26 Agosto 2013
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70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica |
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70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica (28 agosto - 7 settembre 2013)
http://www.labiennale.org/it/cinema/
La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, settantesima edizione, ha aperto i battenti di un programma denso e ricco di opere interessanti, quantomeno sulla carta, con un film americano, Gravity (Gravità) diretto dal messicano Alfonso Cuarón. E’ un grande e piacevole colosso in 3D che parte dall’ipotesi che una coppia di astronauti - lei (Sandra Bullock) alla prima missione, lui (George Clooney) alla vigilia della pensione – si trovino a vagare nello spazio dopo che una pioggia di meteoriti ha distrutto la navicella sui cui viaggiavano.
L’uomo è anche il comandante della missione e, secondo consolidate tradizioni, si sacrifica quasi subito per salvare la vita alla donna. Lei si trova sola nello spazio con la speranza rifugiarsi, prima, in una stazione spaziale russa e tentare il ritorno sulla terra e, dopo che aver scoperto che nel modulo di salvezza russo non c’è più carburante, di arrivare sino ad un’istallazione cinese e usare la navicella di salvataggio di quell’impianto per ritornare a gustare l’agognata gravità terrestre. Naturalmente la missione andrà a buon fine, ma solo dopo che la protagonista avrà affrontato non poche traversie. E’ un prodotto super spettacolare in cui i due divi che vi compaiono hanno un ruolo persino secondario rispetto alle meraviglie create la computer usando non poche immagini raccolte da varie missioni spaziali. Un ottimo film per quanto riguarda gli apparati commerciali, ma un prodotto del tutto trascurabile se si ha a cuore la funzione creativa del cinema.
La Mostra ha scelto di festeggiare le settanta edizioni chiedendo a un egual numero di cineasti di farle omaggio di un breve documentario – durata fra i sessante e i novanta secondi – dedicato al futuro del cinema. E’ nato così Venezia ’70 – Future Reloaded, settanta brani raccolti in due ore di proiezione con le firme di grandi cineasti (Bernardo Bertolucci, Claire Denis, Atom Egoyan, Amos Gitai, Monte Hellman, …) e di giovani promettenti. Unica condizione era quella di aver partecipato almeno una volta alla Mostra. Prodotti di questo tipo sono del tutto ingiudicabili in quanto li si potrebbero valutare solo scendendo nel dettaglio di ogni brano, cosa del tutto impossibile in questa sede. Basti dire che si passa dalla nota personale - in Scarpette Rosse Bernardo Bertolucci registra le difficoltà che una carrozzina per portatori di handicap deve affrontare muovendosi per le strade di Roma – alla citazione del cinema di un tempo come quella di Ermanno Olmi che rende omaggio alla moviola, sino al resto quasi sociologico come quello proposto in Transumanza da Salvatore Mereu. In conclusione più un grato omaggio ad una vecchia signora che non una proposta di cinema da non dimenticare.
La Settimana Internazionale della Critica (SIC) opera all’interno della Mostra ed è una manifestazione autonomamente gestita da una commissione scelta dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI). L’edizione di quest’anno, la ventottesima, si è aperta con la presentazione, fuori concorso, de L’arte della felicità, un film d’animazione diretto da Alessandro Rak e da lui sceneggiato assieme a Luciano Sella. E’ la prima volta che un’opera di questo tipo trova ospitalità nel cartellone della SIC. La cosa ha destato qualche sorpresa visto che molti continuano a considerare il linguaggio dei cartoons come un qualche cosa riservato ai ragazzi. Su questa opinione sbagliata pesa la tradizione e il successo della Walt Disney che ha costruito un vero e proprio impero sul disegno animato. Nel caso in questione, invece, ci troviamo di fronte a un prodotto raffinato e complesso che affronta temi tutt’altro che elementari e lo fa con una struttura narrativa molto elaborata. In primo luogo c’è il ruolo assegnato alla musica, che è la vera coprotagonista del film al pari del disegno. Quest’ultimo appare tracciato con grande abilità pittorica e senza alcun vezzo infantile. La storia raccontata ha al centro due fratelli musicisti che fanno scelte opposte. Uno emigra in India, ove morirà, alla ricerca di un mondo armonioso denso di spiritualità. L’altro rimane a Napoli, smette di suonare, s’infila nel vecchio taxi dello zio e non ne scende più. Intorno a lui una città diruta, costantemente battuta dalla pioggia, soffocata dalle montagne d’immondizia. Nell’abitacolo della vettura riceve e confessa vari clienti, ascolta i loro triboli che scambia con i suoi. Lo scenario apocalittico in cui è immerso quest’artista in vacanza sollecita ricordi, uscita barlumi di speranza, fa scattare l’ira. La notizia della morte del fratello in una terra lontana, inasprisce ancor più il suo carattere e alimenta una rabbia che, forse, troverà uno sbocco positivo. Il film è forte, anche se muove su binari un po’ generici e percorre strade non originalissime. Ha il pregio di dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che questo tipo di linguaggio ha le carte in regola per affrontare temi complessi e sorreggere opere di grande valore.
La sezione competitiva è stata aperta con uno dei tre film italiani che vi compaiono: Via Castellana Bandiera, opera prima della teatrante Emma Dante. Chi ha dimestichezza con la scena conosce questa attrice e drammaturga i cui lavori hanno ottenuto un ottimo successo e l’hanno collocata fra le figure d’avanguardia del palcoscenico italiano. Il suo mondo è segnato da forti passioni e da una rappresentazione non meno sanguigna del meridione e delle genti che lo abitano. Sono dati rintracciabili anche in questa sua prima regia cinematografica che ruota, apparentemente, attorno a un banale incidente di traffico. Nella periferia palermitana più degradata due automobili si trovano a fronteggiarsi muso contro muso. Le guidano due donne, un’albanese arrivata in Italia molti anni prima e una signora che, assieme alla compagna, sta andando a un matrimonio. La strada non concede spazi di manovra e una dovrà forzatamente retrocedere, ma entrambe sono parimenti cocciute e nessuna vuole cedere il passo all’altra così la via resta bloccata. Progressivamente la situazione si aggrava, nascono scommesse su chi retrocederà per prima, personaggi poco raccomandabili si affollano attorno alle due macchine. Solo la morte dell’albanese per cause naturali offrirà un momentaneo sbocco facendo precipitare i due veicoli in un dirupo e, con essi, l’intera gente del quartiere. La metafora è limpida anche perché, nel frattempo, la via si è magicamente allargata – è la trovata migliore del film – ma nessuna delle contendenti ne ha approfittato prese come erano nella sfida che le opponeva. Questo sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, un rifiuto di piegarsi a un briciolo di compromesso sociale che causa la rovina di tutto e di tutti. Un discorso pregevole e lucidamente disperato – alla fine della contesa strada rimarrà desolatamente vuota – ma ha il difetto di cavalcare una visione negativamente manichea del sud e di chi vi vive. Stando alla regista e attrice sembra quasi che tutti, ma proprio tutti, siano brutti, sporchi e cattivi. Una posizione che certo ha supporti non trascurabili, ma che qui marcia su un binario assolutista e vagamente intollerante. Come dire che, anche se ci sono abbondanti motivi per disperare, non mancano le ragioni per non fare di tutt’erba un fascio e distinguere fra chi si oppone al degrado generale e i molti che, invece, lo accettano o, peggio, lo sfruttano. Cinematograficamente parlando va dato atto alla regista di avere organizzato il racconto con grande abilità e non poche intuizioni, trasformando quello che sembrava un duello rusticano in una metafora sicuramente troppo ampia, ma non immotivata.
