistingue i francesi c’era da aspettarsi un’edizione grandiosa e così e stato. Alle molte sezioni che contraddistinguano questa manifestazione si è aggiunto un omaggio al sessantesimo, comprendente, fra gli altri Centochiodi di Ermanno Olmi, ed è stata notevolmente rimpinguato il capitolo dei classici del cinema, una sezione nata in sordina alcuni anni or sono e che, quest’anno allinea ben 24 titoli. Ovviamente anche l’apertura ha avuto toni solenni e grandiosi con decine di registi e attori arrivati qui per l’occasione e una grande festa riservata a qualche migliaio di fortunati sulla cresta della fama. Anche il programma, è la cosa che più ci interessa, sembra essere stato compilato con cura e con un giusto equilibrio fra nomi e titoli di richiamo (Joel e Ethan Coen, Gus Van Sant, Quentin Tarantino, Alexander Sokurov, Catherine Breillat, Emir Kusturica, Denys Arcand), autori di culto (Kim Ki-duc, Wong Kar Wai, Julian Schanbel, Béla Tarr, Ulrich Seidl) e nomi decisamente meno noti fra i quali persino due esordienti (la franco-iraniana Marjane Satrapi e il francese Vincent Paronnaud autori del disegno animato Persepolis).
Il film d’apertura, My Blueberry Nights (Un bacio romantico, traduzione letterale: Le mie notti al mirtillo), porta la firma del cinese Wong Kar Wai, un autore che si affermato come uno dei maggiori cantori dell’amore nei nostri tempi. A lui si devono quel piccolo capolavoro sulle relazioni omosessuali che è Happy Together (1997) e quella straordinaria storia d’amore, sognato più che consumato, che è In the Mood for Love (2000). Questa sua ultima fatica, il primo film che ha girato negli Stati Uniti, ruota ancora sui temi dell’amore, anche se lo fa con una struttura narrativa più lineare rispetto a quelle che segnavano le lue opere precedenti. Elizabeth, dopo essere stata abbandonata dall’uomo che ha amato per molti anni, incontra un barista – filosofo che conserva in un vaso le chiavi che gli sono state affidate dagli amanti separati, tra cui la sua. E’ una sorta di emblema dei corsi e ricorsi delle storie d’amore, delle difficoltà e degli strazi per separazioni che sembrano insopportabili. Tale è anche quella della donna che, per dimenticare, inizia una sorta di giro degli Stati Uniti che la porta, prima a Memphis, poi in Nevada. In ciascuna di queste tappe incontra storie d’amore disperate: il poliziotto abbandonato dalla moglie che si uccide, la giocatrice di poker che nasconde un rapporto difficile con il padre che non vede da anni. E’ percorso che serve, soprattutto, come autocoscienza e accettazione del lutto legato all’abbandono.Il cerchio si chiuderà con il ritorno fra le braccia del barista che, nel frattempo, avrà superato, anche lui, il ricordo dell’amore perduto. Ora i due potranno guardare avanti e, forse, iniziare una nuova storia. Il film è stilisticamente molto bello, privilegia i paesaggi notturni, come nelle preferenze di questo regista, e ha uno sviluppo narrativo tradizionale. Questo è l’elemento di maggiore novità nel modo di fare cinema di un autore che predilige i salti temporali e la descrizione degli effetti più che la rappresentazione dei fatti. Un procedere pià lineare che, in qualche misura, fa perdere fascino al film, anche se gli fa guadagnare in leggibilità immediata. In definitiva un’opera di valore.
Giovedì 17 maggio – Secondo Giorno.
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4 mesi, 3 settimane e 2 giorni

Le cinematografie dei paesi ex – socialisti si stanno lentamente imponendo all’attenzione di critica e pubblico. E’ un risveglio lento causa le enormi difficoltà economiche incontrate da queste nazioni, ma se ne iniziano a vedere i frutti. 4 luni, 3 saptamini, 2 zile (4 mesi, 3 settimane e 2 giorni) del rumeno Cristian Mungiu è uno di questi ottimi prodotti. E’ uno di quei film in cui la storia conta assai poco e si può rinchiudere in poche parole: una giovane donna deve abortire e chiede ad una sua amica di assisterla, l’intervento è fatto in una camera d’albergo e va a buon fine. Nessun evento straordinario, ma una piccola tragedia in un paese in cui - nel 1987, anno in cui la storia è ambientata - l'interruzione clandestina di gravidanza è considerata un reato grave e punita severamente. Alla caduta del regime, due anni dopo, si calcolò che negli anni in cui il regime vietava l’aborto, per avere a disposizione una mano d’opera abbondante, più di un milione di donne l’anno sono ricorso alle pratiche clandestine. Questo è importante, ma è ancora un dato sociologico, ben più significativa è la descrizione dei rapporti che s’instaurano fra le due donne, il fidanzato di una di loro, il sanitario che pratica l’interruzione di gravidanza pretendendo, in cambio, che entrambe facciano l’amore con lui prima dell’operazione. E’ un quadro variegato e cesellato sin nei dettagli da cui emerge un quadro sociale e umano disperato, contornato da un panorama di miseria, abbandono, disgregazione. Un film molto bello e dalla forte struttura narrativa.
Giusto l’opposto dell’altro film in concorso visto in queste ore: Zodiac dell’americano David Fincher (Alien 3, 1992 - Fight Club, 1999 - Panic Room, 2002). Partendo da un romanzo – inchiesta di Robert Graysmith, il regista racconta l’infruttuosa caccia ad un serial killer che inizia ad uccidere nel 1969, se non prima, continua per tutti gli anni settanta e non sarà mai identificato con certezza. Sulle sue tracce si mette un disegnatore del giornale San Francisco Chronicle e arriva ad identificare, senza prove certe, l’assassino seriale in un ex – militare.
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I personaggi sono quelli realmente esistiti (alla fine si racconta, come nella migliore tradizione, che cosa è successo loro negli anni seguenti) i fatti quelli realmente accaduti. Ma i pregi del film, che esce a giorni anche nelle nostre sale, si fermano a questo punto. Lo stile narrativo è tradizionale, gli sviluppi psicologici prevedibili, la storia già vista mille volte, i riferimenti sociali del tutto inesistenti. Un buon film commerciale che ha davvero pochi titoli per figurare nelle scelte di una grande festival di cinema.
Venerdì 18 maggio – Terzo Giorno.
