Settimana del cinema magiaro 2005

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L'Uomo Insepolto fa discutere l'Ungheria

ImageLa settimana del cinema magiaro ha raggiunto la trentaseiesima edizione, un traguardo non da poco per una rassegna che mette in mostra l’intera produzione annuale di un solo paese. Nata negli anni sessanta, questa manifestazione ha aperto la strada ad altre in Repubblica Ceca, Polonia, Olanda che si muovono sul terreno del coinvolgimento di studiosi, organizzatori di festival, critici interessati, in modo particolare, ad una specifica produzione. L’edizione 2005 ha messo in luce un buon livello qualitativo medio, ma senza punte d’eccellenza.
Il titolo migliore è stato, anche a giudizio della giuria, Fekete Kefe (Lo scovolo nero) dell’esordiente Roland Vranik. È un film in bianco e nero in cui si racconta di un quartetto di riparatori di camini che lavorano di malavoglia, tirano la giornata senza orizzonti e speranze, hanno bisogno di soldi, per riparare alle malefatte di uno di loro, e cercano di guadagnarne con un traffico di capre imbottite di droga. Il quadro è quello di un diffuso disagio giovanile e funziona come termometro morale dello stato di una generazione che non ha più alcun mito in cui credere, né sul versante sociale né su quello individuale. Il racconto scorre senza inciampi e la macchina da presa è manovrata con sicura maestria. Non stupisce che questo film a basso costo (circa 200 mila euro di budget) sia piaciuto ad Istaván Szabó, visto che stile e impostazione ricordano, pur nelle differenti condizioni storiche, alcune opere di quest’autore, in particolare Álmodozások kora (L’età delle illusioni, 1964) e Apa (Padre, 1966). La Settimana di Budapest ha messo in cartellone, anche se si tratta di una coproduzione USA – Canada – Gran Bretagna – Ungheria, Csodálatos Júlia (Essere Julia, 2003) la bella commedia d’Istaván Szabó, tratta da La diva Julia di William Somerset Maugham, di cui abbiamo parlato dal Festival di San Sebastian e che è stata distribuita anche in Italia. Un’altra piacevole sorpresa è venuta da A porcelánbaba (La bambola di porcellana) che Péter Gárdos ha tratto da alcune novelle d’Ervin Lázár contenute nel libro Csillagmajor (Fattoria delle stelle, 1996). Sono tre storie, ambientate in un piccolo villaggio e nei suoi dintorni, basate su momenti diversi e unite dal filo rosso del rapporto – invasivo, bugiardo e violento – di un mondo esterno che arriva periodicamente a sconvolgere l’equilibrio e l’ordine del mondo contadino. Nella prima storia un gruppo di militari irrompe nel paesetto, saccheggia, aggredisce e uccide un quattordicenne colpevole solo di aver battuto alcuni soldati in varie prove atletiche. Il secondo momento mette in campo un compagno che arriva dal Centro e promette di far rivivere i morti; miracolo falso ed effimero che contribuirà a decomporre ancor più le salme dei defunti. L’ultimo episodio ha al centro una coppia di vecchi contadini che rifiutano un improvviso ordine di deportazione, si rifugiano presso i vicini e, una volta scoperti, scompaiono fondendosi letteralmente con la terra. Il film è pieno di simboli e riferimenti alla storia magiara: i soldati armati con mitra sovietici del primo episodio, il compagno-messia del secondo, l’eco delle persecuzioni antisemite nel terzo. L'asse principale ruota attorno ad una visione quasi pasoliniana, alla devozione ad un’arcadia contadina assunto a regno di pace, equilibrio e armonia. È un paradiso terrestre destinato ad essere travolto dall’aggressione di una modernità rapace e feroce. È una visione non del tutto avulsa da sfumature conservatrici, ma a nobilitarla arriva un impasto stilistico che assembla, in modo omogeneo, sogni, miracoli, poesia del paesaggio. É un’opera tutt’altro che perfetta, ma ricca di fantasia e originalità.