Venezia 2006: identità e mutamento

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Una recente e felice definizione del cinema ci suggerisce l'idea che esso, come il Titano del mito greco, abbia cento occhi. Effettivamente il cinema, rispetto ad altre arti espressive, possiede una capacità di interazione fra immagini e movimento che, non solo consente una elevata forza narrativa, ma è in grado di sprigionare, quando c'è talento, una speciale ricchezza di connessioni multiple, una straordinaria pluralità di elementi compositivi e una densità di riflessioni sull'esistente, difficilmente raggiungibile da altri mezzi di comunicazione.

Forse è qui la differenza tra una rassegna di film, come ce ne sono tante, e una Mostra come quella di Venezia che ha ambizioni più alte. Perchè a Venezia si deve riconoscere una rara qualità di ricerca rispetto a nuovi orizzonti espressivi ed un rilevante impegno ad approfondire temi che riguardino non solo la riflessione, ma anche la rielaborazione culturale circa i materiali del moderno.

In questo senso la Mostra di quest'anno ha confermato la vastità dei suoi poli di attenzione, ma ha, sopratutto compiuto uno sforzo per rispecchiare il forte senso di difficoltà che il moderno attraversa. Se dovessimo riepilogare con una formula, diremmo che, entro un'ampia gamma di situazioni, quest'anno ha ancora più campeggiato il difficile rapporto fra l'identità ed il mutamento; anzi, meglio: l'acuirsi di questa difficoltà.

Non per caso i due film che ci sono parsi più significativi (Natura Morta di Jia Zhang-Ke, che ha avuto il Leone, e La stella che non c'è di Gianni Amelio, che non ha avuto nulla) danno risalto e centralità allo scenario cinese. Cioè alla più vistosa fra le molte esplosioni del mutamento che percorrono il nostro pianeta. E' evidente che non si tratta di discutere della Cina perchè ne parlano tutti, come ha detto qualche osservatore superficiale. La Cina è metafora di qualcosa di più profondo. Cioè di un processo storico che diventò visibile con il Giappone anni settanta e che oggi ha acquisito potenza in gran parte dell'Asia. E' un processo carico di contraddizioni, di sofferenze e di spaventosi costi umani, ma è anche animato da un possente dinamismo, che non conosce soste, e produce trasformazioni inimmaginabili, addirittura su scala secolare. Trasformazioni che ci coinvolgono assai più di quanto normalmente non si pensi.

La Mostra di Venezia giustamente, e da tempo, ospita film che danno conto dei sussulti e dei travagli, delle inquietudini e degli straniamenti, che contrassegnano il salto di scala del mutamento asiatico (fino all'estremismo gelido, quest'anno, di una rovina del moderno nella periferia di Kuala Lumpur). Ed è estremamente importante che l'arte contemporanea si misuri, in forme articolate, con questo nuovo ciclo della storia umana che si è aperto fra il Medio Oriente e la capitale malese nella quale la società petrolifera Petronas ha eretto i grattacieli più alti del mondo e dove, pure, in periferia, sopravvivono scheletri di edifici non finiti e pieni di acqua piovana, accanto a persone che possiedono un materasso solo perchè l'hanno trovato in un mucchio di spazzatura; ma guai a vedere solo questo.

Perchè il dinamismo asiatico ha una peculiarità propria. E' opera di grandi nazioni che accelerano e moltiplicano il mutamento perchè agiscono come società, come insieme, e non solo come somma di individui singoli. Giudicare attraverso schemi ideologici è sempre sbagliato, ma osservare come l'arte sa scavare nelle diverse latitudini esistenziali, in cui si dimensionano i diversi modelli di società, è, invece, essenziale. E', infatti, una condizione necessaria perchè la rielaborazione culturale cessi di esaurirsi nel flebile venticello delle mode. Nella Mostra di quest'anno i film asiatici, e sull'Asia, hanno potuto direttamente confrontarsi con alcune produzioni californiane di indubitabile spessore come Hollywood Land di Allen Coulter, La Dalia Nera di Brian De Palma, e Bobby di Emilio Estevez. Il confronto è stato interessante. Nella varietà delle trame e delle interpretazioni i film statunitensi hanno spesso evidenziato una differenza di timbro ed hanno sottolineato con frequenza come gli eccessi di individualismo si possano associare a lampi distruttivi ed a forme più o meno occulte di isolamento e di crisi della speranza.

Nel più bello dei tre, Bobby, l'intelligenza del plot consegna un risultato di pregio perchè incrocia la fragilità delle vite individuali troppo spesso ripiegate su se stesse con la potenza magnetica del messaggio unitario di Robert Kennedy e di Martin Luther King, entrambi assassinati ed entrambi portatori di un'idea alta e feconda di coesione sociale e di destino comune. Qualche parola, infine, sui film europei, soprattutto francesi. L'eco che ne resta nella memoria, insieme all'eleganza ed alle molte virtù dei talenti registici, è quella di un tempo che rallenta. Che,forse, gira in circolo. Non è per caso che la speranza, nel film di Gianni Amelio, prenda le sembianze di una giovane donna cinese, precisa e determinata, pronta ad andare avanti, nonostante tutto. (Luigi Castagnola)