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E’ proprio vero che le cinematografie dei paesi ex – socialisti sono una vera fucina di autori e opere di rande rilievo. Dalla Russia è arrivato in concorso Izgnanie (L’esilio), secondo lungometraggio di Andrei Zviaguintsev il cui film d’esordio, Vozvrashcheniye (Il ritorno, 2003) ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. Sono molti gli elementi stilistici che uniscono queste due opere, anche se la seconda raggiunge solo in parte il fascino della prima. Innanzitutto c’è una fotografia al limite della perfezione, con una netta predilezione per i colori marci, la pioggia, le atmosfere cupe. Poi c’e una forte attenzione ad un ritmo lento nel raccontare e la preferenza per gli effetti psicologici piuttosto che per l’esibizione d’immagini scioccanti. La storia, liberamente desunta dal racconto Cose da ridere di William Saroyan (1908 - 1981), ruota attorno a due fratelli, uno dei quali ha un presente piuttosto oscuro, e la moglie del secondo. Durante un breve soggiorno nella casa di famiglia, riaperta per l’occasione dopo essere stata chiusa per anni, la donna confessa al marito di essere in cinta e di attendere un figlio non suo. L’uomo rimane scioccato e la induce ad abortire facendosi aiutare dal fratello. La donna muore o, forse si uccide, dopo l’intervento e solo allora il marito viene a sapere che il figlio era suo e che lei gli aveva mentito oppressa da un rapporto coniugale esaurito e disperante. Se la vicenda non è originale, la forza del film è sia nella bellezza delle immagini, sia nella raffinatezza dell’indagine psicologica. Se non si arriva alla compattezza stilistica e narrativa del film precedente, ci si colloca, tuttavia sua un livello decisamente alto.
E'’ stato presentato anche il primo film francese in concorso e l’accoglienza è stata tutt'altro che entusiasta. Les Chansons D’Amour (Le canzoni d’amore) porta la firma di Christophe Honoré, la cui opera precedente, Ma Mère (Mia Madre, 2003), aveva fatto discutere per il clima incestuoso che vi circola. Fedele a questa voglia d’épater les bourgeois, la nuova fatica mette in scena una girandola di relazioni, prevalentemente omosessuali e lesbiche, che coinvogono un affascinante giornalista, la cui fidanzata muore improvvisamente d’infarto. Il giovane non riesce a darsi pace, finendo per trovare un porto sicuro fra le braccia accoglienti di un giovinetto. Visto che già da prima la coppia viveva un ménage à trois con una procace collega dell’uomo, attratta più dalle grazie della sua compagna che dalla sua virilità, si capisce come il film approdi ad una sorta di inno nei confronti degli amori omosessuali. La struttura stilistica mescola recitazione a canzoni composte per l’occasione, come già aveva fatto, molti anni prima, Alain Resnais (On connaît la chanson– Parole, parole, parole, 1997) che, tuttavia, si era avvalso di liriche famose. Il risultato è decisamente modesto, in particolare per la pochezza canora degli interpreti.
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Ha preso il via anche la sezione Un Certain Regard che serve tradizionalmente ai selezionatori sia per collocare le opere che vogliono prendere, ma non intendono mettere in concorso, sia per presentare testi considerati troppo avanzati per il grande pubblico. Diciamo subito che l’apertura non è stata al livello della tradizione, con due titoli decisamente minori. Le Voyage du Ballon Rouge (Il viaggio del pallone rosso) del taiwanese Hou Hsiao Hsien prende spunto dal film omonimo diretto, nel 1956, da Albert Lamorisse in cui un palloncino sorvola Parigi mostrandocene i lati più originali, realistici o romantici. Questa volta la sfera volante segue il piccolo Simon, la cui madre è una marionettista (nel film compare anche l’anziano maestro delle marionette cui il regista aveva dedicato, nel 1993, uno dei suoi capolavori) che sta prerando un nuovo spettacolo. Totalmente assorbita dall’incarico, la donna preferisce affidare il figlioletto ad una studentessa di cinema cinese, arrivata in Francia per perfezionare gli studi. Nel film non capita quasi nulla, se non le piccole cose che segnano la vita di tutti i giorni, secondo una predilezione al quotidiano di questo cineasta. Solo che, sradicato dalle sue origini e piombato in una realtà aliena alla sua cultura, finisce per comportarsi come un turista affascinato dal panorama in cui è immerso, ma incapace di analizzarlo o utilizzarlo in modo realmente creativo. E’ andata ancora peggio con La Naissance des Pieuvres (La nascita delle piovre) della francese Céline Sciamma che ci infligge l’ennesima radiografia dell’adolescenza femminile, con tanto di pulsioni lesbiche, curiosità sessuali, pruriti vari. Protagoniste tre ragazze che ruotano attorno ad una scuola di nuoto sincronizzato e che si contendono i maschi più appetitosi non rinunciando a qualche incursione nell’amore omosessuale. Un film banale al limite dell’insopportabile.
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Non è un paese per vecchi
Sabato 19 maggio – Quarto Giorno
I fratelli Joel e Ethan Coen sono fra gli abituè del Festival di Cannes. Qui hanno presentato quasi tutti i loro film, ottenendone recensioni entusiastiche e ottima accoglienza di pubblico. Stando alle reazioni alla proiezione stampa, questo non è il caso di No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi), ultima loro fatica tratta da un libro, pubblicato nel 2005 negli Stati Uniti e nel 2006 in Italia (Einaudi), di Cormac McCarty. Alla frontiera fra Texas e Mexico un cacciatore pensionato scopre i resti di un regolamento di conti, con tanto di auto crivellate di proiettili, cadaveri in abbondanza e una montagna di droga. Trova anche una valigetta piena di dollari, la prende e fugge. Preoccupato per la sorte dell’unico sopravvissuto, ritorna sul luogo del massacro per portargli almeno un po’ d’acqua, ma qui iniziano i suoi guai. Scoperto è inseguito dai trafficanti di droga e braccato da un paio di killer, uno dei quali – è la trovata migliore del film – disumano, cinico e violento più del peggior mostro cinematografico. Il filo conduttore lo offre un anziano sceriffo, anche lui alla vigilia della pensione, che segue l’intera vicenda non riuscendo né a salvare il fuggitivo, né a recuperare il denaro, né ad arrestare lo spietato assassino. Il film è molto ben costruito e solido, ma manca di quel soffio di follia che rendeva straordinari i film precedenti di questi autori, da Simple Blood (Sangue Facile, 1984) a Barton Fink (Barton Fink - È successo a Hollywood, 1991), da Fargo (1996) a The Big Lebowski (Il Grande Lebowski, 1998). Il taglio melanconico del libro e del film non si mostra congeniale a questi due autori che, lo ripetiamo, si muovono su un livello professionale altissimo, ma dimostrano, in questo caso, meno fantasia che in passato. Michael Moore, dopo aver denunciato i drammi causati dalla diffusione delle armi ai privati (Bowling for Colombine, 2002) e le complicità della presidenza Bush con i traffici petroliferi (Farenheit 9/11, 2004), si è dedicato ai problemi causati alla salute degli americani dalla privatizzazione del sistema sanitario.
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Sicko
Ne è nato un nuovo, forte documentario - Sicko, presentato fuori concorso - che parte dai tentativi – quasi sempre riusciti – delle società di assicurazione di negare cure e rimborsi agli ammalati, anche a costo di causarne la morte, si prosegue con il dramma della sanità per gli indigenti e si conclude con un vero e proprio schiaffo: la visita e la cura, in un ospedale cubano, ai volontari che hanno lavorato alla ricerca di superstiti e salme dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Uomini e donne coraggiosi e altruisti, che hanno contratto gravi malattie, cardiache o respiratorie, causa la loro abnegazione e che ora nessuno vuol curare. Saranno i medici de L’Avana a curarli e a restituire loro un minimo di speranze di vita normale. Prima c’erano state le visite ai sistemi sanitari canadese, inglese e francese di cui il regista magnifica la funzionalità e generosità in rapporto a quello nordamericano. Il film è, come il solito, forte e parziale nella denuncia, contrappone paradisi più teorici che reali ad un vero inferno, un sistema che ha abbandonato qualsiasi parvenza di socialità per farsi occasione di profitto. E’ un’opera senza mezze misure: o si accetta o si respinge. A nostro avviso sono molte più le ragioni per accoglierla e farsene commuovere che non per respingerla.
