Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno - 4 settembre 2006

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Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno
30 agosto 2006
31 agosto 2006
1 settembre 2006
2 settembre 2006
3 settembre 2006
4 settembre 2006
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6 settembre 2006
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6° giorno - lunedì 4 settembre
Fallen
Fallen
I cartelloni dei Festival di cinema alternano spesso opere di grande rilievo a titoli di cui si potrebbe facilmente fare a meno. E’ ciò che è successo alla Mostra in queste ore. Abbiamo visto un film, The Fountain (La fonte) dell’americano Darren Aronofsky (Pi, Il teorema del delirio, 1998; Requiem for e Dream, 2000) che è un brutto pasticcio in cui si mescolano riflessioni pseudo filosofiche sulla vita e la morte esposte con uno stile pesante, presuntuoso, teso a nascondere sconfortanti banalità sotto un manto di fastidiosi intellettualismi. La storia intreccia due piani: quello della lotta di un ricercatore per trovare una medicina che fermi il tumore al cervello di cui è afflitta sua moglie e visualizzazione del romanzo storco, ambientato nel millecinquecento, che l’ammalata sta scrivendo. Nulla di straordinario neppure da parte dell’austriaca Barbara Albert (Nordrand – Borgo Nord, 1999; Böse Zellen - Radicali liberi, 2004) che mette in scena, con Fallen (Cadere) l’incontro di cinque compagne di scuola a quattordici anni dall’ultima volata che si sono viste. E’ l’ovvio bilancio di vite infelici, di percorsi professionali fallimentari, di ricordi strazianti uniti all’impossibile tentativo di fare rivivere oggi ciò che è ormai consegnato alla memoria. Banale e prevedibile. La vera ventata d’aria pura, stilisticamente parlando, è venuta dal taiwanese – d’origine malese – Tsai Ming-Liang. Dobbiamo a questo autore alcuni dei titoli più importanti visti in questi anni: da Aiquing wansui (Vive l’amour, leone d’oro a Venezia 1994) a Dong (Il buco, 1998), sino a Ni neibian jidian (Che ore è laggiù? 2001) e allo straordinario Bu san (Arrivederci Dragon Inn, 2003) sofferta metafora della decadenza della società vista attraverso l’ultimo spettacolo in un grande cinema prima della chiusura definitiva del locale. Il suo penultimo film Tian bian yi duo yun (Il gusto dell’'anguria, 2004) è uscito la scorsa stagione anche in Italia.
Non voglio dormire
Non voglio dormire
Il film che ha presentato a Vanezia s’intitola Hei yanquan (Occhi cerchiati, anche se il titolo inglese è più pregante: Io non voglio dormire solo). Come il solito si tratta di un lavoro dallo stile volutamente lento secondo una filosofia che fa coincidere la rappresentazione con il tempo reale dell’azione. Altro elemento fondamentale, la scarsità dei dialoghi – in quasi due ore di proiezione si sentono una cinquantina di battute – e la raffigurazione metaforica del racconto e della visione di un mondo desolato e distrutto. Al centro del film - ambientato a Kuala Lampur, in Malesia - ci sono due storie d’amore: quella omosessuale fra, un immigrato dal Bangladesh e un senza tetto e quella di quest’ultimo con la serva – cameriera di un bar d’infimo ordine, proprietà di una signora che ha un figlio in coma. La padrona pretende che la ragazza accudisca, anche sessualmente, l’ammalato e paga i favori dell'homeless. Alla fine i tre emarginati si ritroveranno su uno stesso materasso – che ha un ruolo di fondo nella storia – a navigare in una pozza d’acqua al centro di un palazzo in costruzione abbandonato. E’ uno di quei film per i quali le parole hanno un senso minimo, ciò che conta è la forza delle immagini e la loro capacità di descrivere i rapporti fra questo grumo di disperati e una società in decomposizione. Sono esseri umani che sopravvivono d’immondizia, il materasso, vivono in condizioni d’incredibile degrado, subiscono la violenza di chiunque sia riuscito a salire anche un solo gradino sopra la loro condizione. C’è una scena in cui il senzatetto e la cameriera tentano di fare l’amore, gesto di disperazione contro la solitudine non certo atto sentimentale, con maschere rudimentali imposte dall’ondata d’inquinamento che ha coperto la città. E’ questo un mondo in cui neppure l’aria è immune da corruzioni e la sola scelta possibile è fra forme diverse di degrado. Il film è pessimista all’estremo, tristemente erotico, disperato nella raffigurazione di un mondo in cui l’unica speranza è un flebile rapporto interpersonale che supera le preferenze sessuali per farsi ancora di salvezza davanti alla catastrofe. Bellissimo, il nostro candidato più autorevole al Leone d’Oro.
Sur la trace d’Igor Rizzi
Sur la trace d’Igor Rizzi
La Settimana della Critica ha presentato un film franco – canadese, Sur la trace d’Igor Rizzi (Sulle tracce di Igor Rizzi) di Noël Mitrani. Jean-Marc Thomas è un ex calciatore francese finito in miseria dopo aver perso tutti i risparmi in un investimento sbagliato. Si trasferisce a Montréal dove sopravvive svaligiando appartamenti in compagnia di un complice che, un giorno, gli propone di uccidere un uomo in cambio di 15 mila dollari. Perennemente turbato dal ricordo della donna della sua vita, una giovane canadese morta da qualche anno, Jean-Marc oscilla fa l’accettazione del contratto e i rimorsi per quello che ha fatto e per ciò che sta per fare. E' un precorso tribolato che si chiuderà con una nuova maturità. E’ un thriller psicologico che pencola più sul versante dell’introspezione che non su quello dell’azione. In realtà è un percorso, di elaborazione del lutto e di riconquista dell’autostima, mascherato da storia con eventi criminali. Il regista dichiara di essere stato mosso, fra le altre cose, dall’idea di rappresentare Montreal, la più europea delle città canadesi, in inverno facendone una sorta di ventre ovattato in cui maturano drammi e lacerazioni nell’attesa di una rinascita, che, non a caso, avviene in pieno sole. L’esperimento è interessante, anche se non molto riuscito, compromesso come è dall’eccessivo presenzialismo dell’interprete Laurent Lucas, spesso più attento all’angolo di ripresa con cui il regista lo inquadra che ai triboli che dovrebbero sconvolgere il suo animo.