Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno - 6 settembre 2006

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Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno
30 agosto 2006
31 agosto 2006
1 settembre 2006
2 settembre 2006
3 settembre 2006
4 settembre 2006
5 settembre 2006
6 settembre 2006
7 settembre 2006
8 settembre 2006
9 settembre 2006
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8° giorno - mercoledì 6 settembre
Ultimi giorni della Mostra e intensificazione delle presentazioni, visto che al già nutrito elenco dei film in concorso si è aggiunto il cosiddetto film sorpresa, ma andiamo con ordine. Euphoria è l’opera d’esordio del russo Ivan Vyrypaev. La storia è quella classica del triangolo in cui il marito, folle di gelosia, uccide a fucilate la moglie e l’amante. C’è poco di nuovo sul versante della vicenda, ma ci sono non poche piacevoli sorprese su quello dello stile. Siamo dalla parti di quel nuovo cinema russo che fa del paesaggio e della disperata solitudine dei personaggi uno dei punti di forza che usa raccontare storie intessute di degrado, vite senza prospettive, esistenze miserabili. Qui siamo nel cuore della grande pianura russa, durante un’estate che rende le starete simili a sentieri di sale. Una balla donna, sposata con un ubriacone e amata da un giovane conosciuto ad una festa di nozze, abita in uno sperduto casolare. Quando un grave incidente, il feroce cane di casa trancia un dito alla figliola della coppia, le offre una possibilità di fuga, eccola mettersi in viaggio con l’amato, inseguita dal marito che farà giustizia sommaria dei de due amanti. Un paesaggio bello e terribile è il punto di forza del film, vero protagonista e motore dell’intera vicenda.
Esiliati
Esiliati
Il cartellone ha poi proposto due film cinesi così diversi l’uno dall’altro da sembrare provenienti da mondi incomunicabili. Fangzhu (Esiliati) dell’hongkonghese Johnnie To, uno dei autori di culto del cinema d’azione orientale, racconta di cinque amici in guerra con un capomafia per ragioni di soldi e d’onore. L’ambientazione è quella della Macao nel 1998, poco prima che la vecchia colonia portoghese ritorni sotto il controllo cinese. Il film vive delle usuali sparatorie – balletto, realizzate con una perizia tecnica che ha dell’incredibile. Perizia tecnica, appunto, perché questo è l’unico, piacevole, punto di forza in un film per molti versi prevedibile e ripetitivo.
Jia Zhang- Ke
Jia Zhang- Ke
Aria del tutto diversa in Sanxia Haoren (Natura morta) di Jia Zhang- Ke (Zhantai, La banchina, 2000; Shijie, Il mondo, 2004) ambientato nella regione in cui sta sorgendo la gigantesca diga delle Tre Gole che determinerà la sommersione di una vastissima parte dei territorio, comprese cittadine come Fengjie, già cancellata dalle acque, ma della quale si sta costruendo una sorta di quartiere - replica. Qui arrivano un uomo e una donna, il primo è un minatore che sta cercando la moglie che non vede da 16 anni, quando è fuggita con la figlia non sopportando di vivere lontano dalla famiglia e dal villaggio natale. La donna, un’infermiera, ha fatto un lungo viaggio per dire al marito, che non torna a casa da due anni, che si è innamorata di un altro e vuole divorziare. Il minatore, che sopravvive partecipando alle squadre di demolizione che stanno abbattendo le case destinate ad essere sommerse dalle acque, convince la moglie e ritornare con lui, mentre l’infermiera riparte dopo aver sanzionato in modo definitivo la separazione dal marito. Il film appartiene al filone che descrive senza infingimenti i disastri morali e materiali di cui si nutre la vorace modernizzazione di quel grande paese e, anche se apparentemente racconta storie individuali, lo fa con occhio più analitico di quanto non faccia, ad esempio, Gianni Amelio ne La stella che non c’è. Il quadro che ne emerge è quello di una macelleria sociale che impone prezzi terribili in nome di un progresso misurato solo in termini di arricchimento del PIL e di occidentalizzazione dell’economia. Un film molto bello e doloroso, un vero esempio di cinema capace di coniugare gusto del racconto e sguardo sulla società.
