Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno

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Indice
Mostra di Venezia 2006, giorno per giorno
30 agosto 2006
31 agosto 2006
1 settembre 2006
2 settembre 2006
3 settembre 2006
4 settembre 2006
5 settembre 2006
6 settembre 2006
7 settembre 2006
8 settembre 2006
9 settembre 2006
I premi
Galleria fotografica
Tutte le pagine

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  1. mercoledì 30 agosto
  2. giovedì 31 agosto
  3. venerdì 1 settembre
  4. sabato 2 settembre
  5. domenica 3 settembre
  6. lunedì 4 settembre
  7. martedì 5 settembre
  8. mercoledì 6 settembre
  9. giovedì 7 settembre
  10. venerdi 8 settembre
  11. sabato 9 settembre
  12. i premi
  13. galleria fotografica
Quest'anno seguiremo la mostra del cinema di Venezia con un reportage giornaliero. Vi riferiremo dei film più interessanti della sezione competitiva e di quelli di maggior rileivo presenti nelle altre parti della Mostra. Dedicheremo una particolare attenzione ai film presnetati dalla Settimana Internazionale della Critica (SIC), una sezione inserita nel cartellone della Biennale, ma gestita atitonomamente seal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI).

1° giorno - mercoledì 30 agosto
The Black Dalia
The Black Dalia
La sessantatreesima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha preso il via. Stando al cartellone, e alle dichiarazioni del direttore Marco Müller, ci aspettano giorni radiosi che smentiranno di chi vede, almeno da un paio d’anni a questa parte, una vasta crisi della creatività cinematografica a livello planetario. Se i programmi di Berlino e Cannes sono stati mediamente modesti, ci si dice, Venezia si muoverà in controtendenza usando le molte opere ultimate nel corso dell’estate e, ma questo è solo suggerito, grazia e al fiuto e all’abilità del direttore e dei suoi collaboratori. Se così sarò ne saremo particolarmente felici sensibili come siamo al cine ad alta capacità espressiva e forte impatto tematico. Per ora ci sia permesso sospende il giudizio e limitarsi a parlare di ciò che abbiamo già visto. Dalia Nera (The Black Dahlia) è il titolo di un romanzo che James Ellroy ha pubblicato nel 1987. Questo libro fa parte, con Il Grande Nulla (1988), L.A. Confidential (1990, trasposto in film nel 1997 da Curtis Hanson) e White Jazz (1990), di una tetralogia dedicata alla Los Angeles, colta fra la fine degli anni quaranta e cinquanta. Dalia Nera è ispirato ad una storia vera. Nella Los Angeles del 1947 è ritrovato il corpo, seviziato e squartato, di un’attricetta che si prostituiva per sopravvivere. Indagano sul caso due ex pugili ora poliziotti. Il tutto in un panorama segnato da corruzione e violenza. Brian De Palma ha tratto da questo romanzo un film, che ha aperto la Mostra, scegliendo di distendere su una linea retta un racconto che lo scrittore aveva costruito su moduli oscillanti nel tempo e sulla cronologia. Chi ha letto il romanzo ricorderà una carta difficoltà a seguirne la vicenda causa il susseguirsi di capitoli che alternano le storie dei vari personaggi e mescolano i tempi degli accadimenti. Il regista ha dipanato questa matassa, anche a costo di perdere in originalità e renderne particolarmente evidente l’artificiosità e una certa oscurità. Per farlo ha fatto un non lieve ricorso alla voce fuori campo per spiegare ciò che accade o è successo. Il risultato non è del tutto convincente e, se il film rimane un’opera di sicuro interesse, è difficile collocarla fra le migliori di questo cineasta, anche per la scelta di focalizzare la storia d’amore a tre, fra l’ex-prostituta e i due pugili diventati amici e poliziotti, a scapito del quadro sociale, uno degli elementi più in pressanti del romanzo. E’ una decisione che ha fatto slittare sullo sfondo temi fondamentali, quali il razzismo, la corruzione, la violenza delle forze dell’ordine, la complicità fra delinquenza e tutori della legge. Ne è risultato un film formalmente ineccepibile, ma quasi privo d’anima. Un lavoro ben fatto, ma senza una reale ispirazione.

2° giorno - giovedì 31 agosto
Luce del secolo
Luce del secolo
Il tailandese Apichatpong Weerasethkul ha alle spalle una solida carriera di documentarista e d’autore di installazioni multimediali. Ha diretto anche quattro lungometraggi il più noto dei quali, Sanaeha (Vostro devoto), ha avuto un buon successo di critica. La qua quinta fatica in questo campo è stata presentata in concorso alla Mostra del cinema. S’intitola Sang Sattawat (Luce del secolo) e porta all’esasperazione un metodo narrativo fatto di ritmi lenti, osservazione fredda della realtà esclusione di qualsiasi intervento drammaturgico some lo intende la cultura occidentale. In poche parole è uno di quei film in cui apparentemente non accade nulla. In questo caso seguiamo il lavoro di alcuni medici che operano in un ospedale, prima vecchiotto, poi ultramoderno con reparti riservati alle altre cariche dell’esercito, dottoresse più simili a fattucchiere che a medici, giovani innamorati di dottoresse giovani e carine. Nel finale la macchina da prese esce dagli angusti corridoi e dai sotterranei per riconquistare la luce di un panorama cittadino anch’esso divisi un due: una prima parte quasi bucolica e vecchio stile e una nuova americanizzante e affollata. Il film appare una metafora della vita con quel tanto di rimpianto per il passato e quel molto di gusto del filosofeggiare. Ha immagini bellissime e un forte gusto della meditazione, ma ha anche un sapore di maniera che non scaccia del tutto un certo sospetto, ambizioso, di astuzia.
Hollywoodland
Hollywoodland
Sembra proprio che una parte dei film della mostra abbia un particolare interesse per l’Hollywood degli anni cinquanta. Dopo Black Dahlia di Brian De Palma ecco ora di Hollywoodland di Allen Coulter. Questa volta siamo nel 1959 e il suicidio, possibile omicidio, di un divo reso famoso dalla serie televisiva Superman serve da filo conduttore per un’indagine che mette in luce il lato oscuro della mecca del cinema. Produttori feroci e capaci di assistere senza battere ciglio agli amori delle mogli, poliziotti che non vedono e non sentono nulla, guardie private più propense ad usare muscoli e manganelli del cervello. Il tutto si dipana attorno all’indagine di un investigatore privato, incaricato dalla madre del morto di dimostrarne l’assassinio. Il film è particolarmente ben costruito, compatto nella narrazione, avvincente nella trama. Un bel poliziesco dai risvolti intriganti e dalle soluzioni plurime che richiama apertamente il grande cinema americano degli anni quaranta e un felice appuntamento anche per gli spettatori di oggi. Le giornate degli autori hanno presentato L’udienza è aperta, un bel documento di Vincenzo Marra (Tornando a casa, 2001 - Vento di terra, 2004) sui mali della giustizia indagati attraverso alcune udienze di un processo per reati di camorra. Lungaggini, arzigogoli legali, pregiudizi destrorsi emergono impietosamente davanti all’occhio di una macchina da presa capace di diventare realmente un testimone attento di ciò che filma.