Con il secondo film in competizione, invece, siamo piombati in pieno realismo. L’americano John Curran ha tratto Tracks (Tracce) dalla vera storia di Rubyn Davidson, una giovane australiana che nel 1977 ha attraversato in solitario una fetta del continente muovendo da Alice Springs per arrivare sulle spiagge dell’Oceano Indiano. Era sponsorizzata dalla rivista National Geographic e aveva con sé solo una cagna e una mini carovana composta da quattro cammelli. Percorse duemilasettecento chilometri, affrontò la diffidenza dei nativi e lo scetticismo dei discendenti dei coloni, superò grandi difficoltà, patì la sete e il caldo, ma attivò all’Oceano. Un’odissea che il regista ricostruisce con grande abilità, punteggiandola di riferimenti al clima culturale del tempo. Un buon film, ma del tutto privo di originalità. Certo l’interpretazione di Mia Wasikowska è di grande forza e professionalità e fra i premi in palio c’è anche una Coppa Volpi riservata alla miglior attrice. Tolto questo altre ragioni di interesse non se ne vedono.
La Settimana della critica ha presentato Razredni sovražnik (Nemico di classe), opera prima del regista sloveno Rok Biček, un film girato quasi per intero fra le mura di un istituto scolastico, in particolare durante le lezioni di tedesco in una classe dell’ultimo corso. L’arrivo di un nuovo professore, grande estimatore di Thomas Mann (1875 – 1955), in supplenza di un’insegnate che va in maternità, scatena una crescente ribellione. Il nuovo venuto respinge i metodi tolleranti e un po’ menefreghisti di chi lo ha preceduto, impone una disciplina vecchia maniera e mira a suscitare negli studenti un preciso senso di responsabilità. Il suicidio di un’allieva poco dopo essere uscita in lacrime da un colloquio con il nuovo docente, in realtà turbata da traumi ben più complessi a livello sia personale sia familiare, spinge gli altri alunni a inscenare una vera e propria campagna contro il nuovo venuto, accusandolo di essere un nazista e un autoritario insensibile. Ci saranno molte incomprensioni e ci vorrà del tempo affinché le cose si chiariscano e le due parti si capiscano. E’ un film costruito con grande professionalità, interpretato da attori - giovani e meno giovani - molto bravi, diretto con mano ferma da un esordiente che dimostra di disporre di un consistente bagaglio professionale. In altre parole, un film solido e di ottimo impatto. Qualche dubbio, invece, sulla lettura simbolica che alcuni hanno voluto farne vedendovi una sorta di metafora di una Slovenia incapace di fare i conti con se stessa, refrattaria all’autorità e allo stesso tempo intollerante rispetto ai diversi. Molto più convincente un approccio diretto ai temi dell’educazione e della funzione della scuola, argomenti che, qui come altrove, suscitano accesi dibattiti.
Die Frau des Poliziesten (La moglie del poliziotto) del tedesco Philip Gröning affronta un tema di grande attualità, quello della violenza sulle donne soprattutto in ambito familiare, e lo fa con uno stile decisamente originale. Sono una sessantina di brani preceduti da uno schermo nero su cui c’è scritto: inizio capitolo ..., seguito da un altro in cui la scritta diventa fine capitolo …. Sono pezzi brevissimi sotto i due minuti, spesso appena superiori al minuto, che punteggiano la vita di una coppia che progressivamente alimenta una violenza omicida la donna che morirà per mano del marito. Quest’ultimo è un agente di polizia disturbato di suo e definitivamente sbalestrato dalle molte violenze a cui deve assistere – emblematizzate da un sopraluogo sul luogo di un incidente stradale in cui hanno perso la vita molte persone – o che deve perpetrare. Anche in quest’ultimo caso la regia ci offre un esempio: l’uccisione per sua mano di un capriolo in fin di vita dopo essere stato investito da un’auto. Lo scenario in cui questo processo si sviluppa è quello lindo e ordinato di un quartiere di villette unifamiliari in una piccola città. Qui e nella casa della coppia tutto appare ordinato, lindo, preordinato a coprire una turbolenza che si annida sotto la superficie, come i lombrichi che vivono sotto le lastre di pietra che tappezzano il cortile. Un ordine apparente e un disordine reale che trovano sfoco nelle botte che il marito infligge alla compagna il cui corpo si copre progressivamente di lividi. Nonostante queste violenze la donna non si ribella, anzi continua a giustificare il compagno, ad amarlo e a caricarsi della colpa di ciò che accade. E’ un film raffinato, stilisticamente originale, forse troppo lungo – quasi tre ore di proiezione – ma ricco di spunti e motivi di riflessione.
Il contrario di quanto accade all’ americano David Gordon Green che firma Joe, un film in cui circolano molti miti e personaggi del vecchio cinema western. E’ la storia, tratta dal romanzo omonimo di Larry Brown, di un ex detenuto che si è rifatto una vita come imprenditore forestale. Lui vorrebbe stare alla larga dai guai, ma l’incontro con un ragazzino, figlio di un alcolizzato violento, lo costringe, verrebbe da dire, a disseppellire la pistola. E’ un testo privo di vera originalità, con personaggi già sfruttati in abbondanza. A questo si aggiunga la recitazione decisamente sopra le righe di Nicolas Cage e si avrà il quadro di un’opera di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza ove non fosse stata inserita nel cartellone della Mostra.
La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Las Niñas Quispe (Le ragazze Quispe), opera prima del cileno Sebastián Sepúlveda. Il film nasce da un fatto di cronaca accaduto nel 1974, durante la dittatura del generale Augusto Pinochet (1915 – 2006), quando tre ragazze che vivevano isolate dal mondo allevando capre, si suicidarono tutte assieme. Il fatto destò molta impressione e il regista lo legge come un esempio del clima di terrore che imperversava nel paese, ipotizzato che le tre donne si siano tolte la vita temendo l’arrivo della polizia con il compito di sterminare il loro gregge. La metafora è calzante è la natura, superba e terribile, in cui s’inquadra la tragedia aiuta a rendere ancor più incubico il racconto. In questo modo il film acquista spessore metaforico trasformandosi nel paradigma di un’epoca terribile e funesta.
