26 Agosto 2013
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70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica |
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Die Frau des Poliziesten (La moglie del poliziotto) del tedesco Philip Gröning affronta un tema di grande attualità, quello della violenza sulle donne soprattutto in ambito familiare, e lo fa con uno stile decisamente originale. Sono una sessantina di brani preceduti da uno schermo nero su cui c’è scritto: inizio capitolo ..., seguito da un altro in cui la scritta diventa fine capitolo …. Sono pezzi brevissimi sotto i due minuti, spesso appena superiori al minuto, che punteggiano la vita di una coppia che progressivamente alimenta una violenza omicida la donna che morirà per mano del marito. Quest’ultimo è un agente di polizia disturbato di suo e definitivamente sbalestrato dalle molte violenze a cui deve assistere – emblematizzate da un sopraluogo sul luogo di un incidente stradale in cui hanno perso la vita molte persone – o che deve perpetrare. Anche in quest’ultimo caso la regia ci offre un esempio: l’uccisione per sua mano di un capriolo in fin di vita dopo essere stato investito da un’auto. Lo scenario in cui questo processo si sviluppa è quello lindo e ordinato di un quartiere di villette unifamiliari in una piccola città. Qui e nella casa della coppia tutto appare ordinato, lindo, preordinato a coprire una turbolenza che si annida sotto la superficie, come i lombrichi che vivono sotto le lastre di pietra che tappezzano il cortile. Un ordine apparente e un disordine reale che trovano sfoco nelle botte che il marito infligge alla compagna il cui corpo si copre progressivamente di lividi. Nonostante queste violenze la donna non si ribella, anzi continua a giustificare il compagno, ad amarlo e a caricarsi della colpa di ciò che accade. E’ un film raffinato, stilisticamente originale, forse troppo lungo – quasi tre ore di proiezione – ma ricco di spunti e motivi di riflessione.
Il contrario di quanto accade all’ americano David Gordon Green che firma Joe, un film in cui circolano molti miti e personaggi del vecchio cinema western. E’ la storia, tratta dal romanzo omonimo di Larry Brown, di un ex detenuto che si è rifatto una vita come imprenditore forestale. Lui vorrebbe stare alla larga dai guai, ma l’incontro con un ragazzino, figlio di un alcolizzato violento, lo costringe, verrebbe da dire, a disseppellire la pistola. E’ un testo privo di vera originalità, con personaggi già sfruttati in abbondanza. A questo si aggiunga la recitazione decisamente sopra le righe di Nicolas Cage e si avrà il quadro di un’opera di cui nessuno avrebbe sentito la mancanza ove non fosse stata inserita nel cartellone della Mostra.
La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Las Niñas Quispe (Le ragazze Quispe), opera prima del cileno Sebastián Sepúlveda. Il film nasce da un fatto di cronaca accaduto nel 1974, durante la dittatura del generale Augusto Pinochet (1915 – 2006), quando tre ragazze che vivevano isolate dal mondo allevando capre, si suicidarono tutte assieme. Il fatto destò molta impressione e il regista lo legge come un esempio del clima di terrore che imperversava nel paese, ipotizzato che le tre donne si siano tolte la vita temendo l’arrivo della polizia con il compito di sterminare il loro gregge. La metafora è calzante è la natura, superba e terribile, in cui s’inquadra la tragedia aiuta a rendere ancor più incubico il racconto. In questo modo il film acquista spessore metaforico trasformandosi nel paradigma di un’epoca terribile e funesta.
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