Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno - 5 settembre 2006

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Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno
30 agosto 2006
31 agosto 2006
1 settembre 2006
2 settembre 2006
3 settembre 2006
4 settembre 2006
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7° giorno - martedì 5 settembre
L’intouchable
L'’intouchable
In queste ultime ore il cartellone della Mostra ha proposto con esiti vari, ma mai completamente soddisfacenti, tre titoli in concorso. Il meno interessante batte bandiera francese. S’intitola L'’intouchable (L'’intoccabile) e lo ha diretto Benoit Jacquot, un regista d’attrici particolarmente apprezzato oltralpe. Il tema è abbastanza usurato – la ricerca del padre mai conosciuto – l’ambientazione - un’India decisamente folcloristica - non delle migliori, l’interpretazione di Isild Le Besco non è fra quelle memorabili. Un film professionalmente corretto, ma nulla più. Stessa valutazione per Bobby di Emilio Estevez di cui è stata presentata una versione in lavorazione secondo una pessima abitudine delle grandi manifestazioni cinematografiche che, pur di accaparrarsi qualche titolo ritenuto importante sottraendolo ad altre rassegne, accettano di presentare opere non finite. E’ difficile, dunque, esprimere un giudizio preciso, visto che né la durata, né la narrazione appaiono definitive.
Bobby
Bobby
Il film ricostruisce la notte del 6 giugno 1968, quando, nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, fu ucciso Robert F. Kennedy che stava per essere consacrato quale candidato democratico nella corsa alla presidenza, poi vinta dal repubblicano Richard Nixon. La tragedia dell’uomo politico è testimoniata molto bene con immagini di repertorio, mentre la storia vera e propria riguarda ben ventidue personaggi che si trovano, per lavoro o in qualità di ospiti, in vari locali dell’albergo. La regia dà il giusto rilievo al clima dell’epoca – i conflitti razziali, la carneficina vietnamita – ma non si spinge oltre nel tentativo di dare una qualsiasi interpretazione dell’omicidio politico. E’ una ricostruzione precisa e ricca di nomi di richiamo – Anthony Hopkins, Demi Moore, Sharon Stone, Laurence Fishburne - ma che assomiglia a certi programmi televisivi, ricchi di aneddoti, ma privi da vere analisi. Il terzo film in programma, primo dei due italiani, è stato l’atteso La stella che non c’è girato da Gianni Amelio (Lamerica, 1994; Le chiavi di casa, 2004) per buona parte nella Cina profonda. La storia, tratta dal libro La dismissione di Ermanno Rea, ha al centro un tecnico che scopre un difetto e il modo per sanarlo in un impianto siderurgico venduto, di seconda mano, dall’Italia alla Cina. Di sua iniziativa, mosso dall’orgoglio per una cosa professionalmente ben fatta, parte per il grande paese asiatico, alla ricerca della fabbrica che ha acquistato l’impianto.
La stella che non c’è
La stella che non c’è
Cosa non facile, vista la complessità della burocrazia e il numero della industrie che operano in quella nazione. Lo aiuta una giovane interprete, con la quale stabilisce un rapporto dapprima brusco, poi umanamente forte, forse persino sentimentale. Il giudizio sul film può essere articolato in tre parti. C'’è il capitolo, molto bello e straordinariamente ispirato, su cui si dipana l’orgoglio del lavoro ben fatto che anima il protagonista, un proletario che non rinuncia al suo stato, ma che lo abita realizzando al meglio e con la maggiore dignità ciò che è chiamato a fare. Su questo piano il film dà il meglio di se nel confronto con gli operai cinesi che, spesso, appaiono poco sensibili alla dignità professionale. C’è, poi, lo sguardo, caotico e a tratti sociologicamente superficiale, sulla Cina, le sue contraddizioni, le durissime condizioni di vita dei suo abitanti. Qui le domande irrisolte sono molte e in qualche punto il film cede a una contemplazione che mal si sposa con momenti in cui domina un facile didascalismo. C’è, infine, il rapporto fra i due personaggi ed è il punto più debole, quello attraversato da alcune pericolose banalità, come la possibile storia d’amore, i conflitto tipici da strana coppia, la duplicazione del finale con un’aggiunta quasi ottimista che stona con l’amarezza profonda di un film votato, come è costume di questo regista, alla registrazione di una sconfitta dolorosa, non disgiunta dalla necessità di superarla e continuare a vivere. La Settimana della Critica ha presentato Egyetleneim (Le mie uniche e sole) dell’ungherese Gyula Nemes. Un giovane vive con disperazione la fine di una storia d’amore inseguendo ogni ragazza che incontra per lenire, con la quantità, il dolore che gli ha lasciato in cuore l’allontanamento della donna che ama. Il cinema magiaro, quello animato dai giovani cineasti, è sempre più sensibile ai modelli occidentali, al cinema cosiddetto videoclipparo. E' una suggestione che si sposa con una profonda sensibilità dai tratti originali e melanconici. Forse non è un caso se, in ogni tempo, il genere in cui i cineasti ungheresi più sono stati in difficoltà è quello comico. Ancora oggi le commedie budapestine sono quanto di più sgangherato si può immaginare. Diverso l’approccio sul versante della malinconia e del dolore. Sarà anche perché questo popolo detiene il record mondiale dei suicidi in rapporto alla dimensione della popolazione, fatto sta che i registi ungheresi tendono ad eccellere nei drammi piuttosto che nelle farse. Sia come sia, il film è particolarmente convincente nelle sequenze di disperazione, quelle d’amore in modo particolare, piuttosto che nei momenti di relativa leggerezza. In questi casi, si veda il lungo piano sequenza con i due giovani ubriachi che circolano per la metropolitana, traspare piuttosto una straordinaria maestria professionale, unita ad un senso quasi raggelato del dramma. In altre parti, in particolare quelle più disperatamente melanconiche, traspare, invece, un senso d’autenticità di grande rilievo.