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Magnus
Il programma di Un Certain Regard, l’altra sezione ufficiale del Festival continua a deludere. Nelle ultime ore si sono visti Magnus, dell’esordiente estone Kadri Kõusaar, e L’avocat de la Terreur (L’avvocato del terrore) del regista e produttore francese Barbet Schroeder. La regista estone esplora i difficili rapporti fra un ragazzo e il padre, gaudente, trafficante di droga e impresario di spettacoli pornografici. Il ragazzo dà chiari segni di disagio, ma il genitore non trova di meglio che lasciarlo correre verso il suicidio. Il film descrive una società e rapporti familiari esplosi al contatto, dopo il lungo bagno nel socialismo reale, con il capitalismo selvaggio. E’ un panorama disperante, un pauroso deserto di sentimenti e coscienza. Lo stile ricalca quello sporco e marcio adottato da molte cinematografie ex – esteuropee, dopo la caduta dei vari regimi. In questo c’è davvero poco di nuovo e gli elementi originali – l’ambiente della pornografia, la corsa all’acquisto, la fine di qualsiasi morale – finiscono travolti da una montagna cose già viste.
La figura dell’avvocato Jacques Vergès è al cento del film di Barber Schroeder. Un personaggio singolare, passato dal maoismo e dall’anticolonialismo, alla difesa dei terroristi palestinesi e di quelli della RAF tedesca, siano ad approdare a quella di personaggi come il nazista Barbie, negazionista Roger Garaudy, il presidente del Togo Gnassingble Eyadema, accusato da Amnesty International di orrende torture, e il serbo Slobodan Milošević. Un personaggio inquietante che sembra mettere il proprio ego sopra ogni cosa e accettare anche le posizioni più difficili e contraddittorie per puro spirito polemico. Il film non va oltre il bel documentario, perfetto per una messa in onda televisiva, ma molto al di sotto di quanto richiesto in una grande rassegna cinematografica.
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Respiro
Domenica 20 maggio – Quinto Giorno.
La competizione 2007 inizia ad allineare qualche carta interessante. Dopo No Country for Old Men (Non è un paese per vecchi) di Joel e Ethan Coen, ecco un altro autore abbonato ai programmi delle grandi rassegne cinematografiche: il sud coreano Kim Ki-duk, autore di film straordinari come Seom (L’isola, 2000) e Bin-Jip (Ferro 3, 2004). La sua ultima opera s’intitola Soom (Respiro) e ruota attorno a due storie d’amore. Una è nettamente eterosessuale e nasce da una sorta di triangolo fra una scultrice tradita dal marito musicista che decide di darsi ad un condannato a morte. L’altra, di taglio omosessuale, coinvolge il detenuto e l’amore che ispira ad un altro carcerato. La donna, quando scopre l’ennesimo tradimento del marito, si vendica andando a trovare un condannato per omicidio, ha ucciso moglie e figli, che ha tentato più volte il suicidio e sta per essere giustiziato. Il rapporto avviene sotto la telecamera manovrate dal direttore del carcere, un sadico voyeur interpretato, cosa molto importante, dallo stesso regista. Quando il marito abbandona l’amante e si pente, la moglie vuole vedere per l’ultima volta il detenuto e fare l’amore con lui. Dopo, la famiglia si ricompone e la serenità sembra essere tornata. Tuttavia il condannato sarà ucciso da un compagno di cella che lo ama e non sopporta il suo legame con la donna. Il film contiene il meglio del cinema di questo regista: una rara maestria nel girare, una fotografia gelidamente magnifica, un accumulo di dettagli che finiscono col costruire straordinarie metafore. Ne sono un esempio le foto – tappezzeria che la donna applica ai grigi muri del parlatorio, trasformandolo, di volta in volta, in uno scenario primaverile, estivo, autunnale. Un soffio di libertà, artificiale, entro le mura opprimenti della prigione. Un’altra grande trovata simbolico – narrativa è il mutismo dei due personaggi principali: lui perché si è danneggiato la laringe nel corso di un tentativo di suicidio, lei che, tranne spunti canori, tace per scelta. E’ un tipo di film che cresce dentro lo spettatore giorno dopo giorno, facendoli scoprire sempre nuovi dettagli.
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Salmi
Altra buona scelta è stata quella di mettere in concorso Tehilim (Salmi) del francese Raphael Nadjari. Una famiglia di Gerusalemme vive una vita ordinaria, rispettosa dei canoni religiosi. Un giorno il padre ha un incidente d’auto, mentre porta a scuola i sue figli. All’arrivo dei soccorsi l’uomo è scomparso. Per la famiglia, in particolare la moglie, inizia un’esistenza drammatica fra difficoltà economiche, pressione del suocero ultrareligioso e incomprensioni varie del figlio maggiore. In poche parole è una lunga elaborazione del lutto, travagliata e priva di lieto fine, ma che approda alla consapevolezza della necessità di vivere la vita come si presenta, affrontando dolori e difficoltà come si è capaci. E’ un piccolo film che trova i suoi punti di forza nell’interpretazione della madre (Limor Goldstein) e dei due figli (Michael Moshonov e Yonathan Aster) e nell’analisi psicologica.
Il Festival, per celebrare il 60mo anniversario, ha coprodotto un film a più voci (35 registi) composto di 33 episodi, di tre minuti ciascuno. Tema comune: la sala cinematografica. Vi compaiono quasi tutti i grandi nomi della cinematografia contemporanea, con risultati, come capita in casi del genere, diversi per qualità e invenzione. Si va dall’omaggio - Theo Angelopoulos lo rende a Marcello Mastroianni, mettendo a confronto il monologhi de La notte (1961) di Michelangelo Antonioni con l’immagine sotto lo schermo del suo O'Melissokomos (Il volo, 1986) - alla trovata feroce - i fratelli Coen che presentano un caw boy incerto davanti a un cinema che proietta La Règle du Jeu (La regola del gioco, 1939) di Jean Renoir e Il piacere e l'amore di Nuri Bilge Ceylan - al ricordo autobiografico - Claude Lelouch che rivive l’amore dei suoi genitori nato durante la visione di un film con Ginger Rogers e Fred Astaire - alla riflessione di Nanni Moretti, che ricorda le sue impressioni di spettatore, e via elencando. A noi l’episodio che più è piaciuto è quello di Takeshi Kitano che ci mostra uno scalcinato cinema per contadini in cui i film sono proiettati a pezzi fra cento interruzioni.