3° giorno - venerdì 1 settembre
World Trade Center
World Trade Center
Oliver Stone è regista notevolmente discontinuo, le cui opere sono segnate da un’alternanza di risultati con la sola continuità di uno stile greve e la facile ricerca d’effetti che colpiscano allo stomaco. World Trade Center contiene il peggio del cinema di quest’autore. Due esempi. Uno dei due agenti dell’autorità portuale, intrappolati sotto le macerie del WTC dopo il crollo causato dall’attentato del 11 settembre 2001, ha una visione ed ecco apparire su schermo, segnato da una gran luminosità, un Cristo con tanto di cuore fiammeggiante e bottiglia d’acqua minerale in mano. Manca la messa in evidenza della marca della bevanda e saremo al vertice del kitsch. Altro caso. Il punto in cui giacciono i due è individuato un ex marine che, sentita la notizia della strage, riprende divisa e armamentario e parte, da solo, alla ricerca dei superstiti. Un’ultima chicca la offre la didascalia finale che c’informa come questo personaggio abbia abbandonato la vita borghese, si sia arruolato nuovamente nel corpo d’elite dove ha trascorso ben due turni in Iraq. In poche parole il film è percorso fa un filone anarcoide – i capi sono sempre pronti a cedere e sono i sottoposti a risolvere eroicamente anche le situazioni più intricate – ma chiaramente orientato a destra. E' un brutto film, ridondante, astuto, e sostanzialmente disonesto nonostante la pretesa di ricostruire un fatto di cronaca: la storia dei due agenti rimasti intrappolati sotto le macerie e salvati molte ore dopo, quando si davano già per morti.
Black Book
Black Book
Qualche cosa di simile accade anche in Black Book (Libro nero) dell’olandese americanizzato Paul Verhoeven (RoboCop, 1987; Total Recall, 1990; Basic Istintct, 1992) che, ispirandosi anche lui ad una storia vera, ci racconta di una cantate ebrea, la cui famiglia è stata sterminata in un tentativo di fuga dall’Olanda occupata, che s’innamora di un ufficiale dell’intelligence nazista e riesce a svelare, a guerra finita, il tradimento di un importante membro della resistenza, in realtà un collaborazionista. Il film è gestito come un romanzo d’azione e d’avventura, con un discreto numero di scene erotiche, molte sparatorie e gli inevitabili colpi di scena. Un pasticcio commerciale la cui presenza ad un’importante rassegna di cinema appare del tutto ingiustificata. Assai meglio il piccolo film Daratt (Siccità) di Mahamat-Saleh Haroun, un regista nato nel Chad ma di formazione francese, qui al suo terzo lungometraggio. Lo scenario è quello del paese africano ai giorni nostri, quando gli odi alimentati da una lunghissima guerra civile, iniziata nel lontano 1965, divampano nonostante un tentativo di conciliazione basato sulla promulgazione dei un’amnistia generale. Anzi, proprio questo provvedimento di clemenza incendia i desideri di vendetta e spinge molti a tentare di farsi giustizia da soli. Fra questi c’è il sedicenne Atim che vuole uccidere l’assassino di suo padre. Questi è diventato un panettiere afono, dopo che ha avuto le corde vocali offese da un tentativo di strangolamento. La convivenza fra i due, il ragazzo accetta di diventare l’assistente dell’artigiano nella attesa del momento di ucciderlo, si trasforma in comprensione dei drammi che entrambi hanno dovuto affrontare e della crudeltà della vita che è toccata loro in sorte. Nel finale il giovane rinuncia ad uccidere convinto che al tempo dell’odio è subentrato quello della convivenza. Il film è molto bello, forte nella scelta degli ambienti, sia interni sia naturali, dispone di due ottimi attori e analizza in maniera tutt’altro che banale un grumo di odio e dolore che non ha coordinate solo nel paese indicato, ma riguarda moltissime altre situazioni.
Le Pressentiment
Le Pressentiment
Ha preso il via anche la 21ma edizione della Settimana Internazionale della critica e lo ha fatto con Le Pressentiment (Il presentimento) dell'’attore e regista Jéan-Pierre Darroussin. Charles Bénésteau è un membro della grande borghesia parigina. Quasi senza dare spiegazioni lascia moglie, famiglia e il lavoro d’avvocato per andare a vivere, in solitudine, in un quartiere popolare. Il desiderio di fare finalmente ciò che vuole lo porterà alla dolorosa scoperta che la felicità non alberga neppure lì. Il presentimento è la classica prova dell’ottimo livello di qualità media che segna il cammino della cinematografia francese. E’ veramente straordinario che, in un film d’esordio seppur di un regista che ha una lunga frequentazione del mondo del cinema come Jéan-Pierre Darroussin, attore simbolo dell’opera di Robert Guédiguian, vi sia una tale robustezza stilistica in ogni aspetto dell’opera: dalla sceneggiatura, alla fotografia, al montaggio, alla recitazione. Questo è un primo elemento positivo nella valutazione del film, ma ben più importante è il valore stesso dell’opera che, con un andamento stilisticamente classico, sviluppa un discorso molto articolato in cui entrano le riflessioni sul senso della vita, il rapporto fra creatività e volgarità del quotidiano, ideali e realtà. Un film robusto che si segue con attenzione e piacere.

3° giorno - sabato 2 settembre
Private Fears in Public Places
Private Fears in Public Places
Alain Resnais ha un lungo sodalizio con il drammaturgo inglese Alan Aychbourn, culminato con lo straordinario Smoking/No Smoking (1993). L’accordo si consolida con la versione cinematografica di Private Fears in Public Places (Piccole paure condivise) che il regista francese ha tratto dall’omonimo testo teatrale del drammaturgo britannico. Sono tre storie che s’intrecciano. Il dirigente di un’agenzia immobiliare tenta di sedurre una sua collaboratrice, all’apparenza bigotta, in realtà ossessionata da pratiche erotiche segrete. Quest’ultima è assunta come badante da un barman melanconico affinché si curi del padre, iracondo e sessualmente sovraeccitato, lo farà così bene da causare un infarto al vecchio. Nello stesso tempo uno dei clienti del barista, un militare congedato con disonore per un oscuro affaire, è in crisi con la sua compagna, la abbandona e tenta, senza riuscirci, di ricostruirsi una storia con una giovane donna, sorella del dirigente dell’agenzia che affitta appartamenti. E’ un circolo chiuso impastato di tristezza esistenziale, dominato da un fato crudele e segnato dalla mestizia per la malattia e l’annuncio della morte. Sono vite fallite ed esistenze sconfitte che la regia presenta con tratto lieve, psicologicamente approfondito, non privo di momenti umoristici. Un grande saggio sull’umanità, la fragilità e la casualità della vita. Un film bellissimo, di grande respiro stilistico ove il senso teatrale è rispettato sino in fondo, ma la forma è strettamente cinematografica e segnata da una straordinaria intelligenza interpretativa. Completano il quadro un gruppo di attori che offrono interpretazioni davvero straordinarie: Laura Morante, Sabine Azéma, Isabelle Carré, Pierre Arditi, André Dussolier e Lambert Wilson, mentre la voce del padre ammalato e iracondo è di Claude Rich.
The Queen
The Queen
E’, davvero, un gran risultato quello ottenuto da Stephen Frears con The Queen (La regina), uno dei film più interessanti fra quelli visti nelle ultime stagioni. Lo sfondo è la settimana che va dal 31 agosto 1997, notte dell’incidente in cui trova la morte la Principessa Diana nel tunnel dell’Alma, a Parigi, ai funerali cui partecipò più di un milione di persone. Lo scenario è quello della dimora di reale in campagna e lo sguardo scandaglia le rigidità della sovrana, il cui comportamento causò un crollo di gradimento verso la monarchia, e il fare astuto e commosso del primo ministro Tony Blair. La regia corre consapevolmente un grave rischio; quello del teatro degli imitatori. Lo fa mettendo in scena i protagonisti con i veri nomi, i loro modi di atteggiarsi, i tic e le passioni. Vince la sfida in quanto il film non scade mai nella macchietta o nel ricalco insensato. Qui ogni personaggio, ciascun evento è degno di una vera tragedia shakespeariana con una corte chiusa in rituali obsoleti e un mondo pulsante che spinge ai cancelli, sin quasi rischiare di travolgerli. Buona parte della storia si svolge nella residenza estiva di Balmoral, ove la famiglia reale trascorre le vacanze e rimane in splendida solitudine sino al momento in cui gli umori dell’opinione pubblica la costringono, sei giorni dopo la morte di Lady D, ad uscire per recarsi a Buckingham Palace e rendere omaggio alla principessa dagli occhi tristi. Una buona parte del film è dedicata all’astuzia con cui il Primo Ministro riesce a far uscire la corona da un empasse che sembrava mortale e, su quest’argomento, il regista assume un tono quasi farsesco, facendo di Tony Blair un personaggio che sfiora il comico. E' un grande film e un esempio di civiltà e democrazia. Chi oserebbe, in Italia, fare la stesa cosa mettendo in scena Carlo Azeglio Ciampi, Silvio Berlusconi o Massimo D’Alema? La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Yi Nian Zhichu (L'’inizio di un anno) del taiwanese Yu-chieh Cheng. Il film si articola su cinque storie ambientate nell’'ultimo giorno dell’anno, con al centro un giovane regista alle prese con il controverso finale del suo primo film. I personaggi che animano il racconto - un timido assistente che cerca di dichiarare il suo amore all’attrice principale, un immigrato clandestino in cerca del passaporto per andare a trovare il padre malato, un piccolo spacciatore che trascorre la notte di capodanno in discoteca, una giovane che incontra il regista e si spinge con lui in un viaggio fuori della realtà – incarnano un ventaglio d’inizi e fini di altrettante esistenze; come dire, di possibilità di rinascita per costruite una nuova vita. Il film è appesantito da un sovraccarico di suggestioni e mette sicuramente troppa carne al fuoco, ma testimonia una capacità di raccontare e una sensibilità nell’uso della macchina da presa davvero interessanti.

