70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica - Pagina 5

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70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica
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parklandIl trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy (1917 – 1963), è stato assassinato a Dallas, in Texas, mentre si accingeva a tenere un paio di comizi in vista l’imminente campagna elettorale che, con ogni probabilità, lo avrebbe visto trionfare dopo la vittoria ottenuta, nel 1960, contro Richard Nixon. Quella morte ha dato il via a una serie infinta di ipotesi, dietrologie, teorie complottistiche sfociate in centinaia di libri, film, inchieste giornalistiche e parlamentari. La più nota fra queste ultime va sotto il nome di Rapporto Warren, stilato da un’apposita commissione e che, tuttavia lasciò più dubbi per le incongruenze di cui era infarcito che non certezze definitive. Il regista americano Peter Landesman ha riversato nella sua opera prima, Parkland, gran parte dell’esperienza acquisita con giornalista d’inchiesta e corrispondente di guerra. Il film segue le ore immediatamente precedenti l’attentato e quelle che lo seguirono mirando non tanto ai grandi protagonisti (il presidente e il suo presunto assassino) quanto a coloro che vissero quell’esperienza come attori, in un certo senso, di contorno: la First Lady, gli uomini della scorta, quelli dell’FBI, il fratello e la madre di Lee Harvey Oswand ma, soprattutto, Abrahan Zapruder che riprese con una piccola macchina da presa l’assassinio. Il tutto collocato nelle stanze del Parkland Hospital, i cui sanitari cercarono inutilmente di salvare la vita al presidente e negli uffici delle varie centrali di polizia. Ne nasce un film perfetto, una di quelle opere di cui sono maestri i grandi registi americani e che ricostruisce nei dettagli, con sguardo originale, un fatto drammatico. Si potrebbe dire che questo è un cinema assai vicino alle inchieste televisive, ma ciò non diminuisce di un grammo la forza dell’opera.
Mss ViolenzaOpposto l’approccio del greco Alexandros Avranas che, in Miss Violence, parte da un autentico dramma sociale quale la violenza entro le mura domestiche, per costruire un melodramma intessuto di patriarchi violenti e donne – mogli, madri, figlie – che ne subiscono le vessazioni sino ad essere prostituite e messe ripetutamente incinta. Il tutto entro le mura di un lindo appartamento piccolo – borghese su cui impera, il termine è quanto mai appropriato, un anziano che si porta a letto figlia e nipoti, fa prostituire le ragazzine appena undicenni, picchia chi rifiuta di sottostare ai suoi ordini, anche a quelli più assurdi e banali. Il film propone un quadro agghiacciante dell’ordine imposto con la violenza e tende a trasferire l’imperio domestico oltre le mura di casa, facendone la metafora di una società autoritaria e aggressiva. L’obiettivo è colto solo parzialmente e ciò che emerge con maggiore evidenza è un clima melodrammatico in cui i cattivi assumono caratteristiche pessime e le vittime rasentano la l’angelificazione. In definitiva un’opera che non lascia spazio a osservazioni discordanti, tanto sono estremi personaggi e situazioni che porta sullo schermo.

KAZE TACHINUIl giapponese Hayao Miyazaki non è solo il maggiore autore di film d’animazione vivente, ma è anche un vero poeta delle storie che sono trasferite in film. La sua ultima fatica, prima volta alla Mostra di un film di questo tipo, è Zaze tachimu (Il vento si leva) in cui conferma la sua passione per la progettazione aerea degli anni trenta, in particolare per i velivoli disegnati dall’ingegnere Giovanni Battista Caproni. Nel film questa passione sorregge il giovane ingegnere giapponese che progettò il mitico Caccia Zero, l'aereo usato sia per l'attacco a Pearl Harbour sia dai kamikaze per suicidarsi precipitando sulle navi nemiche. In Giappone qualche critico ha condannato il film assimilandolo a una sorte di rigurgito nazionalista, in realtà il disegno pulito e perfetto del grande animatore sorregge una storia pacifista e romantica che ha al centro la passione di un giovane nel bel mezzo di una grande tragedia sia essa la guerra o un devastante terremoto. Ne nasce un film che riesce a parlare di pace e sentimenti pur in un quadro di tragedia collettiva. Un bel testo realizzato, come si usava un tempo, senza ricorrere a computer o duplicazioni elettroniche e la cosa si vede.trap-street-11

Shuiyin Jie (Trappola stradale), opera prima della cinese Vivian Qu, è comparso nel cartellone della Settimana Internazionale della Critica. Il film e, soprattutto, il finale, ricordano molto La conversazione (The Conversation, 1974) di Francis Ford Coppola. Come in quell’opera, infatti, lasciamo il protagonista, in preda all’ossessione di essere spiato, che ispeziona maniacalmente la camera d’albergo con cui va con l’amata. La storia ha al centro Li Qiuming che lavora come apprendista in una compagnia di sistemi satellitari. Il suo compito è collaborare al tracciamento elettronico della mappa di una città con meglio precisata e in continua trasformazione urbanistica. Durante il lavoro incontra una giovane che lo colpisce molto, la incrocia in una strada che non esiste e i cui parametri sono rifiutati dal computer destinato ad elaborare il suo lavoro. Dopo qualche giorno, quando sta approfondendo la conoscenza della donna, che ha rintracciato con non poca fatica, è prelevato da alcune persone dalla professione non meglio definita che lo sottopongono a uno stringente interrogatorio, non privo di imposizioni fisiche, e lo accusano di essere una spia. Scopriamo così l’esistenza di un vastissimo sistema di controllo che osserva, non visto, la vita di tutti senza mai chiudere occhio. E’ questo il nodo del film: la denuncia di una regime occhiuto e invasivo che non lascia spazio alla libertà e alla privacy dei cittadini che amministra. Un meccanismo gigantesco a cui nulla sfugge e che fa capo, lo si dice espressamente in un paio d’occasioni, al Partito che tutto controlla e a cui tutto deve conoscere. Con questa denuncia la regista esibisce un coraggio non comune e riafferma con forza la sua natura di cineasta realmente indipendente in un panorama che ha fatto del sospetto e della diffidenza i pilastri politici che reggono il regime. Da notare anche la maestria con cui il film racconta, senza sbavature o forzature, una storia gialla degna della migliore tradizione del cinema di genere.