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La visita della fanfara
La sezione Un Certain Regard ha presentato il secondo film di Valeria Bruni Tedeschi (Actrices – Attrici) e Bikur Hatizmoret (La visita della fanfara) dell’israeliano Eran Kolirin. Del primo avremmo fatto volentieri a meno, visto che si tratta dell’ennesima storia, con riferimenti autobiografici, su un’attrice quarantenne che piomba in crisi, mentre sta interpretendo una nuova versione di Un mese in campagna (Mesiats v Derevne, 1850) di Ivan Turgenev (1818 - 1883), diretta da un regista, forse omosessuale, sicuramente tendente all’egocentrismo e all’isteria. Isteria che non manca neppure nel comportamento dell’attrice, perennemente ossessionata dalla mancanza di un marito e di un figlio. Il film non dice nulla di nuovo e ruota, sino al fastidio, attorno alla figura dell’attrice – regista che non ci risparmia neppure una delle mossette e stralunamenti che l’hanno resa famosa. Molto meglio la produzione israeliana che racconta le disavventure di una banda musicale della polizia egiziana in visita in Israele e che, per un pasticcio burocratico, anziché al luogo designato finisce in un paesino nel mezzo del deserto. Ovvi malintesi e difficoltà di comprensione con i locali e una generale atmosfera di malinconia condita da una piacevole ironia.
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Import / Export
Lunedì 21 maggio – Sesto Giorno.
Ulrich Seidl non ama né l’Austria, il suo paese, né i suoi concittadini. Si era capito sin dai film precedenti, come Hundstage (Giorni torridi, 2001) in cui presentava uno spaccato significativo della società realizzato attraverso una serie di situazioni e personaggi colti in un condominio viennese in piena canicola. Con Import Export, presentato in concorso, si è capito che non gli è simpatico neppure il resto dell’umanità. I movimenti cui allude il titolo sono quelli di persone fra l’Europa ex – comunista e l’Austria. L’infermiera Olga sopravvive a malapena con il figlioletto e l’anziana madre in una città dell’Ucraina. L’ospedale in cui lavora la paga poco e a singhiozzo, la casa che abita è più un rudere che una vera abitazione. Per arrotondare lo stipendio lavora per una televisione erotica prestandosi a posizioni e atti osceni a comando dei clienti tedeschi e austriaci. Per migliorate la sua condizione emigra a Vienna dove lavora, prima, per una ricca famiglia, da cui è cacciata non appena mostra un minimo d’indipendenza, poi per una ditta di pulizie che cura il reparto geriatrico riservato ad ammalati cronici e lungodegenti. Paul, invece, è un giovane austriaco impiegato come sorvegliante in un centro acquisti, ma è cacciato, quando un gruppo di teppisti lo aggredisce e umilia. Per sfuggire a creditori va a lavorare con il padre che trasporta macchinette da bar dall’occidente ai paesi dell’ex – est. Anche lui finirà disgustato del mondo che incontra e delle miserabili avventure erotiche del padre. In altre parole, a detta del regista tutto il mondo sarebbe un’immensa fogna da cui è impossibile evadere. Inoltre, la dominante è la vecchiaia, vista come orribile passaggio e la morte quale finale inevitabile per un’esistenza inutile. Tutto questo è comprovato da immagini terribili di vecchi dementi, uomini e donne incapaci di controllare le più elementari funzioni corporali, ragazze in fiore costrette ad assumere posizioni sconce per pochi euro, bruti violenti che non perdono occasione per picchiare, umiliare, distruggere. Un inferno registrato con freddezza e, in qualche caso, persino con un pizzico di compiacimento come la lunga scena, in prefinale, in cui il padre obbliga il figlio ad assistere alle umiliazioni che infligge ad una giovane prostituta, che non più nemmeno in grado di capire quanto sia sordido e disumano ciò che la costringono a fare. Questo è il punto che meno convince nel film, vale a dire il sospetto, forte e più che fondato, che la disperazione e il giudizio apocalitticamente negativi sull’umanità, nascondano un imperdonabile compiacimento. Come dire, che si mostrino immagini orribili e si costruiscano situazioni scioccanti non per denunciarne la gravità, quanto per il gusto di sollecitare i peggiori istinti del pubblico. Sospetto legittimano anche dall’insistenza e la ripetitività di situazioni e scene.
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Paranoid Park
Gus Van Sant è fra gli autori abbonati ai grandi festival. A Cannes ha vinto la Palma d’Oro 2003 con Elephant, oggi ritenta la sorte con Paranoid Park, tratto dal romanzo omonimo di Blake Nelson. La storia coinvolge un gruppo di adolescenti che praticano lo skate board in un’apposita pista collocata in un parco di Portland che loro hanno ribattezzato Paranoid Park. Uno di loro causa, accidentalmente, la morte di un sorvegliante ferroviario e cade in una crisi profonda che il regista segue con freddezza e che non ha soluzione. Il film potrebbe essere il ritratto di una gioventù privata di qualsiasi punto di riferimenti – la famiglia esplosa, la scuola incapace di offrire altro se non nozioni tecniche – che si rifugia nei rituali di gruppo per cercare un qualsiasi ancoraggio. Come in Elephant la comunità chiusa degli amici offriva un orizzonte certo, ma che portava alla strage, qui l’adesione agli skaters consente, seppur a prezzo di un greve crimine, un approdo falsamente sicuro. Il regista non esprime giudizi, non prende parte, guarda a questi ragazzi come un chimico osserverebbe i microrganismi dall’oculare di un microscopio. Non a caso la scena finale si svolge proprio in un laboratorio scolastico in cui gli studenti sono invitati ad osservare una goccia d’acqua ingrandita. E’ una posizione, morale ed estetica, che non convince. Si ammira la perfezione delle immagini e la geometria della costruzione narrativa, ma si rimane come bloccati dal senso di gelo che pervade l’intera costruzione.
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Montagna cieca
La sezione Un Certain Regard ha presentato un interessante film cinese: Mang Shan (Montagna cieca), diretto e sceneggiato da Yang Li. Il tema è quello delle giovani donne vendute a famiglie contadine e destinate ad andare spose ai figli scapoli. Tale è la sorta di Bai, una ragazza appena diplomata attirata nel nord della Cina con la promessa di un lavoro remunerato nel campo delle erbe mediche e finita schiava di una famiglia e di un villaggio sperduto fra i monti. Vani saranno i tentativi di fuga complici le autorità locali, impotenti, complici o paurose le forze di polizia. La sola soluzione sarà l’uccisione del marito padre e padrone, che, fra l’alto, l’ha anche costretta a fare un figlio. Il film affronta un problema socialmente grave e lo fa con un taglio da classico film carcerario, solo che qui le sbarre sono quelle di una comunità retrograda e una cultura semifeudale. La scelta di chiudere con un gesto di ribellione illegale, anziché con il classico arrivano i nostri (la polizia, la magistratura, il partito, scegliete voi) la dice lunga sulle tensioni che si nascondono, in questo come in altri campi, sotto la coperta del partito comunista che tutto controlla e tutto dirige. Anche solo per questo, il film merita un’attenzione particolare.
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Luce silenziosa
Martedì 22 maggio – Settimo Giorno.