4° giorno - domenica 3 settembre
Children of Men
Children of Men
Il primo week end della Mostra - quello più importante, tenuto conto che il prossimo sarà dedicato alla premiazione – non ha visto il tradizionale arrembaggio di festivalieri, con varie feste, ma senza un sensibile aumento delle presenze. Segno, insieme con altri indici, che le rassegne di film e il cinema, in particolare, non attraversano un momento di particolare favore. Sono almeno due anni che il cartellone dei maggiori festival stentano a trovare titoli di grande rilievo, che le presenze diminuiscono e l’interesse dei media si affievolisce sempre più. Quest’ultimo fatto è causato, soprattutto, dalla politica dei grandi giornali e delle maggiori reti che guardano solo agli eventi – le presenze di divi, le polemiche, gli incidenti di percorso – riservando un’attenzione trascurabile ai film e alla loro valutazione critica. Basta dare un’occhiata alle pagine spettacoli dei maggiori quotidiani italiani per notare come sono decine i film in concorso, per non parlare di quelli presenti nelle sezioni collaterali, cui si riservano poche righe, quando non si ignorano del tutto. E’ davvero una strana situazione quella in cui l’oggetto stesso dell’esistenza della manifestazione – la presentazione dei film – diventa fatto trascurabile. Sono osservazioni che facciamo da tempo, ma che diventano sempre più impellenti, tenuto conto del procedere dei comportamenti. In queste ore sono stati presentati un paio di disegni animati giapponesi, di cui non parleremo convinti come siamo che il mondo dei cartoon richieda specialisti ed esperti in grado di valutarlo con preparazione adeguata e non critici tuttologi capaci di parlare di questo, come di altri generi dotati di una forte specificità, usando i parametri utili al giudizio del film narrativi di tipo tradizionale. Veniamo, invece, ad un film in concorso: Children of Men (I figli degli uomini) porta la firma del regista d’origine messicana Alfonso Cuaron, cui si deve l’ultima versione delle gesta di Harry Potter, Il prigioniero di Azkaban, (Harry Potter and the Prisoner of Azkaban, 2004), ma, soprattutto, della straordinaria commedia amara Y tu mamá también (Anche tua madre, 2001).
Children of Men
Children of Men
La sceneggiatura rielabora un romanzo di P.D. James, pubblicato nel 1992, e colloca la storia in un immaginario futuro, il 2027, in un mondo ove, da ben 19 anni, non nascono più bambini. Le tensioni fra ricchi e poveri, inoltre, hanno portato ad uno stato di guerra permanente con la reclusione in campi di concentramento degli immigrati, il susseguirsi degli attentati, la costruzione di zone iperprotette riservate alle elite del potere. In Inghilterra le forze dell’ordine, trasformate in esercito d’occupazione del proprio paese, sono in guerra permanente con decine di gruppuscoli rivoluzionari e la legalità è di fatto sospesa. In questo clima accade un fatto straordinario: una ragazza di colore rimane incinta è sta per dare alla luce un figlio. Il corpo di questa donna e il tesoro che porta nel ventre, diventano oggetto di una caccia spietata da parte di una fazione guerrigliera, i Pesci, che vuole impadronirsi del neonato per conquistare il potere. La donna, accompagnata da un ex-rivoluzionario deluso, inizia una fuga rischiosa verso un non meglio precisato Progetto che dovrebbe ridare speranza ed equilibrio all’umanità. Come si sarà capito il film mescola decine di riferimenti. Si parte dalla storia di Maria che deve partorire il Salvatore, con vari riferimenti alla vicenda evangelica, si citano movimenti fondamentalisti occidentali, estremisti islamici, violazione dei diritti civili e chi più ne ha più ne metta. C'è troppa, carne al fuoco per una struttura narrativa che, soprattutto nella seconda parte, scivola pesantemente nel film d’azione con inseguimenti sparatorie e scontri fisici. Sono elementi negativi che non riescono ad inquinare del tutto il bilancio di un film costruito molto bene, tanto che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Non un capolavoro, ma un’opera solida, ricca di spunti interessanti purtroppo dispersi su un terreno troppo vasto. La Settimana della Critica ha proposto un film americano prodotto dal cantante Sting. E’ A Guide to Recognizing Your Saints (Una guida per riconoscere i tuoi santi), opera prima del cantante (Gutterboy) eromanziere Dito Montiel, ha una forte componente autobiografica. Un giovane scrittore, nato nel quartiere di Astoria, a New York, oggi vive in California. Ritorna alla casa paterna, dopo anni d’assenza, per rivedere il padre, gravemente ammalato. Il contatto con il mondo dell’infanzia suscita in lui i ricordi anche amari e accentua il rapporto aspro con il padre. Riviviamo, così, la storia d’amore con Laurie e soprattutto i fantasmi dell’estate del 1986, quando, poco più che adolescente, scorazzava per le strade del quartiere con gli amici Antonio, Giuseppe e Nerf. E' in quei giorni, vissuti nel segno degli affetti mancati e della rivalità con una banda di ragazzi neri, che il suo destino e quello dei suoi amici si scontrarono con eventi che avrebbero segnato le loro esistenze. Il cinema basato sull’autobiografia non ha sempre un respiro ampio, ma, in questo caso, mette in campo una grande forza, unendosi ad uno dei temi classici del cinema americano: il contrasto fra padri e figli. Sono due gli elementi di pregio del film e appartengono entrambi all’universo stilistico. Il primo è il mescolamento dei tempi narrativi, che alterna l’ieri all’oggi, senza utilizzare il classico meccanismo del flash back, ma unificando i vari momenti in un continuo narrativo che salda passato e presente. Il secondo è l’uso della macchina da presa in ininterrotto movimento, unita ad una fotografia sgranata a mezzo fra l’opera sperimentale e il reportage televisivo. Sono due caratteristiche di forte modernità cinematografica che qui si accompagnano ad un racconto dalla struttura robustamente classica, conferendo all’opera un sapore piacevole e originale.

