Festival di Cannes 2008 - 5° giorno

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Festival di Cannes 2008
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Servizio
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Domenica 18 maggio – Quinto giorno.
Sono vari i film che usano come scenario una sala cinematografica, i suoi frequentatori, i titoli che vi si proiettano, il tutto per disegnare un quadro sociale o un ritratto psicologico. Solo per fare qualche esempio ricordiamo L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) di Peter Bogdanovich, La chatte à deux têtes ( La gatta a due teste, 2002) di Jacques Nolot e Bu san (Good Bye Deagon Inn, 2003) di Ming-liang Tsai. Ci prova ora il filippino Brillante Ma. Mendoza che ha portato in concorso Serbis (Servizio) interamente ambientato all’interno di un pornocinema fatiscente in cui ha eretto domicilio anche la famiglia proprietaria, con tanto di figli e nipoti. Il locale si è ormai trasformato in un vero e proprio postribolo, con decine di travestiti o omosessuali che sostano in sala e nei corridoi offrendo agli spettatori i loro servizi, preferibilmente in forma orale. E’ il ritratto di una degenerazione complessiva, cadenzata dal rumore assordente del traffico che viene dalla strada e disegna una sorta di bolgia infernale da cui, praticamente, non è possibile evadere. Chi vi è recluso o si è auto isolato ha i tratti del naufrago approdato ad un’ultima spiaggia puzzolente, sozza, umiliante, ma che consente, ancora, una qualche forma di sopravvivenza. La macchina da presa, mossa a mano, insegue i vari personaggi, li spia nell’intimità, ne scopre illusorie ambizioni e flebili speranze. Ciò che manca, tuttavia, è un senso complessivo che vada oltre ciò che accade sullo schermo per darne un significato preciso, poco importa se politico, umano, storico o psicologico. Non bastando, a questo fine, l’ironica insegna Famiglia che il regista assegna al decrepito locale. Mancando quest’elemento, il film si avvita su se stesso, cede a momenti di compiacimento quasi voyeuristico, si sfalda in un florilegio si sequenze e storie incapaci di confluire in un disegno comune.
Gomorra
Gomorra
Non era facile trarre un film da un romanzo così complesso – un terzo inchiesta, un terzo saggio, un terzo racconto – come Gomorra di Roberto Saviano. Bisogna subito dire che Matteo Garrone (Terra di mezzo, 1997 - L’imbalsamatore, 2002 – Primo amore, 2004) ci è riuscito perfettamente nel compito isolando alcune storie fra le molte contenute nel libro e sviluppandole come altrettanti tasselli di un mosaico crudele e terribile sulla delinquenza organizzata che infetta la Campania. Bisogna anche dire che la scelta è caduta su vicende particolarmente significative. C’è la triste vita del pagatore di settimana ai parenti dei detenuti e dei morti che pensa di poter mantenersi le mani pulite facendo solo il contabile, ci sono i due giovani rampanti che credono possibile svolgere un’attività indipendente in un territorio interamente nella mani della Camorra, c’è l’artigiano geniale che deve ridursi a fare il camionista se vuole continuare a vivere dopo che ha dato lezioni di sartoria ai cinesi, temibili concorrenti in uno dei tanti affari controllati dai boss, c’è il ragazzino che aiuta la madre nella consegna delle spese e che, se vuole trovare un lavoro, deve mettersi al soldo dei killer, c’è, ed è il capitolo più sconvolgente, il manager dall’apparenza rispettabile che, compici i clan, riempie il terreno di rifiuti tossici provenienti dalle industrie del nord. C’è, soprattutto, il paesaggio degradato, incredibile, diruto, sporco, distrutto del quartiere Le vele, un mostro architettonico, divenuto fortilizio della malavita e supermercato di droga alla luce del sole, in cui neppure la polizia osa entrare se non in forze. Tutto questo è raccontato con uno stile semplice, intrecciando le vicende senza alcun vezzo estetizzante o gioco puramente formale. E’ un’immersione nella realtà che ricorda il miglior cinema neorealista, anche qui molti fra gli interpreti sono presi dalla strada, o le maggiori opere di Francesco Rosi, ma con una modernità di tocco e un’intelligenza espressiva che vanno ben oltre quei modelli. Un grande film da cui è lecito attendersi molto.
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
Con molto rumore mediatico è anche stato presentato l’ultimo episodio della saga di Indiana Jones a firma Steven Spielberg, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull). Saranno gli anni che passano, ma ci è sembrata una tappa alla lunga meno interessante e originale delle precedenti. Siamo in piena guerra fredda, nel 1957, e l’archeologo avventuriero, debitamente imbolsito, deve vedersela con dei russi cattivi che vorrebbero entrare in possesso di un teschio di vetro dotato di poteri magici. A questo punto, dopo un rapido inizio in cui il regista si permette qualche buffetto anche nei confronti del maccartismo allora imperante, parte la solita avventura fatta d’inseguimenti, trappole, intrusioni in caverne misteriose piene di tesori. Il finale, che questa volta pare quasi definitivo, vede un intero sito archeologico Maya spiccare il volo sotto forma di disco volante alieno e, subito dopo, il nostro eroe convogliare a giuste nozze e, forse, lasciare lo scettro al figlio rockettaro. E' un buon prodotto per anime semplici, modestamente divertente, destinato a un prevedibile grande successo commerciale.
Nuvola nove
Nuvola nove
Wolke Neun (Nuvola nove) del tedesco Andreas Dresen, presentato nel cartellone de Un Certain Regard, è il classico film per attori, in questo caso tre stupendi interpreti: Ursula Werner, Horst Rehberg e Horst Westphal, tutti con solide esperienze teatrali. Nelle loro mani c’è una banale storia di adulterio destinato a concludersi tragicamente, con il suicidio del marito tradito, solo che i protagonisti sono tutti ultrasessantenni e la loro storia suona come una rivendicazione del diritto di amare e fare sesso a qualsiasi età. Tre prestazioni davvero eccezionali, anche per il coraggio con cui i tre non hanno paura di mostrare i loro corpi segnati dal passare degli anni, appesantiti dall’età, resi deboli dallo scorrere del tempo. Non è un film segnato da importanti novità stilistiche, anzi, l’insistenza con cui la macchina da presa indugia sui primissimi piani, dei visi e dell’anatomia, dei personaggi ricorda un certo imbarbarimento televisivo del linguaggio cinematografico. Nonostante questo è un film da vedere, meditare e apprezzare.