Venezia 2006. L'ambiguità del Post Moderno

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Anche quest'anno la Mostra del Cinema di Venezia ci ha portato una ricca silloge di immagini, di storie, di riflessioni.

A noi sono sembrati particolarmente interessanti quattro film, uno inglese, La Regina di Stephen Frears, due francesi: La Premonizione di Jéan-Pierre Darroussin e Cuori di Alain Resnais, e uno italiano: La stella che non c'è di Gianni Amelio. Il Film inglese racconta le tensioni politiche e i conflitti di mentalità, resi acuti dalla crisi Diana fra il governo di Tony Blair e l'istituzione monarchica del Regno Unito.

Quasi una presa diretta sul presente, quindi. Con molti rischi di smagliature: possibili cedimenti allo scandalismo oppure reticenze elusive che sarebbero apparse sgradevoli, tanto più col sospetto che si volessero banalmente sfruttare le eccitazioni mediatiche ed i tanti si dice.

Al contrario, invece, la forza espressiva del film merita apprezzamento proprio per il suo calibrato senso della misura, e per la maestria dell'interpretazione che danno lucidità e risalto al tema trattato.

Da un lato la tradizione, lo stile, l'understatement, e dall'altro l'evoluzione dello spirito pubblico, del costume, della mentalità delle stesse classi dirigenti che accettano, quando è necessario, il cambiamento anche radicale, secondo l'antica sapienza della società anglosassone che, da secoli,è campione di adattamento senza mai diventare subalterna.

E' significativo che il momento di maggior crisi per la Regina Elisabetta sia collocato entro l'immensa tenuta di Balmoral, in Scozia, così cara alla Regina Vittoria, sua bisnonna. Da un lato una scena ottocentesca con la caccia al cervo, e dall'altro i sondaggi quotidiani che richiedono velocità di decisione, lucidità semi istantanea, e senso forte della rotta da tenere. Niente che possa far pensare al trasformismo, o anche solo all'opportunismo, nella decisione finale della Regina di rinunciare alla regola del lutto privato e della sobrietà silenziosa, accettando di partecipare al lutto pubblico ed all'emozione popolare, ma piuttosto la saggezza della storia inglese. Di un popolo e di una classe dirigente che prima tagliò la testa del suo re, a metà Seicento, e poi, dopo solo vent'anni, forse meno, non esitò ad incoronare suo figlio, riassestando, nel contempo, la divisione dei poteri.

Che diversità rispetto alla Rivoluzione francese, 150 anni più tardi, con il Terrore, la Restaurazione, ed i due Napoleoni, il Grande ed il Piccolo, fino al disastro di Sedan! Molto bello, dunque, questo film inglese. E molto meritato il premio all'attrice, Helen Mirren, che interpreta la Regina.

Quanto ai film francesi che di più hanno attirato la nostra attenzione, osserviamo che sono molto diversi fra loro, ma hanno un tema comune. Trattano entrambi del tremolio dell'identità nella città delle solitudini, sul bordo di quella che Zygmunt Bauman chiama la modernità liquida. Nel primo film, Il Presentimento di Jéan-Pierre Darroussin, c'è una persona sulla soglia della vecchiaia che d'improvviso lascia la famiglia, l'amante e l'intero suo ambiente sociale, di alta borghesia e va a vivere in un quartiere periferico, in un modesto condominio, inesorabilmente funestato da molte pochezze e da qualche meschinità dei suoi abitanti. Cambia vita, dunque. Quel che rende affascinante la narrazione è la sobria e inalterabile laconicità del protagonista. Non dà mai una spiegazione. Non alza mai la voce. Compie atti elementari. Non reagisce.

Dà spesso l'impressione di pensare sempre a qualcos'altro, o di non pensare affatto. C'è poi, sempre d'improvviso, un grave malore che spinge il racconto ad una conclusione. Una conclusione profondamente ambigua e nello stesso tempo, forse,rivolta ad indicare nell'ambiguità la cifra interpretativa della condizione post-moderna. Perchè dal malore sorge la necessità di una visita medica alla quale, però, il nostro protagonista si sottrae, allontanandosi velocemente dalla clinica. Si siede in un bar e qui immagina il suo funerale, con i suoi amici ed i suoi familiari che finalmente credono di aver capito che la sua scelta, così sconcertante, era invece il segno di un presentimento, un presentimento di morte. Sembra la traduzione filmica di Essere e tempo di Martin Heidegger.

