Festival di Cannes 2005 - Pagina 3

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Festival di Cannes 2005
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In Broken Flowers (Fiori appassiti), di Jim Jarmusch, un maturo Don Giovanni, ricco pensionato di un’azienda di computer, riceve una lettera in cui un’anonima ex- amante gli confessa di avere avuto un figlio da lui. Spinto da un vicino di casa, intrigante e con la mania del poliziotto dilettante, parte alla ricerca delle quattro donne che possono nascondersi dietro la missiva. È l’occasione per una riflessione sul passato e sull’attuale solitudine di una ricca borghesia americana, ma è anche un modo per riguardare le molte strade e i non pochi fallimenti cui è approdata la generazione dei fiori. Il titolo allude evidentemente a questo, e il film lo testimonia con l’approdo a cui sono giunte le varie donne che il maturo seduttore incontra: la sessualità trasformata in oggetto di consumo, il successo economico pagato con la castrazione della fantasia, l’approdo omosessuale unito a un lavoro stupido, l’emarginazione accettata come modello di vita. Il film non offre soluzioni; non sapremo, con certezza, chi ha scritto la lettera, se essa costituisce uno scherzo crudele o incarna un grido di dolore. Il regista costruisce l’opera attorno alla personalità di Bill Murray, qui più bravo che mai, come esempio di un’anzianità che scopre di aver sprecato la vita: ha ottenuto molte cose, ma nulla di veramente importante e duraturo. Usando l’abituale impasto di stranezza, ironia e violenza, Jim Jarmusch ci consegna un film straordinario, bello, commuovente e, cosa che non guasta, foriero di riflessioni e utili spunti amari.
Il cinema cinese continua ad indagare sul passato di quella grande nazione, sul dolore, l’oppressione, gli orrori cui è intessuto il maoismo e buona parte del regime attuale. Vegli anni settanta operai ed intellettuali che abitavano nelle grandi città furono spinti a trasferirsi nei centri periferici per formare quella che fu detta la terza linea. Fu loro promesso un rapido ritorno, ma, almeno sino alla metà degli anni ottanta, chi tornò lo fece clandestinamente. Qing hong (I sogni di Shanghai) di Wang Xiaoshaui racconta uno di questi drammi: la storia di una famiglia dall’ordinamento moralistico e rigido che, all’inizio degli anni ottanta, decide di ritornare, senza autorizzazione, a Shanghai. Attorno, c'è lo scontro fra i nuovi venuti e i locali, l’amore di un giovane operaio per la ragazza arrivata da fuori, i fermenti filoamericani dei giovani. È un quadro di povertà e violenza cruda e disperante, con il giovane innamorato che, disperato per gli ostacoli posti dal capofamiglia, aggredisce la ragazza e finisce condannato a morte per stupro e giustiziato. E' questa la giustificazione dei numerosi spari che, nel corso del film, ascoltiamo senza capirne la ragione: sono le continue esecuzioni con cui il regime tenta di sopire brutalmente ogni tentativo di ribellione. Un film di forte impatto stilistico, girato con tempi volutamente e necessariamente lenti, pieno di riferimenti sottili e di spunti polemici attualissimi. E' davvero una nuova, grande prova del momento di grazia attraversato dal cinema cinese.
Sin City (La città del peccato) di Frank Miller e Robert Rodriguez nasce dagli album a fumetti, pardon, dal romanzo grafico, come ora si usa dire, del primo. È un universo popolato d’omaccioni violenti, poliziotti tristi e indistruttibili, politici corrotti, preti diabolici, torturatori sadici e che più ne ha più ne metta. Il passaggio dal disegno al film è avvenuto in maniera tecnologicamente sorprendente, con l’uso di un bianco e nero punteggiato, qua e là, da macchie di colore e un montaggio forsennato, che modifica subitamente i piani: dai dettagli si passa ai campi lunghi, senza alcuna continuità linguistica di tipo classico. Detto tutto il bene possibile sul piano dell’invenzione tecnica, rimangono non pochi dubbi sul senso complessivo dell’operazione, compresa l'esagerata violenza che trasporta. Un conto è l’immagine grafica di un tipo che strappa i genitali ad un altro e un’altra è la sequenza cinematografica che contiene la stessa azione. Quentin Tarantino, gran patron del film, è solito sostenere che la violenza esasperata tipica delle opere di questo genere, appartiene al mondo delle favole e del gioco, per cui non dovrebbe destare sospetti. C’è da dubitarne, soprattutto quanto queste esibizioni di sangue, torture e macelli vari non si appoggiano a nessuna necessità espressiva, ma sono solo il frutto di un virtuosismo neppure nascostamente sadico.
Peidre ou faire l’amour (Dipingere o fare l’amore) dei fratelli Arnaud e Jean-Marie Larrieu è il classico film di qualità francese, vale a dire: buona sceneggiatura, storia sufficientemente originale, attori perfetti, confezione professionale d’alto livello. Una coppia borghese, benestante e felicemente sposata da oltre trent’anni: lui é un pensionato, ex funzionario dell’ufficio meteorologico, lei dirigente in una piccola industria ed è una pittrice dilettante. Dalla cittadina, vicina alle montagne pirenaiche, in cui vivono si trasferiscono in campagna, ristrutturando una vecchia fattoria, indicata loro dal sindaco cieco di un paesino. Tutto funziona tranquillamente, con le serate conviviali, la figlia che ha ottenuto una borsa di studio in architettura a Roma, le gite domenicali, la cura della casa. E' un mondo di tranquilla noia, improvvisamente interrotta dall’incendio della casa del sindaco non vedente, sposato con una donna bella e giovane. I due decidono di ospitare i senzatetto e, inizia così un gioco ambiguo che termina con uno scambio di coppia. Dopo un primo smarrimento, i due ci prendono gusto e, prima, seguono i partner in un’isola del Pacifico, poi ci riprovano, questa volta prendendo loro l’iniziativa, con una coppia di passaggio. La trasgressione, razionalmente impensabile, è servita a rinvigorire il legame di coppia e infiammare un amore che sessualmente sembrava quietamente estinto. La forza del film è nel proporre un’atmosfera, che potrebbe essere ricca d’ambiguità, con occhio limpido, senza moralismi o compiacimenti di sorta. La confezione è perfetta, così come gli attori. Ciò che guasta, in parte, il quadro è una meccanica costruita a tavolino, poco partecipata, per nulla pulsante. Persino le scene erotiche più intriganti appaiono come raggelate da una precisione tutta di testa, un volere mettere le brache della razionalità ad un tema e una storia che, forse, aveva bisogno più di sangue e autentica partecipazione.