Philomena di Stephen Frears è davvero un bel film. Seguendo le tracce del libro The Lost Child of Philomena Lee (Il figlio perduto di Philomena Lee, 2009) scritto da Martin Sixsmith (1954), il regista segue un’anziana madre irlandese che cerca di rintracciare il figlio avuto in gioventù, da nubile, mentre era rinchiusa in un orfanatrofio religioso le cui suore l’hanno costretta a darlo in adozione. Sono gli anni cinquanta e la nascita di un figlio fuori dal matrimonio è considerata peccato mortale, peccato su cui gli istituti religiosi speculano vendendo letteralmente i piccini a coppie americane. Tale è stato anche il destino del rampollo della donna. Una volta diventato adulto il ragazzo ha mostrato preferenze omosessuali, è diventato uno dei consiglieri del presidente Ronald Reagan ed è morto causa l’AIDS. La ricerca è condotta assieme a un giornalista che è stato appena messo fuori dell’entourage del primo ministro britannico, siamo negli anni del premierato di Tony Blair, e approda alla scoperta che l’adottato è ritornato in Irlanda anni dopo e si è fatto seppellire in quella terra. E’ il quadro allucinante dell’ipocrisia e la ferocia che attraversano le istituzioni cattoliche, travolgendo l’esistenza di migliaia di giovani madri e centinaia di bambini. Il regista offre il meglio di se, mescolando ironia e dramma, riuscendo a far sorridere e piangere nel giro di poche sequenze. Grande merito va anche a Judi Dench, qui come altre volte, al massimo della sua arte recitatoria. In poche parole un film solido, duro nella denuncia e preciso nella descrizione dei caratteri, straordinario nell’orchestrazione del racconto. Un’opera di grande forza che ci sentiamo di segnalare sin d’ora agli spettatori sensibili e intelligenti.
Anche Child of God dell’americano James Franco nasce da un testo letterario di grande spessore: Figlio di Dio (1974) dello scrittore nordamericano Cormac McCarthy (1933). Grande origine ma esito modesto. Siamo al limite della messa in scena della patologia con un tipo, più simile ad un animale che ad un essere umano, che vive nei boschi come un selvaggio, aggredisce le coppiette, uccide entrambi gli innamorati e trasporta il cadavere della donna nella caverna in cui ha trovato rifugio facendone oggetto di lugubri pratiche sessuali. Il tutto dovrebbe essere motivato da un’infanzia particolarmente difficile e da condizioni sociali al limite del degradato. Ipotesi che le immagini non sorreggono per nulla consegnandoci un film banale e assai poco originale. In poche parole un’opera la cui presenza in concorso si giustifica quasi unicamente con la l’esistenza di un premio destinato al miglior interprete.
Lino Miccichè (1934 – 2004) è stato uno degli intellettuali più brillanti degli ultimi decenni del secolo scorso. Nel cinema, in particolare, eccelse il suo lavoro sia come critico e saggista, sia come organizzatore e docente universitario. I figli, Francesco (regista) e Andrea (produttore) gli hanno dedicato un documentario, Lino Miccichè mio padre. Una visione del mondo, approdato alla Mostra grazie una stretta collaborazione fra la Settimana della critica e le Giornate degli autori. Non è solo un omaggio ad uno studioso e a un attivista culturale – fa le molte altre cose inventò, assieme a Bruno Torri, la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro – ma il ritratto di una stagione di speranze, creatività, sogni, idee che ha alimentato un’intera generazione. Non a caso alla proiezione del film era presenta una vasta e qualificata platea che comprendeva registi e operatori culturali, professori universitari e giornalisti. Chi scrive è fra coloro che considerano ancora oggi il lavoro di Lino una delle basi della propria cultura filmica e una pietra miliare da cui è impossibile prescindere parlando del mondo che ci ha visti diventare adulti.
Il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy (1917 – 1963), è stato assassinato a Dallas, in Texas, mentre si accingeva a tenere un paio di comizi in vista l’imminente campagna elettorale che, con ogni probabilità, lo avrebbe visto trionfare dopo la vittoria ottenuta, nel 1960, contro Richard Nixon. Quella morte ha dato il via a una serie infinta di ipotesi, dietrologie, teorie complottistiche sfociate in centinaia di libri, film, inchieste giornalistiche e parlamentari. La più nota fra queste ultime va sotto il nome di Rapporto Warren, stilato da un’apposita commissione e che, tuttavia lasciò più dubbi per le incongruenze di cui era infarcito che non certezze definitive. Il regista americano Peter Landesman ha riversato nella sua opera prima, Parkland, gran parte dell’esperienza acquisita con giornalista d’inchiesta e corrispondente di guerra. Il film segue le ore immediatamente precedenti l’attentato e quelle che lo seguirono mirando non tanto ai grandi protagonisti (il presidente e il suo presunto assassino) quanto a coloro che vissero quell’esperienza come attori, in un certo senso, di contorno: la First Lady, gli uomini della scorta, quelli dell’FBI, il fratello e la madre di Lee Harvey Oswand ma, soprattutto, Abrahan Zapruder che riprese con una piccola macchina da presa l’assassinio. Il tutto collocato nelle stanze del Parkland Hospital, i cui sanitari cercarono inutilmente di salvare la vita al presidente e negli uffici delle varie centrali di polizia. Ne nasce un film perfetto, una di quelle opere di cui sono maestri i grandi registi americani e che ricostruisce nei dettagli, con sguardo originale, un fatto drammatico. Si potrebbe dire che questo è un cinema assai vicino alle inchieste televisive, ma ciò non diminuisce di un grammo la forza dell’opera.
Opposto l’approccio del greco Alexandros Avranas che, in Miss Violence, parte da un autentico dramma sociale quale la violenza entro le mura domestiche, per costruire un melodramma intessuto di patriarchi violenti e donne – mogli, madri, figlie – che ne subiscono le vessazioni sino ad essere prostituite e messe ripetutamente incinta. Il tutto entro le mura di un lindo appartamento piccolo – borghese su cui impera, il termine è quanto mai appropriato, un anziano che si porta a letto figlia e nipoti, fa prostituire le ragazzine appena undicenni, picchia chi rifiuta di sottostare ai suoi ordini, anche a quelli più assurdi e banali. Il film propone un quadro agghiacciante dell’ordine imposto con la violenza e tende a trasferire l’imperio domestico oltre le mura di casa, facendone la metafora di una società autoritaria e aggressiva. L’obiettivo è colto solo parzialmente e ciò che emerge con maggiore evidenza è un clima melodrammatico in cui i cattivi assumono caratteristiche pessime e le vittime rasentano la l’angelificazione. In definitiva un’opera che non lascia spazio a osservazioni discordanti, tanto sono estremi personaggi e situazioni che porta sullo schermo.