6° giorno - lunedì 4 settembre
Fallen
Fallen
I cartelloni dei Festival di cinema alternano spesso opere di grande rilievo a titoli di cui si potrebbe facilmente fare a meno. E’ ciò che è successo alla Mostra in queste ore. Abbiamo visto un film, The Fountain (La fonte) dell’americano Darren Aronofsky (Pi, Il teorema del delirio, 1998; Requiem for e Dream, 2000) che è un brutto pasticcio in cui si mescolano riflessioni pseudo filosofiche sulla vita e la morte esposte con uno stile pesante, presuntuoso, teso a nascondere sconfortanti banalità sotto un manto di fastidiosi intellettualismi. La storia intreccia due piani: quello della lotta di un ricercatore per trovare una medicina che fermi il tumore al cervello di cui è afflitta sua moglie e visualizzazione del romanzo storco, ambientato nel millecinquecento, che l’ammalata sta scrivendo. Nulla di straordinario neppure da parte dell’austriaca Barbara Albert (Nordrand – Borgo Nord, 1999; Böse Zellen - Radicali liberi, 2004) che mette in scena, con Fallen (Cadere) l’incontro di cinque compagne di scuola a quattordici anni dall’ultima volata che si sono viste. E’ l’ovvio bilancio di vite infelici, di percorsi professionali fallimentari, di ricordi strazianti uniti all’impossibile tentativo di fare rivivere oggi ciò che è ormai consegnato alla memoria. Banale e prevedibile. La vera ventata d’aria pura, stilisticamente parlando, è venuta dal taiwanese – d’origine malese – Tsai Ming-Liang. Dobbiamo a questo autore alcuni dei titoli più importanti visti in questi anni: da Aiquing wansui (Vive l’amour, leone d’oro a Venezia 1994) a Dong (Il buco, 1998), sino a Ni neibian jidian (Che ore è laggiù? 2001) e allo straordinario Bu san (Arrivederci Dragon Inn, 2003) sofferta metafora della decadenza della società vista attraverso l’ultimo spettacolo in un grande cinema prima della chiusura definitiva del locale. Il suo penultimo film Tian bian yi duo yun (Il gusto dell’'anguria, 2004) è uscito la scorsa stagione anche in Italia.
Non voglio dormire
Non voglio dormire
Il film che ha presentato a Vanezia s’intitola Hei yanquan (Occhi cerchiati, anche se il titolo inglese è più pregante: Io non voglio dormire solo). Come il solito si tratta di un lavoro dallo stile volutamente lento secondo una filosofia che fa coincidere la rappresentazione con il tempo reale dell’azione. Altro elemento fondamentale, la scarsità dei dialoghi – in quasi due ore di proiezione si sentono una cinquantina di battute – e la raffigurazione metaforica del racconto e della visione di un mondo desolato e distrutto. Al centro del film - ambientato a Kuala Lampur, in Malesia - ci sono due storie d’amore: quella omosessuale fra, un immigrato dal Bangladesh e un senza tetto e quella di quest’ultimo con la serva – cameriera di un bar d’infimo ordine, proprietà di una signora che ha un figlio in coma. La padrona pretende che la ragazza accudisca, anche sessualmente, l’ammalato e paga i favori dell'homeless. Alla fine i tre emarginati si ritroveranno su uno stesso materasso – che ha un ruolo di fondo nella storia – a navigare in una pozza d’acqua al centro di un palazzo in costruzione abbandonato. E’ uno di quei film per i quali le parole hanno un senso minimo, ciò che conta è la forza delle immagini e la loro capacità di descrivere i rapporti fra questo grumo di disperati e una società in decomposizione. Sono esseri umani che sopravvivono d’immondizia, il materasso, vivono in condizioni d’incredibile degrado, subiscono la violenza di chiunque sia riuscito a salire anche un solo gradino sopra la loro condizione. C’è una scena in cui il senzatetto e la cameriera tentano di fare l’amore, gesto di disperazione contro la solitudine non certo atto sentimentale, con maschere rudimentali imposte dall’ondata d’inquinamento che ha coperto la città. E’ questo un mondo in cui neppure l’aria è immune da corruzioni e la sola scelta possibile è fra forme diverse di degrado. Il film è pessimista all’estremo, tristemente erotico, disperato nella raffigurazione di un mondo in cui l’unica speranza è un flebile rapporto interpersonale che supera le preferenze sessuali per farsi ancora di salvezza davanti alla catastrofe. Bellissimo, il nostro candidato più autorevole al Leone d’Oro.
Sur la trace d’Igor Rizzi
Sur la trace d’Igor Rizzi
La Settimana della Critica ha presentato un film franco – canadese, Sur la trace d’Igor Rizzi (Sulle tracce di Igor Rizzi) di Noël Mitrani. Jean-Marc Thomas è un ex calciatore francese finito in miseria dopo aver perso tutti i risparmi in un investimento sbagliato. Si trasferisce a Montréal dove sopravvive svaligiando appartamenti in compagnia di un complice che, un giorno, gli propone di uccidere un uomo in cambio di 15 mila dollari. Perennemente turbato dal ricordo della donna della sua vita, una giovane canadese morta da qualche anno, Jean-Marc oscilla fa l’accettazione del contratto e i rimorsi per quello che ha fatto e per ciò che sta per fare. E' un precorso tribolato che si chiuderà con una nuova maturità. E’ un thriller psicologico che pencola più sul versante dell’introspezione che non su quello dell’azione. In realtà è un percorso, di elaborazione del lutto e di riconquista dell’autostima, mascherato da storia con eventi criminali. Il regista dichiara di essere stato mosso, fra le altre cose, dall’idea di rappresentare Montreal, la più europea delle città canadesi, in inverno facendone una sorta di ventre ovattato in cui maturano drammi e lacerazioni nell’attesa di una rinascita, che, non a caso, avviene in pieno sole. L’esperimento è interessante, anche se non molto riuscito, compromesso come è dall’eccessivo presenzialismo dell’interprete Laurent Lucas, spesso più attento all’angolo di ripresa con cui il regista lo inquadra che ai triboli che dovrebbero sconvolgere il suo animo.

