Festival di Cannes 2008 - 11° giorno

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Festival di Cannes 2008
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ImageVenerdi' 23 maggio – Decimo giorno.
 Il secondo film italiano in concorso, il Divo di Paolo Sorrentino (L’uomo in più, 2001 – Le conseguenze dell’amore, 2004 – L’amico di famiglia, 2006), è piombato sul festival lasciando annichiliti molti critici. La maggiore sorpresa l’hanno subita gli stranieri che, davanti ad un’opera tanto legata alla realtà italiana, hanno dovuto fare un vero e proprio salto mentale per coglierne il senso profondo di ritratto impietoso e drammatico di un potere che non ha solo caratteristiche nostrane. Da parte italiana, invece, c’è stata la sorpresa di vedere messo a nudo in modo, incredibilmente coraggioso, uno dei pilastri della nostra vita politica. Come è noto il film è un ritratto grottesco, ironico e sconvolgente degli ultimi venti anni di vita del senatore Giulio Andreotti di cui traccia un ritratto grottesco e tragico ad un tempo. Interpretato da un irriconoscibile e bravissimo Toni Servillo, il senatore a vita percorre scandali, fa e disfa alleanze politiche, assiste quasi indifferente all’uccisione del suo fido Salvo Lima e al calvario di Aldo Moro, odia ed è odiato. Il suo è lo specchio di una politica che si è fatta rincorsa ossessiva e spietata al potere, una vita spesa in nome di Dio, ma praticata come ricerca di posizioni di forza, personali (quando vado in chiesa parlo con i preti piuttosto che con Dio, loro votano lui no). Un ritratto di decadenza morale e di soppressione di qualsiasi sogno ideale in nome dell’esserci per contare e comandare sempre più. La cosa che colpisce è che non si tratta neppure di una ricerca volta all’arricchimento personale o alla conquista di condizioni di vita particolarmente privilegiate (Andreotti, personalmente, non è stato coinvolto in Tangentopoli), ma del potere per sé stesso, della forza come fine. Un film pieno d’ironia terribile nella sua configurazione complessiva. Il regista utilizza a piene mani il grottesco, e lo fa alla maniera di George Grosz (1893 –1959), quando disegna i suoi grassi borghesi. In casi come questo non è lecito parlare di film bello o brutto, ma solo di un testo fondamentale per capire un po’ di più il mondo che ci circonda e la classe politica che ci governa.
Sineddoche, New York
Sineddoche, New York
Qualche sorpresa anche da parte dell’americano Charlie Kaufman che ha proposto la sua opera prima: Synecdoche, New York (Sineddoche, New York). Qui è in gioco il rapporto fra vita e teatro, realtà e sua rappresentazione. Un regista che ha, sino a quel momento, diretto testi noti (all’inizio lo vediamo alle prese con Morte di un commesso viaggiatore - (Death of a Salesman, 1949) di Arthur Miller), riceve una generosa sovvenzione per realizzare una grande regia. Decide di parlare della vita vera, la sua, facendo costruire, in un enorme capannone, una scenografia sempre più articolata in cui gli attori recitano i ruoli delle persone che lui incontra nella vita. Affitto da una misteriosa malattia, forse immaginaria, trascurato dalla psichiatra che lo ha in cura, passa anni ed anni, sino ad invecchiare e morire, dietro quest’opera che il pubblico non vedrà mai. Non tutto e chiaro nella costruzione di una storia che offre a Philip Seymour Hoffman l’occasione per una performance eccezionale, né appaiono limpidi i passaggi narrativi e quelli temporali. Difetti che non privano il film di un suo fascino e di una forte capacità di stuzzicare la curiosità dello spettatore.
Fiamma dell’oceano
Fiamma dell’oceano
Nella sezione Un Certain Regard si è visto il film cinese, di Hong Kong, Ocean Flame (Fiamma dell’oceano) Fen Dou Liu, una gangster movie sullo stile di quella cinematografia, tuttavia senza sconti – balletto o duelli al rallentatore. Qui è di scena una storia d’amore nero fra una cameriera e un prosseneta che usa le sue donne come esca per attirare facoltosi clienti per poi rapinarli minacciando di svelare i loro capriccetti. Solo che tra i due scoppia l’amore, un sentimento tortuoso e perverso che spinge lui a mandarla con altri uomini, umiliarla, minacciarla e lei ad attaccarsi sempre più al protettore nonostante ferite e insulti quasi quotidiani. Il dramma esplode quando la donna decise di sposare un altro membro della banda e sfocia in doppio suicidio per disperazione di essere separati e impossibilità di vivere una relazione normale. Il film, tratto da un romanzo di Wang Shuo, è più cervellotico che ispirato e non aggiunge molto né alla casistica del genere, né al linguaggio in cui queste storie sono raccontate.