Il giapponese Hayao Miyazaki non è solo il maggiore autore di film d’animazione vivente, ma è anche un vero poeta delle storie che sono trasferite in film. La sua ultima fatica, prima volta alla Mostra di un film di questo tipo, è Zaze tachimu (Il vento si leva) in cui conferma la sua passione per la progettazione aerea degli anni trenta, in particolare per i velivoli disegnati dall’ingegnere Giovanni Battista Caproni. Nel film questa passione sorregge il giovane ingegnere giapponese che progettò il mitico Caccia Zero, l'aereo usato sia per l'attacco a Pearl Harbour sia dai kamikaze per suicidarsi precipitando sulle navi nemiche. In Giappone qualche critico ha condannato il film assimilandolo a una sorte di rigurgito nazionalista, in realtà il disegno pulito e perfetto del grande animatore sorregge una storia pacifista e romantica che ha al centro la passione di un giovane nel bel mezzo di una grande tragedia sia essa la guerra o un devastante terremoto. Ne nasce un film che riesce a parlare di pace e sentimenti pur in un quadro di tragedia collettiva. Un bel testo realizzato, come si usava un tempo, senza ricorrere a computer o duplicazioni elettroniche e la cosa si vede.
Shuiyin Jie (Trappola stradale), opera prima della cinese Vivian Qu, è comparso nel cartellone della Settimana Internazionale della Critica. Il film e, soprattutto, il finale, ricordano molto La conversazione (The Conversation, 1974) di Francis Ford Coppola. Come in quell’opera, infatti, lasciamo il protagonista, in preda all’ossessione di essere spiato, che ispeziona maniacalmente la camera d’albergo con cui va con l’amata. La storia ha al centro Li Qiuming che lavora come apprendista in una compagnia di sistemi satellitari. Il suo compito è collaborare al tracciamento elettronico della mappa di una città con meglio precisata e in continua trasformazione urbanistica. Durante il lavoro incontra una giovane che lo colpisce molto, la incrocia in una strada che non esiste e i cui parametri sono rifiutati dal computer destinato ad elaborare il suo lavoro. Dopo qualche giorno, quando sta approfondendo la conoscenza della donna, che ha rintracciato con non poca fatica, è prelevato da alcune persone dalla professione non meglio definita che lo sottopongono a uno stringente interrogatorio, non privo di imposizioni fisiche, e lo accusano di essere una spia. Scopriamo così l’esistenza di un vastissimo sistema di controllo che osserva, non visto, la vita di tutti senza mai chiudere occhio. E’ questo il nodo del film: la denuncia di una regime occhiuto e invasivo che non lascia spazio alla libertà e alla privacy dei cittadini che amministra. Un meccanismo gigantesco a cui nulla sfugge e che fa capo, lo si dice espressamente in un paio d’occasioni, al Partito che tutto controlla e a cui tutto deve conoscere. Con questa denuncia la regista esibisce un coraggio non comune e riafferma con forza la sua natura di cineasta realmente indipendente in un panorama che ha fatto del sospetto e della diffidenza i pilastri politici che reggono il regime. Da notare anche la maestria con cui il film racconta, senza sbavature o forzature, una storia gialla degna della migliore tradizione del cinema di genere.
Tom à la ferme (Tom alla fattoria) del canadese francofono Xavier Dolan, un regista nato come attore di serie televisive, è tratto dal romanzo omonimo di Michel Marc Bouchard. E’ un melodramma omosessuale che prende le mosse dall’arrivo di un giovane pubblicitario di Montreal in un fattoria di provincia per assistere al funerale del un suo compagno di vita. Scopre subito che la madre del defunto non sapeva nulla delle abitudini sessuali dal figlio, mentre suo fratello, che gestisce l’azienda dalla morte del padre, lo aggredisce e minaccia per impedirgli di rivelare la vera natura che della relazione che lo legava al defunto. Ben presto nasce un legame affettivo e sessuale anche fra questo agricoltore corpulento e macho e il vedovo. Una relazione intessuta di gesti bruschi, violenza e improvvisi scoppi di passione. Quando arriva una collega del morto, che il giovane cittadino ha fatto venire per dare l’illusione all’anziana genitrice dell’eterosessualità del figlio, la tragedia esplode con violenza. L’omosessuale gentile riuscirà a ritrovare la via di casa solo a prezzo di rischi e umiliazioni. Melodramma omosessuale, si è detto, in quanto la storia procede per snodi gridati così come avviene in questo genere di cinema e di letteratura. Nel caso specifico le scelte sessuali sono solo uno scenario accattivante in cui inserire una storia d’amore e violenza che prescinde dalle preferenze erotiche delle persone che coinvolge. Come dire, un film poco originale nella sostanza, convenzionale nella forma.
L’americano Terry Gilliam è stato l’unico non inglese a partecipare all’esperienza del gruppo Monty Python al cui successo ha contribuito con un sovraccarico di visionarietà che ritroviamo anche in The Zero Theorem (Il teorema zero). La sintesi della trama parla di un eccentrico genio del computer, afflitto da angoscia esistenziale, che lavora a un progetto che dovrebbe dare un risposta definitiva sui fini dell’esistenza umana. Sintesi esatta, ma che deve essere integrata con la citazione di una scenografia allucinata – buona parte del film simula l’interno di una chiesa adattata a casa/laboratorio con le telecamere di sorveglianza poste sopra la testa del crocefisso – tesa a ricreare un mondo in cui i computer e le loro tecniche sono arrivati a sostituire qualsiasi pulsione umana, anche sessuale. In questo universo totalmente disumanizzato, controllato da un manager simile a Dio, si muove un piccolo programmatore che non ha smesso di porsi domande sulle vere ragioni dell’esistenza. Il sistema userà ogni mezzo – dalla violenza alla lusinga erotica – pur di ricondurlo sotto il controllo generale, ma fallirà quando il nostro scoprirà la dolcezza e la forza dell’amore verso una donna. La metafora è decisamente elementare e le riflessioni sulla computerizzazione della vita non mancano di scivolate nella banalità, ma ciò che conta e affascina è il contorno, allucinato e fantastico, in cui la vicenda è immessa. In definitiva un film visionario e ricco di suggestioni che accenna a molte domande, ma offre pochissime risposte.