Fuori concorso è stato presentato l’atteso Inland Empire (Impero interno) del regista di culto David Lynch (The Straight Story, Una storia vera, 1999; Twin Peaks, 1992) che spinge ancora più avanti il suo cinema della mente trascurando quasi del tutto di rendere comprensibili, anche vagamente, le storie che racconta. In questo caso sembrerebbe trattarsi di un intreccio fra tre piani: la realtà, le immagini di un telefilm televisivo e quelle di un film narrativo. L’'attrice che è protagonista di questi tre momenti finisce per vivere gli incubi e le ossessioni dei personaggi che interpreta. Lettura con forti elementi di dubbio, visto che fra cambiamenti di scene, schermi che rimandano le stesse immagini a televisori che, a loro volta, sono visti dai protagonisti del film, personaggi che parlano polacco, spettacoli (forse) teatrali i cui protagonisti hanno maschera da conigli, non è facile districarsi. Rimane la capacità ammaliante di questo autore nel mescolare fantasia e sprazzi di realismo, costruire incubi che non sembrano non finire mai, regalare allo spettatore le immagini di un mondo onirico che sconfina, senza soluzione di continuità in quello reale. Ancor più di come accadeva nel precedente Mulholland Drive non è possibile dare un senso lineare alla storia, si deve gustare, nelle quasi tre ore in cui si dipana, assaporando le immagini senza porsi troppi perché.
La Settimana della Critica ha presentato un film argentino: El Amarillo (Il Giallo) dell’esordiente Sergio Mazza. Un giovane ingenuo, in cerca di pace e lavoro, arriva in un piccolo bar della regione d’'Entre Rios, a nord di Buenos Aires. Qui rimane colpito dal fascino della cantante, una bruna dalla voce malinconica e appassionata. Non si allontanerà più dal locale finendo come tenero cassiere di quello che si scoprirà essere un bordello di campagna. Il cinema argentino sta animando, da alcuni anni, un piccolo, indicativo filone, il cui primo e più efficace esponente è Lisandro Alonso (La libertad, 2001; Los muertos, 2004; Fantasma, 2006). E’ un tipo di cinema che porta alle estreme conseguenze alcune delle intuizioni di Roberto Rossellini e, soprattutto, di Cesare Zavattini: essere possibile dare spessore drammatico alla semplice registrazione della realtà rinunciando, in tutto o quasi, a qualsiasi lenocinio affabulatorio. Il film di Sergio Mazza s’inscrive in questo tipo di cinema, con risultati particolarmente interessanti, riuscendo a dare un quadro straziante e drammatico delle condizioni di vita nelle campagne argentine. E' una situazione che attiene più ad un livello di sopravvivenza minima che non ad una vita vera, seppure in condizioni economiche modeste. Queste prostitute contadine, che alternano prestazioni sessuali ai lavori più umili e normali – pulire la casa, sturare i gabinetti, fare da mangiare, pescare – esemplificano uno stato umano privo di qualsiasi reale prospettiva. E’ in questa situazione che s’inserisce la semplicità, meglio il candore, dell’uomo venuto dalla capitale in cerca di una vita meno compromessa con la lotta per la sopravvivenza. La sua stessa passione per le canzoni romantiche, da cui nasce la fascinazione per la cantante – prostituta, ha il senso di uno spazio di pulizia che riesce a conservarsi intatto in mezzo al lerciume. Un altro obiettivo raggiunto del film si colloca sul versante della narrazione. Qui la radiografia del vero si trasforma in racconto nel senso classico del termine, compiendo un piccolo salto miracoloso, come già avveniva, ad esempio, ne Los nuertos di Lisandro Alonso. Uno scarto geniale che trasforma la fotografia della normalità in storia, racconto di sentimenti e fatti, quadro preciso di psicologie.