70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica - Pagina 8

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70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica
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L-intrepidoEra molto atteso L’intrepido che Gianni Amelio ha diretto a due anni di distanza da Il primo uomo e la non breve parentesi alla direzione del Festival di Torino. Un’attesa, diciamolo subito, andata parzialmente delusa. La storia ha al centro un quarantottenne milanese, disoccupato e divorziato, che si è inventato un nuovo mestiere, quello del rimpiazzo. Vale a dire la sostituzione di quanti, per una ragione o per l’altra devono assentarsi dai posti di lavoro. All’inizio la vediamo fare i mestieri più diversi, dall’edile al tramviere, dall’addetto alla cucine di un ristorante al facchino al mercato del pesce. Nonostante questa esistenza non esaltante – in aggiunta deve fare i conti con l’anziano proprietario di una palestra che gli procura i lavori, ma non disdegna fornire bambini ai pedofili – Antonio Pane, questo il nome del protagonista, coltiva un’esistenza felice, onesta e ottimista. Un percorso di vita che ha superato il divorzio da una moglie che gli ha preferito un traffichino che si è arricchito vendendo agli africani protesi ed è alimentato dall’ammirazione per il figlio, sassofonista jazz, a cui sembra si stia aprendo una brillante carriera. Naturalmente non tutto è rosa come sembra, basta l’incontro con una ragazza in crisi, prossima suicida, e la scoperta dei triboli del figlio per costringerlo a cambiare indirizzo. Ora lavora in una miniera albanese – qui il regista rovescia la prospettiva del suo film sugli schipetari immigrati nel nostro paese (Lamerica, 1994) – ma non ha perso d’ottimismo al punto da far uscire il figlio, in tournée in quel paese, da una crisi a cui non è estraneo l’uso di sostanze proibite. E’ un film che esalta la forza di una generazione che sembra essersi smarrita nel gorghi della storia e dalla politica, ma che ritrova in questo piccolo uomo, onesto e sereno, un filo di speranza. Ottimi intenti, sorretti solo parzialmente da una racconto che la regia non riesce a concludere in modo netto, ci sono almeno tre finali, e che inciampa in un cast che, Antonio Albanese a parte, appare del tutto inadeguato alla bisogna. Come dire un film ricco di buone intenzioni e con qualche invenzione memorabile, ma sostanzialmente privo di una linea unitaria.
UnknownKnownPartecipa alla competizione anche The Unknown Known (Lo sconosciuto conosciuto), la lunga intervista che il documentarista Errol Morris ha ottenuto da Donald Rumsfeld , già Segretario alla Difesa durante le presidenze di Gerald Ford (dal 1975 al 1977) e George Walker Bush (dal 2001 al 2006). Come dire, un politico di lungo corso che ha avuto ruoli di grande responsabilità nella seconda guerra irakena, nel trattamento dei prigionieri arabi e nell’attentato delle Torri Gemelle. L’intervistato non manca di astuzia e lucidità e la sua visione dei fatti maschera abilmente atroci responsabilità con pratiche amministrative ordinarie. La forza del film è nel disvelamento di un modo di pensare e un universo etico pronti a giustificare qualsiasi turpitudine in nome degli interessi USA. Una testimonianza di grande importanza, ma un film ben poco originale.
une-promesse-patrice-leconte-venezia-2013-poster-586x349Fuori concorso si è visto Une promesse (Una promessa) del francese Patrice Leconte che, dopo il disegno animato La bottega dei suicidi, si è rivolto al romanziere viennese Stefan Zweig (1881 – 1942) e al suo libro Il viaggio nel passato, per raccontare l’amore di un giovane ingegnere povero per la moglie del padrone dell’acciaieria in cui lavora. Una storia dal taglio decisamente romantico, collocata in Germania fra il 1912 e la sconfitta nella prima guerra mondiale. E’ un film molto curato, di taglio scenografico quasi viscontiano – tutti gli arredi sono dell’epoca giusta – e un racconto elegante denso di sottili osservazioni classiste, mai gridate. Un buon prodotto di cinema tradizionale, solido quanto per niente originale.
28SIC-SALVATION ARMY-01La Settimana Internazionale della Critica, gestita autonomamente dal SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani), ha presentato L’armèè du Salut (L’esercito della salvezza) del marocchino Abdellah Taïa. E una coproduzione fra Francia, Svizzera e Marocco tratta dal libro omonimo del regista, qui all’esordio dietro la macchina da presa. La vicenda è idealmente divisa in quattro atti dedicati allo stesso personaggio. Iniziamo con Casablanca in cui si collocano i primi tre momenti che colgono l’adolescente Abdellah in casa, mentre si prostituisce occasionalmente e durante una gita al mare con il fratello maggiore Slimane. Passano dieci anni e lo scenario è quello di Ginevra, dove Abdellah arriva vincitore di una borsa di studio universitaria e, soprattutto, grazie ai buoni uffici si un professore con cui ha avuto un rapporto sessuale in patria. Forse per un errore, forse per un’astuzia intenzionale la sua sistemazione nel campus è possibile solo dal mese seguente e il marocchino deve trovare una collocazione provvisoria. Ci riesce sistemandosi in un rifugio dell’Esercito della Salvezza. Qui incontra un altro giovane magrebino che lo seduce cantandogli una canzone del suo idolo, il cantante e attore egiziano Abdel Halim Hafez (1929 –1977). Il film ha un andamento lento, sagomato sui tempi della vita reale e affronta uno dei temi scottanti della cultura araba: l’omosessualità. Fatto non sorprendente visto che il regista fra i pochi artisti del suo paese ad avere ammesso apertamente le sue preferenze sessuali in questa direzione. La combinazione di questi due fattori, lentezza del racconto e scabrosità della storia, conferiscono al film una forza davvero straordinaria e ne fanno un’opera sensibile alla modernità cinematografia e, nello stesso tempo, socialmente avanzata.