Festival di Cannes 2005 - Pagina 9

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Festival di Cannes 2005
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Il cinema argentino attraversa una fase particolarmente fortunata, ma i selezionatori de Un Certain Regard non hanno trovato di meglio che proporre Nordeste di Juan Solanas. Il film racconta le vicende intrecciate di una povera donna, madre solitaria e nuovamente incinta, e di una manager francese che va in Argentina per comprarsi un bambino. Non tutte le interconnessioni funzionano a dovere e, per buona parte, il film scorre su binari paralleli e quasi incomunicabili. Il finale tragico e aperto odora più di voglia di chiudere il racconto che non di soluzione funzionale all’intero assunto.
USA
Il cinema statunitense, particolarmente quello non totalmente inserito nel meccanismi produttivi hollywoodiani propone spesso testi piuttosto interessanti, comunque quasi sempre di ottima fattura professionale. E’ il caso di Down in the valley (Giù nella valle) di David Jacobson che mette assieme fascino dei western classici con la solitudine miserabile delle moderne periferie. Una famiglia abbastanza ordinata, anche se condotta dal solo padre, è sconvolta dall’arrivo casuale di uno strano, tipo vestito da cow boy, che parla come nei film degli anni cinquanta. La figlia maggiore s’innamora di lui, contro la volontà di suo fratello. Finirà in tragedia con la ragazza moribonda e il ragazzo inseguito a cavallo dal genitore. È un film con alcuni aspetti originali e che scivola quietamente dalla quasi farsa alla tragedia. La costruzione è solida, gli attori molto bravi, anche se disturba un mito esasperato per il vecchio cinema e una scarsa puntualizzazione delle regioni profonde del dramma.
Situazione simile in The King (Il re) di James Marsch che ruota attorno ad un ex-marinaio, figlio illegittimo di un ricco predicatore. L’ex militare, appena congedato, va alla ricerca del padre, ma questi lo scaccia. La sorellastra s’innamora di lui, senza immaginare il legame che li lega. Sviluppo tragico, con l’uccisione del fratellastro, perchè si oppone alla relazione, e finale con massacro. L’asse del discorso sembra muovere in due direzioni: il sostegno al figlio della colpa e la denuncia del fanatismo religioso. Nessuno dei due temi è debitamente approfondito e il film naviga a mezz’aria fra il melodrammone e il quadro sociale della provincia profonda americana, meglio texana, delle sue fobie e miserie.
Australia, Africa, Cuba
Come in tutte le selezioni, c’erano, poi alcuni film spersi, nessuno dei quali memorabile. Yellow Fella (Il giallo) d’Ivan Sen è un mediometraggio australiano su un aborigeno apparso, nel 1978, nel film The Chant of Jimmy Blacksmith (La ballata di Jimmy Blacksmith) di Fred Schepisi. Vi si racconta la dura esperienza di quest’attore preso dalla strada, la ricerca di un posto nella società australiana, l’affannosa ricerca del padre, un gallese che si è unito ad un’aborigena. E' un bel documento sulla condizione di un’anima a metà del guado in una società forzatamente multietnica, ma non per questo meno razzista.
Jewboy (Ragazzo ebreo) di Tony Krawitz è il ritratto di un giovane ebreo appartenente ad una comunità australiana ortodossa. I legami con la stretta osservanza gli lo soffocano, il non poter neppure sfiorare una ragazza mette a dura prova i suoi ormoni in ebollizione. Si ribellerà, ma non riuscirà a tagliare sino in fondo i legami con la tradizione che lo ha partorito. E’ un bel servizio televisivo, intelligente e preciso, ma poco di più. I film africani si dividono almeno in tre filoni: quelli di tipo magico realista, quelli sui gravi problemi sociali e quelli che imitano il cinema occidentale.
Marock (Marocco, ma il giogo delle parole e fra Ma e Rock) di Laïla Marrakchi appartiene all’ultima categoria e racconta i turbamenti sessuali e le piccole ribellioni di un gruppo di ragazzi e ragazze della buona borghesia marocchina. Ci sono anche accenni al maschilismo e al fondamentalismo, ma sono le classiche spezie con cui si tenta, senza riuscirci, di insaporire una pietanza scipita.
Da qualche tempo il cinema cubano lascia filtrare qualche spirito critico sulla società, parla di balseros (coloro che abbandonano l’isola su imbarcazioni di fortuna) e di traffici più o meno leciti, ma lo fa a patto che, alla fine, tutto ritorni nell’ordine. E’ il caso di Habana Blues di Benito Zambiano, in cui la lotta di un gruppo originale, portatore di musica realmente nuova, è dilaniato fra l’emigrare clandestinamente, mettendosi nelle mani di un’azienda discografica che minaccia di spolparli sino all’osso, o rimanere nell’isola e continuare a battersi per farsi strada. Una dilemma importante, ma che qui serve solo a sorreggere un film coloratissimo, quanto vecchio.