26 Agosto 2013
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70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica |
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Tsai Ming-liang è originario della Malesia, ma è diventato uno dei maggiori registi di Taiwan. Un autore molto noto il cui Aiquing wansui (Vive l’amour, 1994) ha vinto il Leone d’Oro alla mostra di quell’anno. Con il passare del tempo ha sempre più raffinato e spinto all’estremo il suo stile fatto di lunghissimi paini sequenza, sequenze buie filmate sotto scrosci d’acqua continui e immagini ferme mantenute tali per molti minuti. Sono caratteristiche che segnano opere suggestive come Dong (Il buco, 1998), Bu san (Ultimo spettacolo al cinema Dragone, 2003) e che ritroviamo in Jaojou (Cani randagi). Il film si apre con una sequenza lunga oltre gli otto minuti in cui compare una donna che si pettina guardano i figli che dormono e si procede sulla medesima strada e con lo stesso ritmo seguendo il padre dei pargoli che, dopo averli sottratti alla madre, vive di piccoli lavori, ad esempio fa l’uomo – cartello per la pubblicità di un’immobiliare all’incrocio di una strada super trafficata e, ovviamente, sotto la pioggia. Di notte il terzetto trova rifugio in una casa abbandonata, mentre la madre – impiegata in un supermercato alimentare – continua a cercare i ragazzi e il marito. Alla fine ci sarà un’effimera ricongiunzione ella famiglia in occasione del compleanno dell’uomo, ricongiunzione siglata da un’immagine quasi fissa di moglie e marito – l’uno alle spalle dell’altra – che guardano un affresco che raffigura la riva pietrosa di un fiume o di un lago. Quest’immagine dura oltre i quindici minuti e sintetizza la condizione di blocco in cui si sono venuti a trovare questi cani randagi, veri detriti umani dello sviluppo economico forsennato che ha segnato anche Taipei. E’ un film di non facile visione e di ardua lettura, ma è anche un esempio del migliore cinema contemporaneo. Qualche collega non ha gradito il modo come il regista guida il racconto ravvisandovi una sorta di maniera. Noi, al contrario, vi abbiamo visto un segno di coerente continuità con quello che continua ad essere uno degli autori più interessanti del panorama contemporaneo.
Il Grande Raccordo Anulare, in acronimo GRA, è la strada a scorrimento veloce che contorna Roma. Un vero e proprio piccolo mondo a cui Gianfranco Risi ha dedicato un bel documentario intitolato Sacro GRA presentato in concorso alla Mostra. Di questa piccolo mondo separato il cineasta ci dà un quadro che spazia dalla prostitute al botanico teso a salvare la palme da un vorace parassita, dal pescatore d’anguille agli abitanti – per la maggior parte extracomunitari e sfrattati – che vivono in un casermone, dai militi di un’autoambulanza, al principe che vive in un castello assediato dalle villette, molte abusive, ad alcuni assegnatari di alloggi pubblici in un palazzone dall’aspetto mostruoso dalle condizioni invivibili. Le cronache assicurano che ci sono voluti molto mesi di presenza nei luoghi per comporre questo vasto e doloroso mosaico. Vasto in quanto tratteggia decine di storie, radiografa centinaia di esseri umani, puntualizza situazioni al limite dell’invivibile. Ne è nato un film quanto mai interessante, un documento più che un documentario.
Dove, invece, ci è parso d’intravvedere l’ossequio a un fastidioso cliché è in La jalousie (La gelosia) che il francese Philippe Garrel ha affidato all’interpretazione del figlio Louis. E’ un insieme di storie di amori e tradimenti che s’incrociano fra un gruppo d’attori teatrali e alcune ragazze di buona cultura. Il film è girato in bianco e nero, ma questo più per vezzo che non per vera necessità espressiva. Vi ritroviamo i peggiori cascami del cinema intellettuale d’oltralpe: citazioni colte messe in bocca ai personaggi più per sfoggio culturale che per vera necessità, dialoghi falsamente sofisticati, interpreti fissi in ruoli che pensano di caratterizzare con mossette e sguardi torvi. In altre parole un minestrone di difficile digestione, nonostante la brevità del racconto – meno di novanta minuti – e la presunzione dell’autore.
Si possono dire molte cose pro e conto Återträff (La riunione) opera prima dell’attrice e regista svedese Anna Odell, presentata dalla Settimana Internazionale della Critica, ma non si può negare che sia un testo che tenta strade non consuete. Il film muta radicalmente dopo poco meno di quaranta minuti - su un totale di ottantatré - per diventare qualche cosa di completamente diverso da ciò che aveva fatto intendere prima. S’inizia con una riunione di ex – studenti a vent’anni dal conseguimento del diploma. Dovrebbe essere una festa, magari venata di malinconia o di rimpianti per i sogni perduti, invece si trasforma in uno scontro che arriverà sino al confronto fisico. Anna, interprete la stessa regista, prende la parola per denunciare l’ipocrisia dei ricordi manierati, sciorina davanti agli occhi di tutti l’emarginazione che ha subito, le aggressioni verbali che ha dovuto subire, la gerarchia feroce che imperava fra gli studenti. Tutto sembrerebbe chiudersi con l’allontanamento forzato della disturbatrice, ma qui inizia la seconda parte, un vero e proprio altro film. L’attrice e regista, sempre nei panni di se stessa, convoca i suoi veri compagni di scuola e mostra loro il film che ha girato con attori e sulla base di una sceneggiatura nata dai suo ricordi. In questo modo l’opera diventa una riflessione su finzione e realtà, immaginazione e cronaca. Non si può dire che il progetto sia riuscito in tutte le sue parti o che non vi sia una sovrabbondanza di cose dette in rapporto a quelle mostrate. Ciononostante l’operazione appare davvero originale e le intenzioni più che nobili. Per rendersene conto basta mettere da parte l’idea – ampiamente solleticata nella prima parte – di trovarsi davanti uno di quei film, soprattutto nordici, in cui una qualsiasi occasione conviviale diventa motivo per lo svelamento degli scheletri chiusi negli armadi. In altre parole qualche cosa di simile a Festen - Festa in famiglia (Dogme #1 Festen, 1998) e alle varie opere che si sono mosse sulla stessa linea. Qui a emergere sono le turbe psicologiche di una gioventù frustrata e ingannata non meno di quelle nate sotto altre latitudini.
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