Fuori concorso è stato presentato Locke dell’inglese Steven Knight, un film davvero originale, costruito quasi per intero su sequenze girate all’interno di un’automobile che percorre un’autostrada e, come sfondo sonoro, sulle telefonate che il guidatore scambia con colleghi di lavoro e famigliari. Ivan Locke è un capocantiere impegnato nella gettata delle fondamenta di un altissimo grattacielo destinato a diventare una delle meraviglie architettoniche d’Europa. Alla vigilia delle operazioni che porteranno un mare di calcestruzzo a formare la base dell’edificio, riceve la notizia che una sua ex-amante, con la quale ha avuto una sola notte d’amore, sta per dare alla luce suo figlio . Abbandona ogni cosa per assistere al parto anche se questa decisione gli costerà lavoro e famiglia. Nel farlo rivendica il diritto di sovraintendere, via telefono, al complesso lavoro di gettata, che affida a un suo vice le cui azioni guida via telefono. E’ un film molto originale, il cui interprete principale, Tom Hardy, regge sulle proprie spalle buona parte dell’esito dell’opera. In meno di un’ora e mezzo di forte tensione assistiamo a una svolta nella vita di questo personaggio, scopriamo i motivi per cui tutto questo accade e partecipiamo, emozionati, alla fine di un’esistenza e allo sbocciare di un’altra. Lo si potrebbe definire un film da camera o una forma di teatro – monologo filmato, ma ciò che veramente conta è l’abilità con cui questo regista – autore anche di testi teatrali e romanzi – riesce a creare quasi dal nulla un clima teso e ricco di suspense.
La Settimana Internazionale della Critica (SIC) ha presentato White Shadow (Ombra bianca), una coproduzione fra Italia, Germania e Tanzania firmata e sceneggiata dall’esordiente Noaz Deshe. Il film parte da un dato di cronaca: nel paese africano c’è stata, a partire dal 2008, una vera e propria caccia all’albino innescata da medici - stregoni che offrivano ingenti somme per comprarsi parti del corpo di questi neri - bianchi e se ne servivano per creare sedicenti pozioni magiche. Si stima che in due anni, dal 2008 al 2010, questa caccia abbia causato più di duecento omicidi. Il film racconta la storia di Alias, un ragazzino albino che, dopo aver assistito all’assassinio del padre, è mandato dalla madre a rifugiarsi in citta, presso uno zio. Vendendo piccole cose e faticando a sopravvivere, proverà sulla propria pelle le difficolta dell’essere diverso. Questo almeno nelle intenzioni dichiarate del regista, nel film, al contrario predominano i toni sociologici, quasi documentaristici, legati al quadro di una società arretrata e violenta che ricorda molto lo sguardo di buona parte del cinema del terzo mondo. Va in questo senso anche il finale, facilmente liberatorio, con un intero villaggio che, dopo l’uccisone e lo smembramento di un ragazzino albino, si fa giustizia sommaria linciando la banda di trafficanti responsabili del delitto. Un dato positivo è nell’interpretazione di Hamis Bazili che rende con efficacia i triboli di un giovane costretto ad attraversare l’inferno di una grande città africana, dalla violenza alla prostituzione, dalla ferocia animista al racket del commercio, per quanto miserabile possa essere. In definitiva un film molto ben costruito, ma legato a modelli di cinema già conosciuti.
Ana Arabia dell’israeliano Amos Gitai è formato da un unico piano – sequenza che dura ben ottantaquattro minuti, quanti ne servino a Yael, giovane giornalista in cerca del materiale per un articolo, per scoprire e stringere un rapporto più che professionale con un gruppo di reietti, donne e uomini, che vivono in una piccola comunità a mezza strada fra Jaffa e Bat Yam. Dalle domande e risposte emerge un vero spaccato della società e una cultura intessuta sia della memoria delle stragi naziste, sia delle tensioni che hanno accompagnato la nascita e la sopravvivenza dello stato d’Israele. E’ un vero e proprio esercizio di stile e la cosa contrasta con l’atteggiamento quasi documentaristico del regista. In altre parole è un film molto costruito che cerca di mascherarsi da opera semplice e spontanea. Ci sono vari elementi che denunciano questa contraddizione, dagli attori, tutti ebrei tranne uno, che recitano con convinzione ricordi e situazioni drammatiche, alla lettura degli eventi citati che vari israeliani hanno denunciato come non fondati. Un esempio per tutti. Quello che possiamo definire il leader della piccola comunità parla del tempo del mandato britannico sulla Palestina (1920 - 1948) come di un’epoca felice segnata dalla convivenza pacifica fra arabi ed ebrei. Questa versione non trova conforto nelle cronache che parlano, invece, di un periodo segnato da grani tensioni interetniche e da una strisciante guerriglia, da parte ebrea, conto gli occupanti. Questo per quanto riguarda gli appunti politici e di cronaca, ma ciò che rimane è un film davvero unico sia per la forma scelta dall’autore, sia per il suo desiderio di pace in una comunità ancor oggi segnata da forti tensioni.
Anche Under the Skin (Sotto la pelle) del britannico Jonathan Glazer è opera a suo modo originale. La storia è tratta dal libro d’esordio dell’olandese Michael Faber (1960) pubblicato in Italia dall’editrice Einaudi nel 2000 e racconta di un alieno (uomo o donna non è ben specificato) che assieme ad altri entra nel corpo di una giovane, forse una prostituta, e, sfruttando quelle sembianze, attira vari giovanotti che poi annega in un liquido oleoso. In questo modo questi esseri umani sono triturarti e trasformati in una poltiglia sanguinolenta che dovrebbe essere utile agli allineai arrivati sul nostro pianeta. Come nelle migliori tradizioni e nei prodotti più convenzionali, l’incontro con il sesso e una parvenza d’amore causeranno la rovina dell’essere proveniente dallo spazio che finirà bruciato come una moderna strega. La trama è individuabile con una certa fatica sotto immagini di taglio quasi informale, non tutto è chiaro o facilmente comprensibile. Anzi i punti oscuri, gli snodi non risolti, i passaggi non lineari segnano il film dalle prime alle ultime sequenze. Anche in questo caso si ha l’impressione di un’operazione puramente stilistica basata su una materia che non ha molta importanza per il regista e, di conseguenza, non appassiona lo spettatore. Immagini suggestive – questo cineasta ha un passato di realizzatore di videoclip musicali – ma anche la sensazione di un’operazione del tutto gratuita.