7° giorno - martedì 5 settembre
L’intouchable
L'’intouchable
In queste ultime ore il cartellone della Mostra ha proposto con esiti vari, ma mai completamente soddisfacenti, tre titoli in concorso. Il meno interessante batte bandiera francese. S’intitola L'’intouchable (L'’intoccabile) e lo ha diretto Benoit Jacquot, un regista d’attrici particolarmente apprezzato oltralpe. Il tema è abbastanza usurato – la ricerca del padre mai conosciuto – l’ambientazione - un’India decisamente folcloristica - non delle migliori, l’interpretazione di Isild Le Besco non è fra quelle memorabili. Un film professionalmente corretto, ma nulla più. Stessa valutazione per Bobby di Emilio Estevez di cui è stata presentata una versione in lavorazione secondo una pessima abitudine delle grandi manifestazioni cinematografiche che, pur di accaparrarsi qualche titolo ritenuto importante sottraendolo ad altre rassegne, accettano di presentare opere non finite. E’ difficile, dunque, esprimere un giudizio preciso, visto che né la durata, né la narrazione appaiono definitive.
Bobby
Bobby
Il film ricostruisce la notte del 6 giugno 1968, quando, nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, fu ucciso Robert F. Kennedy che stava per essere consacrato quale candidato democratico nella corsa alla presidenza, poi vinta dal repubblicano Richard Nixon. La tragedia dell’uomo politico è testimoniata molto bene con immagini di repertorio, mentre la storia vera e propria riguarda ben ventidue personaggi che si trovano, per lavoro o in qualità di ospiti, in vari locali dell’albergo. La regia dà il giusto rilievo al clima dell’epoca – i conflitti razziali, la carneficina vietnamita – ma non si spinge oltre nel tentativo di dare una qualsiasi interpretazione dell’omicidio politico. E’ una ricostruzione precisa e ricca di nomi di richiamo – Anthony Hopkins, Demi Moore, Sharon Stone, Laurence Fishburne - ma che assomiglia a certi programmi televisivi, ricchi di aneddoti, ma privi da vere analisi. Il terzo film in programma, primo dei due italiani, è stato l’atteso La stella che non c’è girato da Gianni Amelio (Lamerica, 1994; Le chiavi di casa, 2004) per buona parte nella Cina profonda. La storia, tratta dal libro La dismissione di Ermanno Rea, ha al centro un tecnico che scopre un difetto e il modo per sanarlo in un impianto siderurgico venduto, di seconda mano, dall’Italia alla Cina. Di sua iniziativa, mosso dall’orgoglio per una cosa professionalmente ben fatta, parte per il grande paese asiatico, alla ricerca della fabbrica che ha acquistato l’impianto.
La stella che non c’è
La stella che non c’è
Cosa non facile, vista la complessità della burocrazia e il numero della industrie che operano in quella nazione. Lo aiuta una giovane interprete, con la quale stabilisce un rapporto dapprima brusco, poi umanamente forte, forse persino sentimentale. Il giudizio sul film può essere articolato in tre parti. C'’è il capitolo, molto bello e straordinariamente ispirato, su cui si dipana l’orgoglio del lavoro ben fatto che anima il protagonista, un proletario che non rinuncia al suo stato, ma che lo abita realizzando al meglio e con la maggiore dignità ciò che è chiamato a fare. Su questo piano il film dà il meglio di se nel confronto con gli operai cinesi che, spesso, appaiono poco sensibili alla dignità professionale. C’è, poi, lo sguardo, caotico e a tratti sociologicamente superficiale, sulla Cina, le sue contraddizioni, le durissime condizioni di vita dei suo abitanti. Qui le domande irrisolte sono molte e in qualche punto il film cede a una contemplazione che mal si sposa con momenti in cui domina un facile didascalismo. C’è, infine, il rapporto fra i due personaggi ed è il punto più debole, quello attraversato da alcune pericolose banalità, come la possibile storia d’amore, i conflitto tipici da strana coppia, la duplicazione del finale con un’aggiunta quasi ottimista che stona con l’amarezza profonda di un film votato, come è costume di questo regista, alla registrazione di una sconfitta dolorosa, non disgiunta dalla necessità di superarla e continuare a vivere. La Settimana della Critica ha presentato Egyetleneim (Le mie uniche e sole) dell’ungherese Gyula Nemes. Un giovane vive con disperazione la fine di una storia d’amore inseguendo ogni ragazza che incontra per lenire, con la quantità, il dolore che gli ha lasciato in cuore l’allontanamento della donna che ama. Il cinema magiaro, quello animato dai giovani cineasti, è sempre più sensibile ai modelli occidentali, al cinema cosiddetto videoclipparo. E' una suggestione che si sposa con una profonda sensibilità dai tratti originali e melanconici. Forse non è un caso se, in ogni tempo, il genere in cui i cineasti ungheresi più sono stati in difficoltà è quello comico. Ancora oggi le commedie budapestine sono quanto di più sgangherato si può immaginare. Diverso l’approccio sul versante della malinconia e del dolore. Sarà anche perché questo popolo detiene il record mondiale dei suicidi in rapporto alla dimensione della popolazione, fatto sta che i registi ungheresi tendono ad eccellere nei drammi piuttosto che nelle farse. Sia come sia, il film è particolarmente convincente nelle sequenze di disperazione, quelle d’amore in modo particolare, piuttosto che nei momenti di relativa leggerezza. In questi casi, si veda il lungo piano sequenza con i due giovani ubriachi che circolano per la metropolitana, traspare piuttosto una straordinaria maestria professionale, unita ad un senso quasi raggelato del dramma. In altre parti, in particolare quelle più disperatamente melanconiche, traspare, invece, un senso d’autenticità di grande rilievo.