Il concorso ha presentato due autori molto attesi, ma che hanno confermato le debolezze già notate nelle opere precedenti. Il primo è il messicano Carlos Reygadas, che parte della critica stima sin dall’esordio con Japón (2002) e dall’opera seconda, vista a Cannes 2005, Batalla en el cielo (Battaglia in cielo). Il suo terzo film s’intitola Stellet Licht (Luce silenziosa) e si svolge nella comunità Mennonita messicana, una filiazione del movimento anabattista, nato in Svizzera nel 1500 e diffuso in centro Europa, Russia, America del nord (gli Amish) e in alcuni paesi di quella del Sud. Sono credenti che, nelle versioni più radicali, rifiutano ogni forma di modernizzazione; non accettano l’elettricità, le automobili, il telefono e la televisione. Quella in cui si svolge il film è una comunità moderata che ammette elettricità e automobili, ma non è meno salda nella fede. E’ qui che le tensioni esplodono, quando Johan, sposato con sei figli, s’innamora di Marianne, lo confessa alla moglie Ester e tenta, inutilmente, di dimenticare la donna che ama. Passano i mesi e le tensioni familiari si acuiscono sino ad esplodere in tragedia: travolta dalla tensione Ester muore d’infarto. L’amante si presenta alla veglia funebre, bacia la salma e questa rivive. Ora la famiglia può ritrovare la serenità di un tempo. Il film è girato con una stile volutamente lentissimo, per capirci se la sequenza rappresenta la famiglia al tavolo della prima colazione, il tempo del film coincide con quello che, presumibilmente, scorrerebbe nella vita vera. La mette l’accento sui dettagli, anche quelli minimi, come dimostra la lunghissima sequenza della minuziosa preparazione della salma per la cerimonia funebre. Questo respiro lento si accompagna ad una fotografia molto raffinata, tesa a trasformare panorami rurali e interni in veri e propri quadri. Laddove il film non convince è in una visione salvifica della fede e nella mancanza di una qualsiasi collocazione storico - sociale di questa comunità, che vive in una nazione che parla spagnolo, ma continua a esprimersi in plautdietsch, un dialetto germanico simile all’olandese medioevale e al fiammingo. Il ritmo lento, inoltre, finisce per sconcertare lo spettatore più che indurlo alla riflessione o, meglio, alla contemplazione. Una parte della critica continua a considerare Quentin Tarantino un grande regista. Ci sia permesso non concordare, a noi sembra che questo autore sia un geniale artigiano che ha trasformato la passione per il cinema di serie B in fenomeno alla moda.
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Prova mortale
La conferma di questa presa di distanza è motivata anche da Death Proof (Prova mortale), una produzione nata male (all’inizio doveva essere una delle due parti di un progetto che coinvolgeva anche Robert Rodriguez) che ha molto scontentato la critica americana. Il punto di partenza sono i B movie degli anni settanta pieni di pin – up, corse in auto e chiacchiere falso pruriginose. La flebile traccia narrativa è offerta da un malvagio cascatore cinematografico che, alla guida di un’auto superpotente, massacra, nella prima parte, quattro ragazze belle e disinibite, mentre è pestato a sangue, nella seconda, da altre quattro fanciulle fascinose e decise. Uscendo dalla proiezione qualche collega parlava di film da studiare pezzo per pezzo in quanto ad ogni passo ci s’imbatte in un preciso modello di cinema. A noi è sembrato un grande pasticcio che allinea citazioni di genere senza minimamente tentare di collegarle in un discorso degno di senso. In poche parole un giochino poco geniale e molto orecchiato.
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Lo scafandro e la farfalla
Molto meglio la corretta rilettura che Julian Schnabel fa del volume Le Scaphandre et le Papillon (Lo scafandro e la farfalla) di Jean-Dominique Bauby, un giornalista e romanziere di successo colpito da una malattia rara che lo ha ridotto alla stato di vegetale. Contorto nel corpo, senza possibilità di parlare o muoversi ha dettato il libro a una segretaria, usando solo con il battito delle palpebre in corrispondenza al suono di vocali e consonanti lette secondo un ordine particolare studiato da una paziente logopedista. Il film ricostruisce dall’interno della mente, lucidissima, dell’ammalato le sensazioni, la rabbia, la disperazione, la speranza di un essere umano che, si addormenta fra terribili dolori, e si risveglia confinato in un letto senza più poter fare nulla. Il libro, uscito nel 1997, pochi giorni prima della morte dell’autore, è una testimonianza di voglia di vivere oltre ogni limite che la regia ricrea con immagini ora quasi informali, ora con bellissimi paesaggi di campagna e mare. Anche se non mancano i flash back, in ricordo della vita passata, il pregio maggiore del film è nel mantenersi saldamente ancorato al presente della malattia e alla lotta tenace, ma destinata alla sconfitta, per vincerla.
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La solitudine
La sezione Un Certain Regard ha presentato un film spagnolo, La soledad (La solitudine) di Jaime Rosales. Sono cinque ritratti femminili (una madre e le sue tre figlie più una divorziata arrivata a Madrid in cerca di lavoro) colti un crescendo di tensioni e dolori: la divorziata perde il figlio di pochi mesi in un attentato terroristico, una delle donne deve lottare con un tumore, la madre muore d’infarto, la piccola comunità è lacerata dalla possibilità che l’appartamento di famiglia sia venduto per consentire ad una delle figlie di comperare una casa di vacanza. Il regista ricorre, sistematicamente, alla divisione dello schermo in due parti a formare una sorta di doppia visuale della stessa sequenza. Se, ad esempio, da un lato ci sono i protagonisti a tavola, nell’altra porzione di schermo li vediamo entrare e uscire quando si alzano per andare in altre stanze. Un espediente non nuovissimo e che, soprattutto, non risponde ad una precisa ragione estetica. Come dire una trovata che, anziché rafforzare l’emozione, finisce per distrarre. In complesso più un film ricco di buone intenzioni che non un’opera realmente riuscita.
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L'uomo di Londra
Mercoledì 23 maggio – ottavo giorno.
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Béla Tarr è uno dei registi di punta del cinema ungherese e uno degli autori più interessanti a livello internazionale. Nonostante questi meriti e abbia diretto otto film dal 1977 ad oggi, nessuna sua opera è mai entrata nel circuito commerciale italiano. Per questo la comparsa de L’Homme de Londres (L’uomo di Londra) nel cartellone della competizione ha gettato nel panico molti critici che lo conoscono solo di nome. Il film è liberamente tratto dal romanzo omonimo (1933) di Georges Simenon (1903 –1989) e racconta di un casellante ferroviario che assiste ad un delitto, recupera una valigetta piena di soldi e finisce per commettere un omicidio. Il regista affronta la materia con il suo solito stile basato su lunghissimi movimenti di macchina (la prima mezz’ora è composta sa soli quattro piani - sequenza) e girando rigorosamente in bianco e nero. E’ un modo esasperato e affascinante di fare cinema che propone un’immagine della vita come insieme degradato, perennemente accigliato, violento, immerso in un grigiore senza vie d’uscita. Una posizione morale ed estetica che, in questo caso, scivola nella maniera, con brani la cui costruzione appare più ossequiosa di posizioni teoriche che non di una vera necessità estetica. Vero è che il film ha avuto lunghissime e difficili vicende produttive che ne hanno intralciato e allungato i tempi di realizzazione, ma il vero problema non è tanto in alcune incongruenze narrative, quanto proprio in un’ispirazione rallentata, non meno del ritmo delle sequenze.