La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Zoran, il mio nipote scemo, opera prima dell’italiano Matteo Oleotto. Il film muove da una situazione non nuova nel cinema: un tipo sostanzialmente allergico a qualsiasi forma di responsabilità si trova a dovere gestire un essere umano che gli viene affidato e che, alla fine, si mostrerà ben più maturo di lui. E’ una coproduzione fra Italia e Slovenia che gioca le sue carte migliori sul rapporto fra i personaggi e sul paesaggio che li circonda: il Friuli rurale incline a cedere alla tentazione dell’alcool. Tale è Paolo, un quarantenne assai poco maturo e decisamente indulgente verso la bottiglia, che vive in un piccolo paese vicino a Gorizia. Il suo maggior diletto sono le bevute all’osteria, visto che il lavoro di addetto alla mensa di una casa di riposo non gli offre molte occasioni di gioia. Separato da una bella donna che si è rifatta una vita con un altro, non ha perso la speranza di riconquistarla e le dedica attenzioni che rasentano lo stalking. Un giorno riceve la notizia della morte di una parente slovena che gli ha lasciato in eredità un cane di ceramica e un nipote sedicenne, cresciuto in montagna e apparentemente più che ingenuo. Dopo qualche riluttanza accetta di prendersi cura del ragazzo, che scoprirà essere un formidabile tiratore di freccette. Per lui è l’occasione per rifarsi delle delusioni che il mondo gli ha inflitto, visto che presto si terranno in Scozia i campionati mondiali di questo strano sport con un premio finale di ben cinquantamila euro. Prende avvio da qui la storia di una strana coppia destinata a concludersi, come era facile prevedere, con il riconoscimento della dipendenza affettiva fra i due. E’ il classico film d’attori a cui danno un contributo fondamentale sia Giuseppe Battiston, sia il giovane Teco Celio che non perde un colpo al fianco del corpulento interprete friulano. Come dice una canzone, divenuta presto il motivetto di uno spot regionale, il vin fa alegria, l’acqua xè il funeral; chi lassa il vin friulan, xè proprio un fiol d’un can. Il regista disegna con ironia e partecipazione il quadro di una comunità in cui i bicchieri hanno un ruolo di rilievo e funzionano da veri antidoti a solitudine e delusioni. E’ un panorama di esistenze che non vogliono aver nulla a che fare con la vita vera, la riflessione sul passato, i pesi della responsabilità, compresa quella legata all’amore. Un film apparentemente semplice che, in realtà, cesella alla perfezione caratteri e personaggi, dote rara in un cinema sempre più propenso alla superficialità e all’ossequio ai canoni televisivi.
Era molto atteso L’intrepido che Gianni Amelio ha diretto a due anni di distanza da Il primo uomo e la non breve parentesi alla direzione del Festival di Torino. Un’attesa, diciamolo subito, andata parzialmente delusa. La storia ha al centro un quarantottenne milanese, disoccupato e divorziato, che si è inventato un nuovo mestiere, quello del rimpiazzo. Vale a dire la sostituzione di quanti, per una ragione o per l’altra devono assentarsi dai posti di lavoro. All’inizio la vediamo fare i mestieri più diversi, dall’edile al tramviere, dall’addetto alla cucine di un ristorante al facchino al mercato del pesce. Nonostante questa esistenza non esaltante – in aggiunta deve fare i conti con l’anziano proprietario di una palestra che gli procura i lavori, ma non disdegna fornire bambini ai pedofili – Antonio Pane, questo il nome del protagonista, coltiva un’esistenza felice, onesta e ottimista. Un percorso di vita che ha superato il divorzio da una moglie che gli ha preferito un traffichino che si è arricchito vendendo agli africani protesi ed è alimentato dall’ammirazione per il figlio, sassofonista jazz, a cui sembra si stia aprendo una brillante carriera. Naturalmente non tutto è rosa come sembra, basta l’incontro con una ragazza in crisi, prossima suicida, e la scoperta dei triboli del figlio per costringerlo a cambiare indirizzo. Ora lavora in una miniera albanese – qui il regista rovescia la prospettiva del suo film sugli schipetari immigrati nel nostro paese (Lamerica, 1994) – ma non ha perso d’ottimismo al punto da far uscire il figlio, in tournée in quel paese, da una crisi a cui non è estraneo l’uso di sostanze proibite. E’ un film che esalta la forza di una generazione che sembra essersi smarrita nel gorghi della storia e dalla politica, ma che ritrova in questo piccolo uomo, onesto e sereno, un filo di speranza. Ottimi intenti, sorretti solo parzialmente da una racconto che la regia non riesce a concludere in modo netto, ci sono almeno tre finali, e che inciampa in un cast che, Antonio Albanese a parte, appare del tutto inadeguato alla bisogna. Come dire un film ricco di buone intenzioni e con qualche invenzione memorabile, ma sostanzialmente privo di una linea unitaria.
Partecipa alla competizione anche The Unknown Known (Lo sconosciuto conosciuto), la lunga intervista che il documentarista Errol Morris ha ottenuto da Donald Rumsfeld , già Segretario alla Difesa durante le presidenze di Gerald Ford (dal 1975 al 1977) e George Walker Bush (dal 2001 al 2006). Come dire, un politico di lungo corso che ha avuto ruoli di grande responsabilità nella seconda guerra irakena, nel trattamento dei prigionieri arabi e nell’attentato delle Torri Gemelle. L’intervistato non manca di astuzia e lucidità e la sua visione dei fatti maschera abilmente atroci responsabilità con pratiche amministrative ordinarie. La forza del film è nel disvelamento di un modo di pensare e un universo etico pronti a giustificare qualsiasi turpitudine in nome degli interessi USA. Una testimonianza di grande importanza, ma un film ben poco originale.
Fuori concorso si è visto Une promesse (Una promessa) del francese Patrice Leconte che, dopo il disegno animato La bottega dei suicidi, si è rivolto al romanziere viennese Stefan Zweig (1881 – 1942) e al suo libro Il viaggio nel passato, per raccontare l’amore di un giovane ingegnere povero per la moglie del padrone dell’acciaieria in cui lavora. Una storia dal taglio decisamente romantico, collocata in Germania fra il 1912 e la sconfitta nella prima guerra mondiale. E’ un film molto curato, di taglio scenografico quasi viscontiano – tutti gli arredi sono dell’epoca giusta – e un racconto elegante denso di sottili osservazioni classiste, mai gridate. Un buon prodotto di cinema tradizionale, solido quanto per niente originale.
La Settimana Internazionale della Critica, gestita autonomamente dal SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani), ha presentato L’armèè du Salut (L’esercito della salvezza) del marocchino Abdellah Taïa. E una coproduzione fra Francia, Svizzera e Marocco tratta dal libro omonimo del regista, qui all’esordio dietro la macchina da presa. La vicenda è idealmente divisa in quattro atti dedicati allo stesso personaggio. Iniziamo con Casablanca in cui si collocano i primi tre momenti che colgono l’adolescente Abdellah in casa, mentre si prostituisce occasionalmente e durante una gita al mare con il fratello maggiore Slimane. Passano dieci anni e lo scenario è quello di Ginevra, dove Abdellah arriva vincitore di una borsa di studio universitaria e, soprattutto, grazie ai buoni uffici si un professore con cui ha avuto un rapporto sessuale in patria. Forse per un errore, forse per un’astuzia intenzionale la sua sistemazione nel campus è possibile solo dal mese seguente e il marocchino deve trovare una collocazione provvisoria. Ci riesce sistemandosi in un rifugio dell’Esercito della Salvezza. Qui incontra un altro giovane magrebino che lo seduce cantandogli una canzone del suo idolo, il cantante e attore egiziano Abdel Halim Hafez (1929 –1977). Il film ha un andamento lento, sagomato sui tempi della vita reale e affronta uno dei temi scottanti della cultura araba: l’omosessualità. Fatto non sorprendente visto che il regista fra i pochi artisti del suo paese ad avere ammesso apertamente le sue preferenze sessuali in questa direzione. La combinazione di questi due fattori, lentezza del racconto e scabrosità della storia, conferiscono al film una forza davvero straordinaria e ne fanno un’opera sensibile alla modernità cinematografia e, nello stesso tempo, socialmente avanzata.