C'è la vacuità della chiacchiera, l'orbita del Man, e, sopratutto, Sein zum Tod, l'essere per la morte. E' proprio la radicalità sommessa della rappresentazione a conferire uno speciale garbo narrativo, evocando certe figure di Giovanni Giacometti o, anche, una simbolicità da arte povera. Molto diversa è, invece, la Parigi del film di Alain Resnais, per il quale il regista ha scelto il titolo Cuori, avendone tratto la trama da un lavoro teatrale di Alan Ayckbourn che si chiama Piccole Paure Condivise (Private Fears in Public Places).

Ci sono sei personaggi che, in un movimento circolare,si accostano e si discostano in continuazione,componendo e scomponendo varie e difformi situazioni. Volta a volta si tratta di una coppia in crisi, un fratello e una sorella che convivono faticosamente, due impiegati di un'agenzia immobiliare, un militare radiato e un barista anziano. Ogni personaggio entra in più di una combinazione ed è animato sempre da una speranza che non si avvera mai. Nel fondo, invisibile, la città: è stata, in passato, il luogo del massimo scambio di relazioni ed oggi è diventata un deserto di solitudini che sterilizzano gli impulsi del cuore.

Tutto è raccontato con molta grazia, con molta ironia, con molta simpatia per le debolezze dei personaggi. Si coglie un gelo nei possibili destini, ma l'amabilità e l'eleganza dei toni espressivi inducono ad evitare ogni drammatizzazione e tengono lontano il pessimismo. C'è un'idea indulgente di futuro. E’ proprio a questo rapporto, fra un presente sfuggente ed un futuro inafferrabile, che ci è sembrato faccia riferimento il film di Gianni Amelio, La Stella Che Non C'è. Lo Stesso titolo è deliberatamente inafferrabile, nel suo senso effettivo. E' un'opera di elevata qualità che richiede, probabilmente, più visioni per essere intesa nella sua reale complessità. C'è innanzitutto l'idea iniziale: fare iniziare il film quando termina La Dismissione, il racconto della chiusura dello stabilimento di Bagnoli di Ermanno Rea, questo produce un forte impatto che fa interagire molti significati e molte riflessioni.

E' la fine di un sogno sbagliato: industrializzare il Sud secondo moduli ormai obsoleti. A Napoli con Bagnoli. In Calabria col Quinto Centro. L'operaio Vincenzo Buonavolontà sembra non sapere nulla di quello che sta accadendo in Europa ormai da molti anni, col silicio e con Internet che hanno preso il posto dell'acciaio e del protagonismo metalmeccanico. Vincenzo ha un solo profilo: quello dell'aristocrazia operaia a cui appartiene. Non è un operaio-massa. E' un manutentore, un operaio specializzato. Per lui la macchina non è oppressiva, come la catena di montaggio. Ne è il padrone, col cervello e con le mani. Della fabbrica parla come di un corpo vivente. E la fotografia del film è così intensa da farcene quasi sentire il palpito, il respiro. Ai cinesi che hanno comprato l'altoforno Vincenzo si raccomanda: non usate la fiamma ossidrica.... sarebbe come un'amputazione chirurgica! L'idea che questo operaio sappia di un difetto grave della macchina e si scervelli per porvi rimedio è in lui così dominante da spingerlo fino in Cina quando trova la soluzione. Perchè la fabbrica e gli operai sono per lui il centro del mondo.

Non conta nulla chiedersi se la trama è realistica, se è plausibile. Vincenzo è un personaggio volponiano. Quello che conta è il sentimento di sè. Cioè quel sentimento del mondo che lo ha reso figlio di un grande mutamento sociale e politico in cui si identifica. E’ questo mutamento che qui in Europa è giunto al crepuscolo, ma è un crepuscolo di giganti che si consuma in silenzio. Vincenzo va in Cina ed incontra un altro mondo, un'altra storia, un'altra idea della realtà, tutt'altre dimensioni. Il film è un grande apologo sul trapasso d'epoca, nel quale si intrecciano profili minuti e piccoli frammenti di vita con grandi eventi e sterminati orizzonti. E' anche un grande affresco. Senza retorica ci parla della difficoltà della speranza, della grandezza delle sfide, e ci dice, forse, che La stella che non c'è riguarda la Cina, ma riguarda anche noi. (Luigi Castagnola)