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Dall'altra parte
Auf Der Anderei Seite (Dall'altra parte) del tedesco, d’origine turca, Fatih Akin mette molta carena al fuoco e, anche se complessivamente approda ad un bilancio positivo, lascia qualche perplessità proprio per la voglia di dire troppe cose. Il regista, alla quinta prova, dopo un bel documentario (Crossing the Bridge - The Sound of Istanbul, 2005) sui suoni e la musica di Istanbul e un film decisamente interessante (Gagen Die Wand - La sposa turca, 2003), affronta due storie che s’incrociano senza mai fondersi. La prima è quella di un pensionato d’origine turca, padre di un professore universitario di Amburgo, che decide di assoldare in modo permanente una prostituta turca e che, incidentalmente, la uccise. La seconda storia è quella della figlia della prostituta, militante di un movimento rivoluzionario. La giovane, costretta a fuggire dalla Turchia, approda a Brema, ove incontra una ragazza tedesca di cui diventa l’amante. Arrestata e rimpatriata, finisce in prigione. L’amica abbandona ogni cosa per andare a vivere ad Istanbul e starle vicino. Nel frattempo il professore tedesco, figlio dell’assassino di sua madre, decide di ritornare in patria e gestire una libreria di Istanbul che diventa il punto d’incrocio di tutte e le storie. Ad esse si aggiunge quella della madre della giovane tedesca che, quando la figlia è uccisa a seguito di un banale scippo, decide a sua volta di restare nella città turca per aiutare la giovane rivoluzionaria. Quest’ultima, nel frattempo, ha abbandonato la lotta armata ed è stata liberate. Come si vede i temi sono davvero tanti, si va di rapporti familiari, alla nostalgia per la terra d’origine, dalle questioni legate alla lotta armata a quelle collegate alla delinquenza di strada. Questa sovrabbondanza di argomenti finisce per appesantire il film, anche se non intacca la forte capacità del regista di raccontare storie drammatiche controllandole con mano ferma.
Image Marjane Satrapi è una vignettista iraniana che vive a Parigi e racconta storie del suo paese e della sua vita, disegnate quasi sempre in bianco e nero e con tratti semplici ed efficaci. Assieme al regista francese Vincent Paronnaud le hanno portate sullo schermo in Persepolis (Persepoli). È una proposta interessante e coraggiosa che racconta la storia di questa disegnatrice dall’infanzia, all’epoca dello Scià, all’arrivo di Ruhollah Khomeini, alla guerra con l’Iraq, al primo esilio a Vienna, al ritorno in patria sino all’esilio definitivo. Lo sguardo che ci offre sulla teocrazia del suo paese è impietoso e lucido (Il governo iraniano ha protestato ufficialmente con la direzione del Festival per la messa in programma del film) ma sempre nobilitato da una levità e un gusto favolistico che riesce a far sorridere anche nei momenti più tragici.
La sezione collaterale Un Certain Regard ha presentato un film velleitario e inutile e una buona inchiesta televisiva sul movimento cileno MIR. Il primo film s’intitola Mister Lonely (Signor solitario) e porta la firma dell’americano Harmony Korine, un cineasta, sceneggiatore e scrittore più attento a sorprendere lo spettatore, spesso con materiali decisamente disgustosi, che non a dire cose originali. Qui tutto ruota attorno ad un castello in cui si radunano vari sosia di personaggi dello spettacolo (Marilyn Monroe, Michael Jackson, Charlie Chaplin) e della vita politica (la regina d’Inghilterra, il Papa, Abramo Lincoln) per mettere assieme uno spettacolo del secolo che si rivelerà un fiasco. Parallelamente alcune suore volanti, grazie alla fede intensa, muoiono in un incidente aereo, mentre stanno andando dal Papa. Insomma, un pasticcio indigeribile e un esempio quasi incredibile di velleitarismo. Il documentario televisivo Calle Santa Fe (Via Santa Fe) rilegge la storia del Movimiento de Izquierda Revolucionaria (MIR – Movimento della Sinistra Rivoluzionaria), organizzazione armata cilena con gli occhi dalla compagna del suo fondatore, Miguel Enriquez. La donna ritorna in patria, dopo un lungo esilio in Francia, per incontrare i vecchi compagni e rivedere il luogo in cui il suo uomo è stato ucciso e lei stessa gravemente ferita. Il materiale è interessante, anche se un'aggiunta d’analisi politica sul sostanziale fallimento dei movimenti rivoluzionari latinoamericani non guasterebbe. Tuttavia, come già detto, sui tratta più di un buon servizio televisivo e non di un film o un documentario vero e proprio.
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Raggio segreto
Giovedì 24 maggio – nono giorno.
I selezionatori dei grandi festival devono tenere conto del ventaglio di premi a disposizione della giuria. I responsabili della sessantesima edizione del Festival di Cannes sicuramente hanno pensato al premio per l’interpretazione femminile, quando hanno scelto Secret Sunshine (Raggio segreto) del sud coreano Lee Chang-dong. E’ un film interamente sulle spalle di Jeon Do-yeon, interprete di una fresca vedova che decide di abbandonare Seul per stabilirsi con il figlioletto nella cittadina di provincia il cui il marito era nato. Poco dopo essersi trasferiti, ecco arrivare una nuova tragedia: il piccolo è rapito e ucciso da un balordo. A questo punto la donna precipita nella follia, prima con aspetti mistico – religiosi, poi con istinti suicidi, quindi, dopo un lungo ricovero, con il recupero di una parvenza di normalità. Il film è tutto nella perfezione interpretativa con cui l’attrice tratteggia, spesso con sfumature appena accennate, questa discesa agli inferi.
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Alexandra
Aleksandr Sokurov (Mat i syn - Madre e figlio, 1997; Molokh, 1999; Taurus, 2000; Russkiy kovcheg - Arca russa, 2002) è uno dei più interessanti e prolifici autori russi. Il suo cinema, profondamente legato alla cosiddetta scuola di Leningrado, giova sui toni cromatici – spesso virati in modo verdastro marcio o salmone – sulla struttura narrativa che suggerisce ambienti e riferimenti storici anziché esplicitarli, sull’uso di grandi attori. Così è anche per Alexandra, ispirato alla guerra cecena che il film non cita mai. Una nonna ha l’autorizzazione a visitare il nipote, ufficiale dell’armata russa che opera nel paese caucasico. Arriva dopo un viaggio difficile, è alloggiata in una tenda con il nipote, va al mercato ove conosce delle donne locali sfinite e ferite dal conflitto, riparte dopo qualche giorno. Una favola che punta sui sentimenti, il pacifismo e sulla riconciliazione. Ottime intenzioni che mettono completamente da parte le responsabilità di quel massacro senza fine e gli orrori di cui si sono resi responsabili occupanti e resistenti. Forse non poteva essere diversamente, visto l’appoggio che l’esercito ha dato alla realizzazione del film e tenuto conto della ipersensibilità del presidente Vladimir Vladimirovič Putin su questo tema, al punto che qualcuno ha malignamente supporto che il mancato arrivo del regista a Cannes, ufficialmente per gravi motivi di salute, sia anche legato alla decisione della direzione di presentare, all’ultimo momento, il documentario di Andrei Nekrasov e Olga Konskaya sull’assassinio, a Londra, dell’ex spia russa Litvinenko. Supposizioni vere o false che siano, rimane la coerenza di quest’opera con l’intera filmografia di Alexander Sokurov, sia dal punto di vista politico sia stilistico. Sul primo tema bisogna ricordare che questo regista ha imboccato da tempo la via del rimpianto per la Grande Russia (Arca Russa) e che da sempre privilegia l’esame dei sentimenti che legano i membri di un nucleo familiare. In fondo anche i suoi film più apertamente politici, come Molokh (su Hitler), Taurus (su Lenin e Stalin) e Solntse (Il Sole, 2005; sull’imperatore L'imperatore giapponese Hiroito), sono, soprattutto, dei ritratti di nuclei familiari e dei veleni che li attraversano. A livello stilistico rimane intatta la capacità di quest’autore nel realizzare storie in cui il racconto coincide con la sua forma e questa percorrere strade del tutto originali. In definitiva un film che lascia molti dubbi sul piano politico, ma che affascina per la costruzione espressiva.
