70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica - Pagina 7

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70ma Mostra Internazionale d'arte Cinematografica
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Ana ArabiaAna Arabia dell’israeliano Amos Gitai è formato da un unico piano – sequenza che dura ben ottantaquattro minuti, quanti ne servino a Yael, giovane giornalista in cerca del materiale per un articolo, per scoprire e stringere un rapporto più che professionale con un gruppo di reietti, donne e uomini, che vivono in una piccola comunità a mezza strada fra Jaffa e Bat Yam. Dalle domande e risposte emerge un vero spaccato della società e una cultura intessuta sia della memoria delle stragi naziste, sia delle tensioni che hanno accompagnato la nascita e la sopravvivenza dello stato d’Israele. E’ un vero e proprio esercizio di stile e la cosa contrasta con l’atteggiamento quasi documentaristico del regista. In altre parole è un film molto costruito che cerca di mascherarsi da opera semplice e spontanea. Ci sono vari elementi che denunciano questa contraddizione, dagli attori, tutti ebrei tranne uno, che recitano con convinzione ricordi e situazioni drammatiche, alla lettura degli eventi citati che vari israeliani hanno denunciato come non fondati. Un esempio per tutti. Quello che possiamo definire il leader della piccola comunità parla del tempo del mandato britannico sulla Palestina (1920 - 1948) come di un’epoca felice segnata dalla convivenza pacifica fra arabi ed ebrei. Questa versione non trova conforto nelle cronache che parlano, invece, di un periodo segnato da grani tensioni interetniche e da una strisciante guerriglia, da parte ebrea, conto gli occupanti. Questo per quanto riguarda gli appunti politici e di cronaca, ma ciò che rimane è un film davvero unico sia per la forma scelta dall’autore, sia per il suo desiderio di pace in una comunità ancor oggi segnata da forti tensioni.
under-the-skin-Anche Under the Skin (Sotto la pelle) del britannico Jonathan Glazer è opera a suo modo originale. La storia è tratta dal libro d’esordio dell’olandese Michael Faber (1960) pubblicato in Italia dall’editrice Einaudi nel 2000 e racconta di un alieno (uomo o donna non è ben specificato) che assieme ad altri entra nel corpo di una giovane, forse una prostituta, e, sfruttando quelle sembianze, attira vari giovanotti che poi annega in un liquido oleoso. In questo modo questi esseri umani sono triturarti e trasformati in una poltiglia sanguinolenta che dovrebbe essere utile agli allineai arrivati sul nostro pianeta. Come nelle migliori tradizioni e nei prodotti più convenzionali, l’incontro con il sesso e una parvenza d’amore causeranno la rovina dell’essere proveniente dallo spazio che finirà bruciato come una moderna strega. La trama è individuabile con una certa fatica sotto immagini di taglio quasi informale, non tutto è chiaro o facilmente comprensibile. Anzi i punti oscuri, gli snodi non risolti, i passaggi non lineari segnano il film dalle prime alle ultime sequenze. Anche in questo caso si ha l’impressione di un’operazione puramente stilistica basata su una materia che non ha molta importanza per il regista e, di conseguenza, non appassiona lo spettatore. Immagini suggestive – questo cineasta ha un passato di realizzatore di videoclip musicali – ma anche la sensazione di un’operazione del tutto gratuita.
28SIC-ZORAN-4La Settimana Internazionale della Critica ha presentato Zoran, il mio nipote scemo, opera prima dell’italiano Matteo Oleotto. Il film muove da una situazione non nuova nel cinema: un tipo sostanzialmente allergico a qualsiasi forma di responsabilità si trova a dovere gestire un essere umano che gli viene affidato e che, alla fine, si mostrerà ben più maturo di lui. E’ una coproduzione fra Italia e Slovenia che gioca le sue carte migliori sul rapporto fra i personaggi e sul paesaggio che li circonda: il Friuli rurale incline a cedere alla tentazione dell’alcool. Tale è Paolo, un quarantenne assai poco maturo e decisamente indulgente verso la bottiglia, che vive in un piccolo paese vicino a Gorizia. Il suo maggior diletto sono le bevute all’osteria, visto che il lavoro di addetto alla mensa di una casa di riposo non gli offre molte occasioni di gioia. Separato da una bella donna che si è rifatta una vita con un altro, non ha perso la speranza di riconquistarla e le dedica attenzioni che rasentano lo stalking. Un giorno riceve la notizia della morte di una parente slovena che gli ha lasciato in eredità un cane di ceramica e un nipote sedicenne, cresciuto in montagna e apparentemente più che ingenuo. Dopo qualche riluttanza accetta di prendersi cura del ragazzo, che scoprirà essere un formidabile tiratore di freccette. Per lui è l’occasione per rifarsi delle delusioni che il mondo gli ha inflitto, visto che presto si terranno in Scozia i campionati mondiali di questo strano sport con un premio finale di ben cinquantamila euro. Prende avvio da qui la storia di una strana coppia destinata a concludersi, come era facile prevedere, con il riconoscimento della dipendenza affettiva fra i due. E’ il classico film d’attori a cui danno un contributo fondamentale sia Giuseppe Battiston, sia il giovane Teco Celio che non perde un colpo al fianco del corpulento interprete friulano. Come dice una canzone, divenuta presto il motivetto di uno spot regionale, il vin fa alegria, l’acqua xè il funeral; chi lassa il vin friulan, xè proprio un fiol d’un can. Il regista disegna con ironia e partecipazione il quadro di una comunità in cui i bicchieri hanno un ruolo di rilievo e funzionano da veri antidoti a solitudine e delusioni. E’ un panorama di esistenze che non vogliono aver nulla a che fare con la vita vera, la riflessione sul passato, i pesi della responsabilità, compresa quella legata all’amore. Un film apparentemente semplice che, in realtà, cesella alla perfezione caratteri e personaggi, dote rara in un cinema sempre più propenso alla superficialità e all’ossequio ai canoni televisivi.