Tsai Ming-liang è originario della Malesia, ma è diventato uno dei maggiori registi di Taiwan. Un autore molto noto il cui Aiquing wansui (Vive l’amour, 1994) ha vinto il Leone d’Oro alla mostra di quell’anno. Con il passare del tempo ha sempre più raffinato e spinto all’estremo il suo stile fatto di lunghissimi paini sequenza, sequenze buie filmate sotto scrosci d’acqua continui e immagini ferme mantenute tali per molti minuti. Sono caratteristiche che segnano opere suggestive come Dong (Il buco, 1998), Bu san (Ultimo spettacolo al cinema Dragone, 2003) e che ritroviamo in Jaojou (Cani randagi). Il film si apre con una sequenza lunga oltre gli otto minuti in cui compare una donna che si pettina guardano i figli che dormono e si procede sulla medesima strada e con lo stesso ritmo seguendo il padre dei pargoli che, dopo averli sottratti alla madre, vive di piccoli lavori, ad esempio fa l’uomo – cartello per la pubblicità di un’immobiliare all’incrocio di una strada super trafficata e, ovviamente, sotto la pioggia. Di notte il terzetto trova rifugio in una casa abbandonata, mentre la madre – impiegata in un supermercato alimentare – continua a cercare i ragazzi e il marito. Alla fine ci sarà un’effimera ricongiunzione ella famiglia in occasione del compleanno dell’uomo, ricongiunzione siglata da un’immagine quasi fissa di moglie e marito – l’uno alle spalle dell’altra – che guardano un affresco che raffigura la riva pietrosa di un fiume o di un lago. Quest’immagine dura oltre i quindici minuti e sintetizza la condizione di blocco in cui si sono venuti a trovare questi cani randagi, veri detriti umani dello sviluppo economico forsennato che ha segnato anche Taipei. E’ un film di non facile visione e di ardua lettura, ma è anche un esempio del migliore cinema contemporaneo. Qualche collega non ha gradito il modo come il regista guida il racconto ravvisandovi una sorta di maniera. Noi, al contrario, vi abbiamo visto un segno di coerente continuità con quello che continua ad essere uno degli autori più interessanti del panorama contemporaneo.
Il Grande Raccordo Anulare, in acronimo GRA, è la strada a scorrimento veloce che contorna Roma. Un vero e proprio piccolo mondo a cui Gianfranco Risi ha dedicato un bel documentario intitolato Sacro GRA presentato in concorso alla Mostra. Di questa piccolo mondo separato il cineasta ci dà un quadro che spazia dalla prostitute al botanico teso a salvare la palme da un vorace parassita, dal pescatore d’anguille agli abitanti – per la maggior parte extracomunitari e sfrattati – che vivono in un casermone, dai militi di un’autoambulanza, al principe che vive in un castello assediato dalle villette, molte abusive, ad alcuni assegnatari di alloggi pubblici in un palazzone dall’aspetto mostruoso dalle condizioni invivibili. Le cronache assicurano che ci sono voluti molto mesi di presenza nei luoghi per comporre questo vasto e doloroso mosaico. Vasto in quanto tratteggia decine di storie, radiografa centinaia di esseri umani, puntualizza situazioni al limite dell’invivibile. Ne è nato un film quanto mai interessante, un documento più che un documentario.
Dove, invece, ci è parso d’intravvedere l’ossequio a un fastidioso cliché è in La jalousie (La gelosia) che il francese Philippe Garrel ha affidato all’interpretazione del figlio Louis. E’ un insieme di storie di amori e tradimenti che s’incrociano fra un gruppo d’attori teatrali e alcune ragazze di buona cultura. Il film è girato in bianco e nero, ma questo più per vezzo che non per vera necessità espressiva. Vi ritroviamo i peggiori cascami del cinema intellettuale d’oltralpe: citazioni colte messe in bocca ai personaggi più per sfoggio culturale che per vera necessità, dialoghi falsamente sofisticati, interpreti fissi in ruoli che pensano di caratterizzare con mossette e sguardi torvi. In altre parole un minestrone di difficile digestione, nonostante la brevità del racconto – meno di novanta minuti – e la presunzione dell’autore.
Si possono dire molte cose pro e conto Återträff (La riunione) opera prima dell’attrice e regista svedese Anna Odell, presentata dalla Settimana Internazionale della Critica, ma non si può negare che sia un testo che tenta strade non consuete. Il film muta radicalmente dopo poco meno di quaranta minuti - su un totale di ottantatré - per diventare qualche cosa di completamente diverso da ciò che aveva fatto intendere prima. S’inizia con una riunione di ex – studenti a vent’anni dal conseguimento del diploma. Dovrebbe essere una festa, magari venata di malinconia o di rimpianti per i sogni perduti, invece si trasforma in uno scontro che arriverà sino al confronto fisico. Anna, interprete la stessa regista, prende la parola per denunciare l’ipocrisia dei ricordi manierati, sciorina davanti agli occhi di tutti l’emarginazione che ha subito, le aggressioni verbali che ha dovuto subire, la gerarchia feroce che imperava fra gli studenti. Tutto sembrerebbe chiudersi con l’allontanamento forzato della disturbatrice, ma qui inizia la seconda parte, un vero e proprio altro film. L’attrice e regista, sempre nei panni di se stessa, convoca i suoi veri compagni di scuola e mostra loro il film che ha girato con attori e sulla base di una sceneggiatura nata dai suo ricordi. In questo modo l’opera diventa una riflessione su finzione e realtà, immaginazione e cronaca. Non si può dire che il progetto sia riuscito in tutte le sue parti o che non vi sia una sovrabbondanza di cose dette in rapporto a quelle mostrate. Ciononostante l’operazione appare davvero originale e le intenzioni più che nobili. Per rendersene conto basta mettere da parte l’idea – ampiamente solleticata nella prima parte – di trovarsi davanti uno di quei film, soprattutto nordici, in cui una qualsiasi occasione conviviale diventa motivo per lo svelamento degli scheletri chiusi negli armadi. In altre parole qualche cosa di simile a Festen - Festa in famiglia (Dogme #1 Festen, 1998) e alle varie opere che si sono mosse sulla stessa linea. Qui a emergere sono le turbe psicologiche di una gioventù frustrata e ingannata non meno di quelle nate sotto altre latitudini.