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La fabbrica del piacere
Nella sezione Un Certain Regard si è visto: Kauile Gongchang (La fabbrica del piacere) che Ekachai Uekrongtham ha dedicato al quartiere a luci rosse (Geylang) di Singapore. Sono tre storie che si sviluppano nel corso di una stessa notte. Uno studente ha il suo primo rapporto erotico, una ragazzina impara il mestiere con molta pausa e vergogna, una prostituta di successo si paga una notte di tenerezze con un cantante di strada. Più che gli sviluppi dei singoli episodi ciò che conta e il panorama umano e urbano in cui sono inseriti: tristi bordelli al neon, flotte di meretrici che si contendono i clienti, ricci borghesi che si permettono ogni cosa, forti dello spessore dei loro portafogli. Non è un film stilisticamente nuovo e i temi che affronta hanno avuto ampia risonanza nel cinema orientale, ciononostante si segue con piacere, quantomeno per verificare quanto lordume alligni anche sotto le insegne iperefficentiste della città – stato più ricca del mondo.
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Tu che sei vivo
Nella stessa sezione è stato presentato anche Du Levande (Tu che sei vivo) dello svedese Roy Andersson che alcuni anni or sono aveva colpito con la presentazione di Song From The Second Floor (Canzoni dal secondo piano, 2000). Il nuovo film conferma le scelte stilistiche del precedente con un mosaico di piccole storie, sistematicamente immerse in atmosfere marce, con colori pallidi e personaggi al limite del decomposto. Il titolo richiama, ironicamente, una frase di Goethe e ci consegna un’umanità sull’orlo della catastrofe, catastrofe che arriva nell’ultima immagine con un cielo coperto di bombardieri privi d’insegne che si appestano a rovesciare il loro carico mortale sulla città. Ironia e disperazione si mescolano mirabilmente in questa complessa galleria di perdenti, resti di un’umanità che ha perso l’anima cercando di aumentare il benessere materiale.
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La notte ci appartiene
Venerdì 25 maggio – decimo giorno.
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We Own The Night (La notte ci appartiene) è il moto della divisione della polizia di New York incaricata dei crimini commessi sulla strada. E’ anche il titolo del film di James Gray approdato in concorso. Lo scenario è quello della grande città americana alla fine degli anni ottanta, qui una famiglia di origini europee, forse ebree, i Grusinsky è divisa fra tutori dell’ordine, il padre è il capo della polizia e uno dei figli è un ufficiale rispettato, e il mondo che lambisce la malavita, l’atro figlio gestisce un locale notturno per conto di un immigrato Russo che, risulterà pesantemente compromesso con il traffico della droga. Quando lo scontro fra criminali e poliziotti si fa duro (l’ufficiale è ferito gravemente, il capo è ucciso), il fratello, che sembrava in bilico fra la legge e il crimine, si scatena, fa arrestare i cattivi ed entra trionfalmente fra i tutori dell’ordine. Si potrebbe mettere l’accento sui numerosi salti narrativi e di logica che punteggiano il film e ricordare l’approssimazione delle psicologie, ma tutto questo serve a poco visto lo scadente livello, qualitativo ed espressivo, di un prodotto che s’inscrive d’autorità fra quelli la cui presenza nel cartellone non ha alcuna giustificazione.
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Una vecchia amante
Catherine Breillat è diventata famosa per aver spinto, nei suoi film, sul pedale dell’erotismo. E’ lei ad aver nobilitato le arti recitative del pornodivo Rocco Siffredi (Romance, 1999) e ad avere proposto alcuni titoli passati alle cronache più per le pruriginosità che non per il calore espressivo o narrativo. Une vieille Maitresse (Una vecchia amante) veste panni storici, ci riposta nella Francia del 1835, ma non rinuncia del tutto alle immagini forti. La storia è quella dell’amore di un giovane nobile per una spagnola dal passato torbido, amore rovente che supera anche il matrimonio del giovane per prolungarsi negli anni. Asia Argento offre alla bella amante viso e corpo peccaminosi, ma questo non basta a far funzionare una storia sgangherata e ripetitiva, girata approssimativamente e con qualche caduta nel ridicolo. Per la serie che cosa ci fa un film così in concorso?
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L'età delle tenebre
E’ stato mostrato alla stampa anche L’età barbarica (L’âge Des Ténèbres) del canadese Denys Arcand, un film si colloca ad notevole distanza dalla miscela fra ironia e malinconia di Le invasioni barbariche (Les Invasions Barbares, 2003), anche se il terreno su cui si muove la regia è molto simile. Jean-Marc è un piccolo funzionario statale con una moglie in carriera, non insensibile alle attenzioni del presidente dell’azienda in cui lavora, e due figlie permanentemente intente a giocare con la play station o a sentire musica. L’ambiente circostante non è dei migliori: quello di lavoro è dominato da imbecillità e stupidi formalismi, quello di vita asettico e perfetto come un’immagine pubblicitaria. Una volta accertato il tradimento della consorte, morta sua madre, il povero travet abbandona ogni cosa, compresi i sogni gloria che gli rendevano sopportabile la vita, per andare a vivere in un cottage in riva al mare. Ci sono molti echi di altri film, ad iniziare dal delizioso Sogni proibiti (The Secret Life of Walter Mitty, 1947) di Norman Z. McLeod con uno straordinario Danny Kaye, ma c’è anche uno sguardo sanamente ironico e lucidamente disperato sul mostro mondo e su una società incapace di parlare e comunicare. Rispetto alle opere precedenti a dominare sono più la disperazione e la rabbia che non l’ironia. Un film a suo modo cupo e privo di speranze che getta uno sguardo lucido, anche se con qualche venatura convenzionale, sulla società che ci circonda.