8° giorno - mercoledì 6 settembre
Ultimi giorni della Mostra e intensificazione delle presentazioni, visto che al già nutrito elenco dei film in concorso si è aggiunto il cosiddetto film sorpresa, ma andiamo con ordine. Euphoria è l’opera d’esordio del russo Ivan Vyrypaev. La storia è quella classica del triangolo in cui il marito, folle di gelosia, uccide a fucilate la moglie e l’amante. C’è poco di nuovo sul versante della vicenda, ma ci sono non poche piacevoli sorprese su quello dello stile. Siamo dalla parti di quel nuovo cinema russo che fa del paesaggio e della disperata solitudine dei personaggi uno dei punti di forza che usa raccontare storie intessute di degrado, vite senza prospettive, esistenze miserabili. Qui siamo nel cuore della grande pianura russa, durante un’estate che rende le starete simili a sentieri di sale. Una balla donna, sposata con un ubriacone e amata da un giovane conosciuto ad una festa di nozze, abita in uno sperduto casolare. Quando un grave incidente, il feroce cane di casa trancia un dito alla figliola della coppia, le offre una possibilità di fuga, eccola mettersi in viaggio con l’amato, inseguita dal marito che farà giustizia sommaria dei de due amanti. Un paesaggio bello e terribile è il punto di forza del film, vero protagonista e motore dell’intera vicenda.
Esiliati
Esiliati
Il cartellone ha poi proposto due film cinesi così diversi l’uno dall’altro da sembrare provenienti da mondi incomunicabili. Fangzhu (Esiliati) dell’hongkonghese Johnnie To, uno dei autori di culto del cinema d’azione orientale, racconta di cinque amici in guerra con un capomafia per ragioni di soldi e d’onore. L’ambientazione è quella della Macao nel 1998, poco prima che la vecchia colonia portoghese ritorni sotto il controllo cinese. Il film vive delle usuali sparatorie – balletto, realizzate con una perizia tecnica che ha dell’incredibile. Perizia tecnica, appunto, perché questo è l’unico, piacevole, punto di forza in un film per molti versi prevedibile e ripetitivo.
Jia Zhang- Ke
Jia Zhang- Ke
Aria del tutto diversa in Sanxia Haoren (Natura morta) di Jia Zhang- Ke (Zhantai, La banchina, 2000; Shijie, Il mondo, 2004) ambientato nella regione in cui sta sorgendo la gigantesca diga delle Tre Gole che determinerà la sommersione di una vastissima parte dei territorio, comprese cittadine come Fengjie, già cancellata dalle acque, ma della quale si sta costruendo una sorta di quartiere - replica. Qui arrivano un uomo e una donna, il primo è un minatore che sta cercando la moglie che non vede da 16 anni, quando è fuggita con la figlia non sopportando di vivere lontano dalla famiglia e dal villaggio natale. La donna, un’infermiera, ha fatto un lungo viaggio per dire al marito, che non torna a casa da due anni, che si è innamorata di un altro e vuole divorziare. Il minatore, che sopravvive partecipando alle squadre di demolizione che stanno abbattendo le case destinate ad essere sommerse dalle acque, convince la moglie e ritornare con lui, mentre l’infermiera riparte dopo aver sanzionato in modo definitivo la separazione dal marito. Il film appartiene al filone che descrive senza infingimenti i disastri morali e materiali di cui si nutre la vorace modernizzazione di quel grande paese e, anche se apparentemente racconta storie individuali, lo fa con occhio più analitico di quanto non faccia, ad esempio, Gianni Amelio ne La stella che non c’è. Il quadro che ne emerge è quello di una macelleria sociale che impone prezzi terribili in nome di un progresso misurato solo in termini di arricchimento del PIL e di occidentalizzazione dell’economia. Un film molto bello e doloroso, un vero esempio di cinema capace di coniugare gusto del racconto e sguardo sulla società.
Fuori concorso è stato presentato l’atteso Inland Empire (Impero interno) del regista di culto David Lynch (The Straight Story, Una storia vera, 1999; Twin Peaks, 1992) che spinge ancora più avanti il suo cinema della mente trascurando quasi del tutto di rendere comprensibili, anche vagamente, le storie che racconta. In questo caso sembrerebbe trattarsi di un intreccio fra tre piani: la realtà, le immagini di un telefilm televisivo e quelle di un film narrativo. L’'attrice che è protagonista di questi tre momenti finisce per vivere gli incubi e le ossessioni dei personaggi che interpreta. Lettura con forti elementi di dubbio, visto che fra cambiamenti di scene, schermi che rimandano le stesse immagini a televisori che, a loro volta, sono visti dai protagonisti del film, personaggi che parlano polacco, spettacoli (forse) teatrali i cui protagonisti hanno maschera da conigli, non è facile districarsi. Rimane la capacità ammaliante di questo autore nel mescolare fantasia e sprazzi di realismo, costruire incubi che non sembrano non finire mai, regalare allo spettatore le immagini di un mondo onirico che sconfina, senza soluzione di continuità in quello reale. Ancor più di come accadeva nel precedente Mulholland Drive non è possibile dare un senso lineare alla storia, si deve gustare, nelle quasi tre ore in cui si dipana, assaporando le immagini senza porsi troppi perché.
La Settimana della Critica ha presentato un film argentino: El Amarillo (Il Giallo) dell’esordiente Sergio Mazza. Un giovane ingenuo, in cerca di pace e lavoro, arriva in un piccolo bar della regione d’'Entre Rios, a nord di Buenos Aires. Qui rimane colpito dal fascino della cantante, una bruna dalla voce malinconica e appassionata. Non si allontanerà più dal locale finendo come tenero cassiere di quello che si scoprirà essere un bordello di campagna. Il cinema argentino sta animando, da alcuni anni, un piccolo, indicativo filone, il cui primo e più efficace esponente è Lisandro Alonso (La libertad, 2001; Los muertos, 2004; Fantasma, 2006). E’ un tipo di cinema che porta alle estreme conseguenze alcune delle intuizioni di Roberto Rossellini e, soprattutto, di Cesare Zavattini: essere possibile dare spessore drammatico alla semplice registrazione della realtà rinunciando, in tutto o quasi, a qualsiasi lenocinio affabulatorio. Il film di Sergio Mazza s’inscrive in questo tipo di cinema, con risultati particolarmente interessanti, riuscendo a dare un quadro straziante e drammatico delle condizioni di vita nelle campagne argentine. E' una situazione che attiene più ad un livello di sopravvivenza minima che non ad una vita vera, seppure in condizioni economiche modeste. Queste prostitute contadine, che alternano prestazioni sessuali ai lavori più umili e normali – pulire la casa, sturare i gabinetti, fare da mangiare, pescare – esemplificano uno stato umano privo di qualsiasi reale prospettiva. E’ in questa situazione che s’inserisce la semplicità, meglio il candore, dell’uomo venuto dalla capitale in cerca di una vita meno compromessa con la lotta per la sopravvivenza. La sua stessa passione per le canzoni romantiche, da cui nasce la fascinazione per la cantante – prostituta, ha il senso di uno spazio di pulizia che riesce a conservarsi intatto in mezzo al lerciume. Un altro obiettivo raggiunto del film si colloca sul versante della narrazione. Qui la radiografia del vero si trasforma in racconto nel senso classico del termine, compiendo un piccolo salto miracoloso, come già avveniva, ad esempio, ne Los nuertos di Lisandro Alonso. Uno scarto geniale che trasforma la fotografia della normalità in storia, racconto di sentimenti e fatti, quadro preciso di psicologie.
 

9° giorno - giovedì 7 settembre
Jean-Marie Straub e Danielle Huillet
Jean-Marie Straub e Danielle Huillet
Cesare Pavese scrisse Dialoghi con Leucò fra il 1945 e il 1947, un testo fra i più originali e importanti della sua creazione letteraria. Sono ventisei brevi conversazioni a due, che affrontano temi come il dolore, la morte, il destino e le imperscrutabili leggi che li governano. A discutere sono eroi mitologici greci e latini, un testo poetico – filosofico di quasi impossibile traduzione cinematografica. Hanno accettato la sfida, vincendola, Jean-Marie Straub e Daniele Huillet, due autori dalla coerenza stilistica ferrea che da anni stanno praticando un cinema rigoroso, antispettacolare per eccellenza, affascinante. Quei loro incontri, costituisce una nuova tappa di un sodalizio con alcuni grandi autori italiani (Elio Vittorini, Franco Fortini). Il film si articola su una manciata di capitoli in cui attori non professionisti recitano parti del libro, immersi in una quieta natura campestre, forte richiamo visivo alla classicità. I loro discorsi riguardano le sorti dell’uomo, la paura della morte, la ferocia delle guerre, il turbamento per la follia che pervade il mondo. Argomenti di straordinaria attualità che testimoniano la forza dello scrittore piemontese e la permanenza delle inquietudini di cui si è fatto interprete. Va dato atto a Marco Műller di aver avuto il coraggio culturale di mettere in concorso un film che non concede nulla allo spettatore, anzi richiede un’attenzione forte.
Nue Proprietà
Nue Proprietà
Nue Proprietà (Nuda proprietà), belga Joachim Lafosse, si colloca, invece sul versante apertamente narrativo. Il film percorre, con abilità, le strade dell’'opera psicologica d’ambiente familiare. Siamo nella campagna belga, in una grande fattoria restaurata ove abitano, dopo il divorzio, una donna e i due figli gemelli, ormai adulti anche incapaci di assumersi responsabilità autonome. La vita trascorre fra continui litigi con l’ex-marito, sostenuto da uno dei giovani, e progetti di costruzione di un’esistenza diversa accanto ad un nuovo uomo. La donna, esasperata, abbandona tutto e va a vivere da amici. I due giovani, rimasti soli, aumentano i litigi sino ad un tragico incidente in cui uno dei due rischia di uccidere l’altro. Forse ora, dopo tanti scontri, è venuto il momento di raccogliere i cocci e voltare pagina.
Nue Proprietà
Nue Proprietà
Il film è basato su raffinate notazioni psicologiche cui gli interpreti, in particolare la bravissima Isabelle Huppert, offrono prestazioni di grande livello. Lo stile è vicino a quello che sì sul definire il nuovo cinema belga, per intenderci quello che ha in Jean-Pierre e Luc Dardenne (L’enfant - Una storia d’amore, 2004; Rosetta, 1999) i massimi interpreti. Un misto di realismo nella fotografia, di raffinatezza nella recitazione e nella sceneggiatura. Un composto che rende l’opera stimolante e di ottimo livello.
Hiena
Hiena
La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Hiena (Iena) del polacco Grzegorz Lewandowski. Lo scenario è quello di un villaggio della Slesia, dove Maly, il piccolo protagonista, e i suoi compagni si raccontano storie spaventose udite dai genitori che riguardano un uomo violento che causò la fuga del figlio. Un giorno il padre del bimbo muore in un incidente in miniera. Poco dopo si sparge la voce che una iena minaccia gli abitanti del borgo, uccidendo crudelmente chi le capita a tiro. Un uomo, orribilmente sfigurato, compare quasi all’improvviso nei boschi che circondano la cittadina e il racconto lascia intuire che è il figlio dell’uomo violento di cui tutti parlano. Maly lo aiuta a nascondersi, anche se, nel frattempo, ci sono state altre morti. L’ipotesi che dietro queste uccisioni c’è la misteriosa “iena” diventa, così, più che un sospetto. Attraverso l’horror sono passate infinite riflessioni: sociologiche, psicologiche, politiche, religiose. Questo film si muove un po’ su tutti questi terreni: è un quadro delle macerie che il crollo del socialismo reale ha lasciato dietro di sé. E’ un catalogo degli incubi che accompagnano il passaggio dall’infanzia alla giovinezze. E’ una feroce invettiva contro lo stato di disperazione in cui i crimini di politica economica hanno gettato intere nazioni. E’ una dolorosa riflessione sulla morte di Dio. Tutti questi argomenti concorrono, intrecciandosi, a costruire un discorso inquietante e ben costruito in cui gli elementi classici si saldano alle riflessioni più avanzate in campo sociale. Lungi dall’essere ciò che potrebbe sembrare ad un primo approccio, un classico racconto gotico, Iena è un testo complesso e ricco di suggestioni.