La sfilata dei film in concorso si è chiusa con Es-Stout (Le terrazze) dell’algerino Merzak Allouache, un vasto mosaico della realtà del paese letta attraverso ciò che capita sui tetti e nelle baracche costruite sopra le case di Algeri. Il tutto cadenzato dalle cinque preghiere che un buon mussulmano deve recitare ogni giorno ad orari precisi che vanno dall’alba alla notte. In altre parole è il quadro di una giornata nella capitale del paese, con storie che riflettono, in varia maniera, ciò che sta accadendo in tutta la nazione e, più in generale, nel mondo arabo. Ci sono gli agenti dei servizi segreti che torturano e uccidono sospetti terroristi e persone che hanno attraversato per caso il loro cammino, ci sono i giovani che non riescono a trovare uno spazio per presentare la loro musica, ci sono le donne omosessuali che preferiscono uccidersi che sottostare alle violenze familiari, ci sono gli imbroglioni che traggono vantaggio dall’ingenuità della gente semplice. C’è tutto questo e molto altro in un film complesso e bello, capace di dare un ritratto impietoso e terribile delle contraddizioni che segnano il mondo arabo e non solo questo. Tutto questo rinforzato da una bellissima fotografia che trae dalla immagini della capitale ripresa dall’alto dei tetti un quadro particolarmente inquietante.
Fuori concorso i sono visti due titoli variamente importanti. Yurusarezarumono (Gli spietati) del giapponese Lee Sang-li rifà in terra del sol levante il film di Clint Eastwood (Gli spietati, 1998) senza aggiungere una riga alla forza di quel modello. Ora il samurai costretto a riprendere in mano le armi per vendicare un prostituta sfregiata da un contadino agisce negli anni finali dell’ottocento, quando il Giappone riuscì a trovare unità nazionale sotto l’imperatore che aveva sconfitto i molti signori feudali che controllavano il territorio. Signori che si avvalevano di eserciti personali composti da guerrieri privati che tiranneggiavano i contadini a vantaggio dei loro padroni. Il film sposa in pieno l’immagine romantica di questi guerrieri, coraggiosi e retti, che si trovarono di colpo a coltivare la terra o, in non pochi casi, a vivere d’elemosine o di rapine. La storia ricalca passo dopo passo la vicenda raccontata dal regista americano, senza aggiungervi un briciolo d’originalità. Vengono in mente quei prodotti taroccati e, spesso, mal imitati che sono uno dei punti di forza delle industrie orientali.
Diverso il giudizio su Che strano chiamarsi Federico, Scola racconta Fellini omaggio che Ettore Scola ha rivolto all’amico e collega. Erano molti anni che questo cineasta non realizzava un film, aveva smesso per protesta contro un inverecondo attacco fatto contro di lui da parlamentari del PDL. Il ritorno alla regia avviene con un’opera che è, allo stesso tempo, documento e film narrativo. Ciò che Ettore Scola riesce a restituirci è il clima ottimista ed economicamente miserabile di un’epoca in cui i sogni superavano di gran lunga i quattrini in tasca o a disposizione. Ci sono sequenze, come quelle delle lunge peregrinazioni in auto dei due colleghi nella notte romana, che sono veri prezzi di bravura capaci di commuovere e spiegare molte cose, molte di più di un qualsiasi saggio sociologico. In definitiva un’opera originale e molto bella, un testo di grande forza firmato da un cineasta che rimane fra le migliori forze vive del nostro cinema.
La Settimana Internazionale della Critica (SIC) ha chiuso il cartellone presentando, fuori concorso, Las analfabetas (Le analfabete) che Moisés Sepúlveda ha tratto dal testo teatrale omonimo di Pablo Paredes E’ la storia dell’amicizia, con venature omosessuali, fra due donne. Ximena fa tutto il possibile per mantenere il segreta la sua condizione di analfabeta. Jackeline è un’insegnate disoccupata che si offre di leggerle le notizie della giornata. Vorrebbe anche insegnarle a leggere, ma la cosa sembra impossibile fino a quando non compare una lettera che l’allieva ha ricevuto dal padre anni addietro e che non ha potuto mai leggere. Questo scritto creerà tra le due donne un rapporto molto intenso, in cui i ruoli spesso risulteranno invertiti. E’ un film di forte impatto teatrale, con prevalenza delle atrici sullo sviluppo della storia. Un testo abbastanza statico e molto tradizionale.
I premi
LEONE D’ORO per il miglior film a:
SACRO GRA di Gianfranco Rosi (Italia, Francia)
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a:
Alexandros Avranas peril film MISS VIOLENCE (Grecia)
GRAN PREMIO DELLA GIURIA a:
JIAOYOU di Tsai Ming-liang (Taipei cinese, Francia)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione maschile a:
Themis Panou
nel film MISS VIOLENCE di Alexandros Avranas (Grecia)
COPPA VOLPI
per la migliore interpretazione femminile a:
Elena Cotta
nel film VIA CASTELLANA BANDIERA di Emma Dante (Italia, Svizzera, Francia)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI
a un giovane attore o attrice emergente a:
Tye Sheridan
nel film JOE di David Gordon Green (Usa)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a:
Steve Coogan e Jeff Pope
per il film PHILOMENA di Stephen Frears (Regno Unito)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a:
DIE FRAU DES POLIZISTEN di Philip Gröning (Germania)
LEONE DEL FUTURO - PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (LUIGI DE LAURENTIIS)
WHITE SHADOW di Noaz Deshe (Italia, Germania, Tanzania)
SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA
PREMI ORIZZONTI
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a:
EASTERN BOYS di Robin Campillo (Francia)
PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a:
Uberto Pasolini per STILL LIFE (Regno Unito, Italia)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a:
RUINdi Michael Cody e Amiel Courtin-Wilson (Australia)
PREMIO SPECIALE ORIZZONTI PER IL CONTENUTO INNOVATIVO a:
MAHI VA GORBEH di Shahram Mokri (Iran)
PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a:
KUSHdi Shubhashish Bhutiani (India)
PREMI VENEZIA CLASSICI
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a:
DOUBLE PLAY: JAMES BENNING AND RICHARD LINKLATER di Gabe Klinger (Usa, Portogallo, Francia)
PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a:
LA PROPRIETÁ NON È PIÙ UN FURTO di Elio Petri (Italia, Francia)
EUROPEAN SHORT FILM AWARD 2013 - EFA a:
HOUSES WITH SMALL WINDOWS di Bülent Öztürk (Belgio)
LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2013
William Friedkin
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER
Ettore Scola
PREMIO PERSOL
Andrzej Wajda
PREMIO L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA
Eugenia Costantini
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