Nella sezione Un Certain Regard è comparso Munyurangabo, diretto da un regista americano, figlio d’immigrati sud coreani, Lee Isaac Chung, che parla del Ruanda dei nostri giorni, quando l’eco del genocidio dei Tutzi da parte degli Hutu non è ancora scemato. Due amici appartenenti a differenti etnie si presentano nel villaggio Hutu in cui vivono i genitori di uno di loro. Ben presto l’atmosfera si fa pesante e i giovani sono costretti a separarsi. Il Tutzi procede da solo verso la casa in cui vive l’assassino di suo padre, ma quando potrebbe consumare la vendetta vi rinuncia colpito dalla condizioni di salute di colui che avrebbe voluto uccidere e che ora sta morendo di AIDS. E’ un film sulla riconciliazione, in pretto stile africano - non mancano balli e canti folclorici - ed è pregevole più per il valore politico e morale che non per le qualità espressive.
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La foresta si Mogari
Sabato 26 maggio – undicesimo giorno.
Mogari No Mori (La foresta di Mogari) della giapponese Naomi Kawase racconta una bella storia d’amore e di lutto. Machiko, che ha perso un figlio da poco, lavora in una residenza per anziani. Fra gli ospiti c’e anche Shigeki, preda a demenza senile e che non ha ancora superato il lutto per la morte della moglie, scomparsa trent’anni prima. A causa un piccolo incidente d’auto, i due finiscono dispersi nella grande foresta di Mogari. Qui l’anziano inizia un proprio percorso portandosi dietro la giovane. I due riescono, in qualche modo, a superare il freddo della notte e, l’indomani, si ritrovano in uno spiazzo che l’uomo dice essere la tomba della moglie. Il vedovo sfodera una forza insospettata e inizia a scavare, poi si corica nella fossa, felice e placato. Ora anche la donna si stende vicino a lui, liberata e serena. La storia d’amore, pudica e appena accennata, è quella che lega queste due persone lontane mille miglia per dati anagrafici, cultura, sensibilità. Il terreno su cui trovano un punto di contatto è la necessità di elaborare i lutti che li hanno colpiti, onde evitare di precipitare nella follia. Il film è lineare nella narrazione, cresce con lo svilupparsi della storia, riesce a rendere significativi anche particolari altrimenti insignificanti. Una nota di merito va alla fotografia che guarda con occhio freddamente pittorico una natura amica e minacciosa ad un tempo.
L’ultimo film di Emir Kusturica, Promise me this (Promettimelo), è una commedia che pesca a piene mani nei gag del cinema muto e in quelli dei disegni animati. In una Serbia in bilico fra una visione bucolico – contadina e un’immagine banditesca della città. Un vecchio patriarca, geniale inventore di mille trovate, manda il nipote in città con una mucca. Deve venderla, trovarsi una moglie e ritornare a casa con un’icona in regalo per l’anziano. Il percorso, come in una favola, è costellato di trabocchetti, prove, passaggi pericolosi. Il giovane ingenuo non riuscirebbe a sopravvivere se non arrivassero ad aiutarlo due fratelli esperti in demolizioni e armati sono ai denti. Grazie al loro aiuto riuscirà a sconfiggere il cattivo di turno, che ha tutte le caratteristiche del male in assoluto: traffica in prostituzione e droga, organizza loschi affari immobiliari in combutta con i politici, uccide senza troppo pensarci. Alla fine sarà sconfitto e umiliato nel più feroce dei modi, con la castrazione. Il film è girato con brio e con ampio ricorso a trovate basate su botte in testa che ucciderebbero un toro, ma da cui il giovane esce indenne, cadute rovinose, esplosioni e distruzioni apocalittiche. Va detto che la riuscita è parziale e non s’incontra nemmeno uno di quei momenti di felice invenzione che segnavano le opere precedenti di questo regista. Un’opera piacevole, ma, come si suol dire, anche i geni qualche volta sonnecchiano.
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Sognando California (Incompleto)
Il primo riconoscimento è arrivato dalla sezione Un Certain Regard che ha coronato Sognando California (Non finito) di Cristian Nemescu, morto a ventisette anni in un incidente d’auto prima di portare a compimento il film. Il materiale girato è stato messo assieme dai suoi assistenti ed è stato presentato come film a tutto tondo, seppure aggiungendo al titolo un pudico Nesfarsit (Non finito). In queste condizioni appare arduo giudicare ciò che abbiamo visto come se fosse un’opera definita una volta per tutte. Ci sono salti narrativi, parti quasi incomprensibili e le due storia che lo animano, quella dei bombardamenti alleati su Bucarest nel 1944 e la vicenda del treno che, nel 1999, trasporta materiali Nato bloccato in una piccolo scalo da un capostazione cocciuto e irato con gli americani, combaciano poco e niente. La sola cosa che si può dire è che nel materiale girato, c’erano tutte le premesse per ricavarne un buon film. Oltre appare impossibile andare.
Domenica 27 Maggio – Dodicesimo Giorno
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Con la cerimonia di consegna dei premi anche questa sessantesima edizione del Festival di Cannes ha chiuso i battenti.
Qualche veloce commento.
I premi sono sostanzialmente condivisibili, va rilevato, in particolare la saggia decisione di coronare con la Palma D’Oro il miglior film della rassegna, 4 luni, 3 saptamini, 2 zile (4 mesi, 3 settimane e 2 giorni) del rumeno Cristian Mungiu. L’opera che critici e pubblico hanno amato sin da subito. Un riconoscimento che si aggiunge a quello, più discutibile, andato a California Dreamin’ di Cristian Nemescu, purtroppo scomparso, a 27 anni, prima di aver curato la postproduzione del film. Il cinema rumeno ottiene, così, un omaggio più che dovuto se si tiene conto dei molti film importanti realizzati da quella cinematografia negli ultimi anni.
Condivisibile, anche se più tradizionale, il premio a Julian Schnabel per Le Scaphandre et le Papillon (Lo scafandro e la farfalla). Un buon saggio di regia applicato ad un soggetto particolarmente scivoloso, come quello della malattia gravemente invalidante.
Minore entusiasmo suscitano i coronamenti di Magari No Mori (La foresta di Mogari) di Naomi Kawase (Grand Prix) e Paranoid Park di Gus Van Sant (Premio Speciale Per Il 60mo Anniversario), due opere non eccezionali.
Più che condivisili i riconoscimenti agli attori - Konstantin Lavronenko per Izgnanie (L’esilio) del russo Andrey Zvyagintsev, e Do-Yeon Jeon per Secret Sunshine (Raggio segreto) del sudcoreano Lee Chang-dong.
Non destano sorpresa i riconoscimenti a Auf der anderen Seite (Dall'altra parte) di Fatih Akin (miglior sceneggiatura), Persepolis di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud e Silent light di Carlos Reygadas (Premio della giuria ex – aequo).
Gli altri premi collaterali si sono mossi sulla medesima linea della Grande Giuria, a riprova che non c’erano titoli in grado di dividere nettamente giurati e critici.
Nel complesso l’edizione del sessantennio si è rivelata di spessore culturale inferiore a quanto lasciavano intendere i trionfalismi in apertura. Non c’è stato il titolo capace di primeggiare nettamente su tutti gli altri, salvo il film rumeno che, ha vinto giustamente.
Per finire tanti divi, un bel po’ di confusione ma non molto costrutto.