9° giorno - venerdì 8 settembre
Mushishi
Mushishi
La presentazione dei film in concorso alla 63 ma Mostra del cinema di Venezia si è chiusa con la proiezione di un film giapponese e del secondo titolo italiano. Otomo Katsuhiro, uno dei grandi nomi dell’animazione giapponese, e passato, un paio d’anni or sono, al film narrativo di stampo tradizionale con Suchîmubôi (Il ragazzo del vapore), visto fuori concorso, come film di chiusura, proprio a Venezia. La sua nuova fatica s’intitola Mushishi (Il signore degli insetti) e mescola fantasy a horror moderato nella storia di un cacciatore di mushi, spiritelli ambigui che amano introdursi nei corpi per privarli dell’udito o, nei casi più gravi della vista. Questa sorta di esorcista magico dovrà vedersela con forze malefiche di vario tipo, uscendone vincitore. Il film alterna paesaggi straordinari ad effetti digitali non entusiasmanti e sviluppa una sorta di poetica dell’irreale non proprio irresistibile.
Nuovomondo
Nuovomondo
Il secondo film italiano in concorso porta la firma di Emanuele Crialese (Respiro, 2002) e s’intitola Nuovomondo. Siamo agli inizi del secolo scorso, nel pieno della grande migrazione di contadini meridionali verso le Americhe. Salvatore Mancuso vende tutto per imbarcarsi con figli e madre verso gli Stati Uniti. Dopo un viaggio terribile arriveranno a Staten Island ove li attende una sezione degna di un campo di sterminio. Solo lui e il fratello maggiore saranno scelti, mentre il figlio minore e la madre saranno respinti. Il film ha uno stile complesso che alterna un realismo quasi verghiano, la prima parte siciliana, momenti fantastici (i sogni d’abbondanza del protagonista, il finale con tutti i personaggi che nuotano in un mare di latte) a tratti quasi documentaristici. Questi ultimi prevalgono nella parte americana e costituiscono il pregio maggiore di un film degno ma discontinuo. Un’opera di buon livello che una maggiore coerenza stilistica avrebbe trasformato in un grande film.
La rieducazione
La rieducazione
Anche la Settimana della Critica ha presentato, fuori concorso, un film italiano. E’ La rieducazione, produzione a bassissimo costo (è costata appena 500 euro!) diretta dai membri del collettivo Amanda Flor: Davide Alfonsi, Alessandro Fusto, Daniele Guerrini, Denis Malagnino. Un giovane laureato della provincia romana passa le giornate facendo volontariato in parrocchia. Un giorno il padre decide di fargli affrontare le responsabilità della vita: prima lo manda a lavorare in un cantiere edile, poi gli toglie casa e viveri. Per lui sarà un’esperienza durissima da cui emergerà un uomo diverso. La prima cosa che colpisce è la capacità della regia di rendere drammatico e costruire una vera e propria alta tensione emotiva facendo ricorso ad elementi molto semplici e realisti. In fondo il nocciolo della storia si potrebbe riassumere con poche parole: un piccolo costruttore – cialtrone e truffaldino – tenta di imbrogliare i propri dipendenti, una vera galleria di emarginati, ma questi riescono a sfuggirgli o per un colpo di fortuna casuale o perché lo derubano. Messa in questo modo l’opera sembrerebbe ben poco interessante, invece la sua forza è in uno stile che – ove non sorgesse qualche remora sia per l’usura della formula, sia per alcune ingenuità presenti nella sceneggiatura e nella recitazione - si potrebbe riallacciare a quello splendore del vero tanto caro a Roberto Rossellini e al realismo pasoliniano. Per questo il film costituisce veramente un piccolo gioiello nel panorama, non particolarmente ricco, del giovane cinema italiano. Il suo discorso disperato che fa sulla parcellizzazione (vogliamo dire, morettianamente, berlusconizzazione?) della cultura profonda è lucido e impietoso. Questi uomini - siano essi sbandati, operai, intellettuali, artigiani, donne svuotate di ogni carica umana e sessuale – rappresentano davvero un’umanità destrutturata, privata di qualsiasi carattere civico. Solo il prodotto finale di un individualismo che ha abbattuto quasi tutte le barriere fra civiltà e giungla. Come il solito impazzano le previsioni sui premi. Le nostre scelte vanno al film di Tsai Ming-Liang Hei yanquan (Occhi cerchiati), e a quelli di Alain Resnais Private Fears in Public Places (Piccole paure condivise, ma in Italia si chiamerà Coeurs), Stephen Frears The Queen (La regina) e La stella che non c’è di Gianni Amelio. Saremmo anche contenti se fossero coronati Daratt (Siccità) di Mahamat-Saleh Haroum o su Euphoria (Euforia) del russo Ivan Vyrypaev, ma temiamo che siano ipotesi che hanno ben poche possibilità di avverarsi.

