Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno - 1 settembre 2006

Stampa
PDF
Indice
Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno
30 agosto 2006
31 agosto 2006
1 settembre 2006
2 settembre 2006
3 settembre 2006
4 settembre 2006
5 settembre 2006
6 settembre 2006
7 settembre 2006
8 settembre 2006
9 settembre 2006
I premi
Galleria fotografica
Tutte le pagine
3° giorno - venerdì 1 settembre
World Trade Center
World Trade Center
Oliver Stone è regista notevolmente discontinuo, le cui opere sono segnate da un’alternanza di risultati con la sola continuità di uno stile greve e la facile ricerca d’effetti che colpiscano allo stomaco. World Trade Center contiene il peggio del cinema di quest’autore. Due esempi. Uno dei due agenti dell’autorità portuale, intrappolati sotto le macerie del WTC dopo il crollo causato dall’attentato del 11 settembre 2001, ha una visione ed ecco apparire su schermo, segnato da una gran luminosità, un Cristo con tanto di cuore fiammeggiante e bottiglia d’acqua minerale in mano. Manca la messa in evidenza della marca della bevanda e saremo al vertice del kitsch. Altro caso. Il punto in cui giacciono i due è individuato un ex marine che, sentita la notizia della strage, riprende divisa e armamentario e parte, da solo, alla ricerca dei superstiti. Un’ultima chicca la offre la didascalia finale che c’informa come questo personaggio abbia abbandonato la vita borghese, si sia arruolato nuovamente nel corpo d’elite dove ha trascorso ben due turni in Iraq. In poche parole il film è percorso fa un filone anarcoide – i capi sono sempre pronti a cedere e sono i sottoposti a risolvere eroicamente anche le situazioni più intricate – ma chiaramente orientato a destra. E' un brutto film, ridondante, astuto, e sostanzialmente disonesto nonostante la pretesa di ricostruire un fatto di cronaca: la storia dei due agenti rimasti intrappolati sotto le macerie e salvati molte ore dopo, quando si davano già per morti.
Black Book
Black Book
Qualche cosa di simile accade anche in Black Book (Libro nero) dell’olandese americanizzato Paul Verhoeven (RoboCop, 1987; Total Recall, 1990; Basic Istintct, 1992) che, ispirandosi anche lui ad una storia vera, ci racconta di una cantate ebrea, la cui famiglia è stata sterminata in un tentativo di fuga dall’Olanda occupata, che s’innamora di un ufficiale dell’intelligence nazista e riesce a svelare, a guerra finita, il tradimento di un importante membro della resistenza, in realtà un collaborazionista. Il film è gestito come un romanzo d’azione e d’avventura, con un discreto numero di scene erotiche, molte sparatorie e gli inevitabili colpi di scena. Un pasticcio commerciale la cui presenza ad un’importante rassegna di cinema appare del tutto ingiustificata. Assai meglio il piccolo film Daratt (Siccità) di Mahamat-Saleh Haroun, un regista nato nel Chad ma di formazione francese, qui al suo terzo lungometraggio. Lo scenario è quello del paese africano ai giorni nostri, quando gli odi alimentati da una lunghissima guerra civile, iniziata nel lontano 1965, divampano nonostante un tentativo di conciliazione basato sulla promulgazione dei un’amnistia generale. Anzi, proprio questo provvedimento di clemenza incendia i desideri di vendetta e spinge molti a tentare di farsi giustizia da soli. Fra questi c’è il sedicenne Atim che vuole uccidere l’assassino di suo padre. Questi è diventato un panettiere afono, dopo che ha avuto le corde vocali offese da un tentativo di strangolamento. La convivenza fra i due, il ragazzo accetta di diventare l’assistente dell’artigiano nella attesa del momento di ucciderlo, si trasforma in comprensione dei drammi che entrambi hanno dovuto affrontare e della crudeltà della vita che è toccata loro in sorte. Nel finale il giovane rinuncia ad uccidere convinto che al tempo dell’odio è subentrato quello della convivenza. Il film è molto bello, forte nella scelta degli ambienti, sia interni sia naturali, dispone di due ottimi attori e analizza in maniera tutt’altro che banale un grumo di odio e dolore che non ha coordinate solo nel paese indicato, ma riguarda moltissime altre situazioni.
Le Pressentiment
Le Pressentiment
Ha preso il via anche la 21ma edizione della Settimana Internazionale della critica e lo ha fatto con Le Pressentiment (Il presentimento) dell'’attore e regista Jéan-Pierre Darroussin. Charles Bénésteau è un membro della grande borghesia parigina. Quasi senza dare spiegazioni lascia moglie, famiglia e il lavoro d’avvocato per andare a vivere, in solitudine, in un quartiere popolare. Il desiderio di fare finalmente ciò che vuole lo porterà alla dolorosa scoperta che la felicità non alberga neppure lì. Il presentimento è la classica prova dell’ottimo livello di qualità media che segna il cammino della cinematografia francese. E’ veramente straordinario che, in un film d’esordio seppur di un regista che ha una lunga frequentazione del mondo del cinema come Jéan-Pierre Darroussin, attore simbolo dell’opera di Robert Guédiguian, vi sia una tale robustezza stilistica in ogni aspetto dell’opera: dalla sceneggiatura, alla fotografia, al montaggio, alla recitazione. Questo è un primo elemento positivo nella valutazione del film, ma ben più importante è il valore stesso dell’opera che, con un andamento stilisticamente classico, sviluppa un discorso molto articolato in cui entrano le riflessioni sul senso della vita, il rapporto fra creatività e volgarità del quotidiano, ideali e realtà. Un film robusto che si segue con attenzione e piacere.