50mo Karlovy Vary International Film Festival - Pagina 2

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50mo Karlovy Vary International Film Festival
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richard-gere-in-time-out-of-mindPer festeggiare la cinquantesima edizione del KVIFF, è stato creato un video completo, informato e mai noioso su tutte le edizioni fino ad ora svolte. Diverte per alcune scene, commuove per altre ma, sicuramente, rimarrà giusto tributo ad un Festival che da anni fa tendenza. Premio per la carriera a Richard Gere che intrattiene il pubblico per oltre cinque minuti, la consegna a lui del premio e la presentazione di Time Out of Mind che fino ad ora non ha avuto grande successo anche quando è stato presentato in Festival interessanti quali quelli di Toronto e Roma. Si ha l’impressione che l’attore statunitense, privo di storie che lo interessassero, volesse dimostrare con questo film sue eventuali doti da grande attore. E invece deve accontentarsi di recitare come sa, di essere affascinante magari suonando da par suo pianoforte o tromba. La sceneggiatura era nel cassetto dell’attore da oltre 10 anni senza mai trovare nessuno a portarla sullo schermo fino a quando, quale produttore oltre che protagonista, decide di proporla a Oren Moverman. La storia, che racconta alcuni giorni nella vita di un senzatetto newyorchese, era stata scritta addirittura negli anni Ottanta. Le croste sul volto e il suo cappotto sdrucito suggeriscono che la vita non è esattamente benigna per il protagonista del terzo film dello sceneggiatore-regista. Lo incontriamo nel momento in cui è cacciato da un appartamento abbandonato e decadente sulla strada con tutti i suoi beni al seguito. Da quel momento è un vero senzatetto e presto si adatta a chiedere l’elemosina, a dormire in tristi dormitori, a non attendersi più nulla dalla vita. Il film ha un taglio quasi documentaristico e predilige la staticità di immagini realizzate senza fretta piuttosto che una sceneggiatura in cui accada qualcosa. Gere non è certo aiutato dal cineasta che lo dirige a rendere memorabile il personaggio di quest’uomo che non ha il coraggio di dire alla figlia quanto le vuole bene. Il regista, sceneggiatore, ex giornalista, è nato in Israele, ma ora vive a New York. Ha scritto e diretto The Messenger (2009), proiettato al Sundance e Berlino. Ha voluto fare un opera minimalista e ha privato Gere dei suoi scatti da piacione per renderlo triste e disperato soltanto con l’aiuto di una barba incolta. Finale a dire poco scontato.
(F.F.)

HeilPer quanto riguarda il concorso vero e proprio non si può dire che il debutto sia stato particolarmente entusiasmante. Heil del tedesco Dietrich Büggemann è un misto, non ben riuscito, fra commedia bavarese e la politica. Un gruppo di neonazisti sogna di far rinascere l’orgoglio del popolo tedesco inscenando una finta invasione della Germania da pare di un sedicente esercito polacco. La cosa fallisce, come era prevedibile sin dalla prime sequenze, e i nipotini del Fuhrer o si uccidono fra di loro o sono presi a legnate dai veri tedeschi. Prima di approdare a questo risultato, tuttavia c’è una lunga catena di passaggi cadenzati da uno scrittore tedesco di pelle nera che cambia idea ogni volta che riceve un colpo in testa, passando da posizioni progressiste a slogan nazisti ripetuti a pappagallo. Intorno ci sono la moglie del nero e un poliziotto cui i nazi sparano, rubano la pistola e bruciano l’auto con il risultato di farlo cacciare dal corpo ad opera di un superiore non si sa se più imbecille o opportunista. In poche parole un pasticcio difficilmente digeribile e scarsamente invitante per uno spettatore non tedesco che riesce difficilmente a cogliere i molti ammiccamenti contenuti nella storia.
AntoniaPoco meglio quanto offerto da Antonia, opera d’esordio dell’italiano Ferdinando Cito Filomarino che traccia un ritratto della breve vita della poetessa e fotografa milanese Antonia Pozzi (1912 – 1938), donna dalla vita tribolata e segnata dal rapporto sentimentale con il suo professore di latino e greco Antonio Maria Cervi; relazione che il docente interruppe bruscamente dopo un incontro con il padre della ragazza. Segnata da questa cocente delusione giovanile e dai continui scontri con il genitore che esercitò nei suoi confronti una vera censura morale e religiosa, la giovane scivolò progressivamente su una china che la portò al suicidio a soli ventisei anni. Non meno pesanti le difficolta a cui fu costretta a far fronte dal clima dell’epoca, ostacoli culminati nel 1938 dalla proclamazione da parte del regime fascista delle famigerate leggi razziali che colpirono vari suoi amici. Nel portare sullo schermo questo personaggio complesso e psicologicamente ricco il regista mette completamente da parte tutto ciò che riguarda l’esterno commettendo un errore grave di omissione, basti pensare a quanto successo, anche a Milano, fra la fine della prima guerra mondiale e l’affermazione del fascismo. In questo modo il film si trasforma in un ritratto personale e psicologico su cui non ha quasi alcuna influenza ciò che capita oltre le pareti delle belle stanze in cui vive la protagonista con i suoi familiari.
(U.R.)