10° giorno - sabato 9 settembre
Belle Toujours
Belle Toujours
Ultimi scampoli della Mostra del Cinema con alcuni film delle sezioni collaterali. Il grande vecchio (98 anni!) Manoel de Oliveira ha reso omaggio ad un maestro del passato: Luis Buñuel. Il riferimento è ad uno dei capolavori di quest’autore: Belle de Jour (1967). Il film, intitolato Belle Toujours (Bella sempre), raccontava di una bella signora borghese che si prostituiva, più per gusto di scelte forti che per denaro, all’insaputa del marito. Quest’ultimo finirà su una seggiola a rotelle, dopo essere stato colpito da un cliente – amante della donna. Il regista portoghese riprende due personaggi di quel film: la protagonista e l’amico di famiglia che, forse, aveva rivelato al marito le strane predilezioni della donna. Oggi sono due anziani e il loro incontro si trasformerà in una piccola rissa. Gli interpreti sono Michel Piccoli, lo stesso del vecchio film, e Bulle Ogier che ha preso il posto di Catherine Deneuve. L’anziano gaudente vuole rivedere la donna il cui ricordo ha mantenuto tesi i suoi sensi in tutti questi anni. La donna accetta un appuntamento a cena, dopo essergli sfuggita più di una volta, perché spera che lui le dica se ha informato o no il marito, ormai defunto, delle sue scorribande erotiche. Quando lui si rifiuta di dirglielo e quasi la deride, lei rovescia il tavolo e va via. Il film è molto piacevole, ricco di citazioni al cinema del grande spagnolo e momenti ironici, ma non va oltre il gioco piacevole, il divertimento di un grandissimo autore che sa essere brillante anche quando si prende una piccola vacanza creativa.
Pavel Lounguin
Pavel Lounguin
Altro titolo interessante Ostrov (L'’isola) del russo Pavel Lounguin, un film che ritorna sul tema della guerra e delle responsabilità individuali davanti alla scelta fra sopravvivere e tradire. Siano nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel Mar Bianco, un rimorchiatore sovietico è catturato dai tedeschi che impongono ad un giovane prigioniero di uccidere il suo capitano, se vuole salvarsi così la vita. Lui spara, ma da quel momento è dilaniato da un terribile rimorso che lo segnerà per sempre. Più di trenta anni dopo, nel 1976, in quella stessa regione sorge un monastero ortodosso nella cui carbonaia abita il marinaio assassino, divenuto monaco e autoassegnatosi alle mansioni più umili. Il religioso ha anche fama di guaritore, compie miracoli, prevede il futuro e usa parole semplici e ironia per indicare ai confratelli la via della santità. Un giorno arriva nell’eremo glaciale un potente ammiraglio, che accompagna la figlia impazzita dopo la morte del marito in un disastro che richiama il dramma del sommergibile nucleare Kursk. Il monaco libera la donna dalla possessione che la divora e riconosce nell’alto ufficiale il comandante che credeva di aver ucciso e che, invece, si era salvato. Ora i rimorsi sono sopiti, la lunga espiazione ha termine e il monaco può morire sereno. Il film ha un forte contenuto spirituale, gioca su immagini di grande suggestione e fa leva sul contrasto fra una natura terribilmente stupenda e la vita miserabile del religioso. Una riflessione sul senso ci colpa e sulla necessità di mettere fine all’espiazione e anima un film molto bello.

I premi
Jia Zhang- Ke
Jia Zhang- Ke
Premi ufficiali della 63. Mostra
La Giuria Venezia 63 della 63. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Catherine Deneuve e composta da José Juan Bigas Luna, Paulo Branco, Cameron Crowe, Chulpan Khamatova, Park Chan-wook, Michele Placido, dopo aver visionato tutti i ventidue film in concorso, ha così deliberato:
 
LEONE D’ORO per il miglior film a:
Sanxia Haoren (Natura Morta) di Jia Zhang-Ke
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
Alain Resnais per il film Private Fears in Public Places (Coeurs)
LEONE D’ARGENTO RIVELAZIONE a:
Emanuele Crialese per il film Nuovomondo - Golden Door
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
Daratt (La siccità) di Mahamat-Saleh Haroun
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a:
Ben Affleck nel film Hollywoodland di Allen Coulter
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a: Helen Mirren nel film The Queen (La regina) di Stephen Frears
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente a: Isild Le Besco nel film L’intouchable (L'intoccabile) di Benoît Jacquot
OSELLA per il miglior contributo tecnico a: Emmanuel Lubezki direttore della fotografia del film Children of Men (I figli degli uomini) di Alfonso Cuarón
OSELLA per la migliore sceneggiatura a: Peter Morgan per il film The Queen di Stephen Frears
LEONE SPECIALE a: Jean-Marie Straub e Danièle Huillet per l’innovazione del linguaggio cinematografico
Sezione ORIZZONTI
La Giuria Orizzonti della 63. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, composta da Philip Gröning (Presidente), Carlo Carlei, Yousri Nasrallah, Giuseppe Genna e Kusakabe Keiko, ha deciso di conferire:
PREMIO ORIZZONTI a:
Mabei shang de fating di Liu Jie
PREMIO ORIZZONTI DOC a:
When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts di Spike Lee
PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS”
La Giuria Opera Prima della 63. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della composta da Paula Wagner (Presidente), Guillermo Del Toro, Mohsen Makhmalbaf, Andrei Plakhov, Stefania Rocca, ha deciso di conferire il:
LEONE DEL FUTURO - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” a:
Khadak di Peter Brosens e Jessica Woodworth
CORTO CORTISSIMO
La Giuria Corto Cortissimo della 63. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della composta da Teboho Malatsi (Presidente), Francesca Calvelli, Aleksej Fedorčenko, ha deciso di assegnare:
MENZIONE SPECIALE al film:
Adults Only di YEO Joon Han
PRIX UIP per il miglior cortometraggio europeo a:
The Making of Parts di Daniel Elliott
LEONE CORTO CORTISSIMO per il miglior cortometraggio a:
Comment on freine dans une descente? di Alix Delaporte
PREMIO SETTIMANA DELLA CRITICA
La Giuria della 21. Settimana Internazionale della Critica, composta da Fabrizio Grosoli, Cristiana Paternò e Erfan Rashid, ha assegnato all'unanimità il Premio "Settimana Internazionale della Critica" di 3.000 euro al Miglior Film della Sic al film:
A GUIDE TO RECOGNIZING YOUR SAINTS di Dito Montiel
La pellicola vince inoltre il premio ISVEMA consistente in 50.000 € di promozione pubblicitaria sulle reti televisive indipendenti associate al circuito Isvema.
La giuria di quest’edizione della mostra ha dimostrato un’ammirevole capacità di giudizio premiando almeno tre titoli, Natura morta di Jia Zhang-Ke, Quei loro incontri di Jean Marie Straub e Danielle Huillet e Daratt (La siccità) di Mahamat-Saleh Haroun, che non rientrano nelle preferenze dei normali circuiti commerciali. E' una decisione che ha avuto due pregi: segnalare la straordinaria forza degli autori cinesi di quella che è detta la sesta generazione e ricordare che il cinema non è solo spettacolarità e divertimento. Gli altri premi rientrano nei canoni della cosiddetta normalità, nel senso che riconosco l’eccellenza d’attori e tecnici che operano nel cinema alto, seppur non alieno da obiettivi anche commerciali. L’unica perplessità riguarda il Leone d’argento dato al bel film d’Alain Resnais per Private Fears in Public Places (Coeurs), quasi uno sgarbo per uno dei grandi autori del nostro tempo. Meglio sarebbe stato non farne niente, piuttosto che anteporgli un autore importante, ma non certo un maestro, come Jia Zhang-Ke. Per quanto riguarda Nuovomondo Emanuele Crialese, non si può che essere d’accordo, quantomeno come invito a questo regista, già molto bravo, affinché ci dia opere ancora migliori.

Galleria fotografica
mostra di Venezia 2006
30/8/06 - 9/9/06
 
 
 
 
 
 
 
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