Festival di Cannes 2005 - Pagina 2

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Festival di Cannes 2005
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Se sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana non ripete l'exploit de La bella gioventù, quello di fare convivere un film per il cinema con un dignitoso prodotto televisivo. Questa volta il piccolo schermo ha il sopravvento e, tranne le scene di mare, ci si adagia sul dramma sociale per il piccolo schermo in la denuncia non colpisce i nodi del problema, in sostanza tutti i personaggi sono angelici o hanno giustificazioni per il loro comportamento. Poliziotti, gestori di centri di prima accoglienza, giudici tutti sono comprensivi e buonissimi, così come lo sono, nella maggior parte dei casi gli immigrati. Neppure i padroncini bresciani riescono ad essere malvagi sino in fondo. La storia è quella di un ragazzino, figlio di un industrialotto bresciano, che cade in mare durante una crociera in barca. Tutti lo credono morto, in realtà è stato salvato da alcuni immigrati clandestini che stanno tentando di raggiungere l’Italia su un barcone della disperazione. Il film è diviso in tre parti, quasi altrettante opere in comunicanti: la vita a Brescia e sulla barca dei ricchi, il soggiorno sul barcone, il ritorno e la scoperta che chi lo ha salvato non potrà essere accolto subito, anzi si rivelerà alla lunga un delinquente o un poveraccio indotto a delinquere. Il film è girato piattamente, con ben poca fantasia e inventiva. Davvero una brutta sorpresa.
La batalla en el cielo (La battaglia in cielo) è l'opera seconda del messicano Carlos Reygadas che, con Japòn (2002) ha ottenuto un enorme eco in una parte della critica. Quei giudizi favorevoli gli sono stati indispensabili per ottenere i maggiori mezzi necessari a realizzare questo secondo film. La storia è semplice a scriversi, molto frammentata e intrecciata nello scorrere delle immagini. Un vigilante privato, che lavora presso il Ministero della Difesa, decide di rapire, complice sua moglie, il figlio di un vicino di casa. Lo fa anche perché perdutamente innamorato della figlia di un generale, suo superiore. La ragazza si prostituisce per diletto e lui spera di entrare nel giro dei fortunati. Il rapimento va male e il bimbo muore. Corroso dal rimorso si confessa alla giovane, lei fa l'amore con lui, ma lo convince a costituirsi. Prima di farlo la pugnala e va a morire, penitente, in chiesa. Il mondo che contorna questi personaggi ha perso qualsiasi connotato che non sia quello della materialità e della pura semplice sopravvivenza. Non a caso il film si apre e chiude con una fellazzio rappresentata in dettaglio. Crudele nelle scene, disperato della costruzione dei personaggi, il film ha qualche cosa di troppo costruito: sembra una macchina il cui primo obiettivo è disturbare gli spettatori, anziché volere raccontare una storia o descrivere una situazione. Da vedere, ma con cautela.
Chi si aspettava un David Cronenberg d'annata, pieno di fantasia barocca, mostri e atmosfere inquietanti, è rimasto deluso. A History of violence (Una storia di violenza) nasce dai fumetti omonimi di John Wagner e Vince Locke in cui si racconta il ritorno allo scontro cruento di un ex gangster che si è rifatto una vita sotto falso nome in una piccola cittadina dell'Indiana. Per un caso - ha sterminato un paio di pericolosi assassini che avevano tentato di rapinare il suo bar - finisce sulle reti televisive nazionali e attira l'attenzione della banda capeggiata da suo fratello, che ha con lui molti conti da regolare. Purtroppo per lodo, coloro che sono stati mandati ad ammazzarlo, devono sperimentare la sua abile e feroce violenza. Dopo aver sterminato una decina di gangster, compreso il fratello, potrà ritornare fra le tranquille mura domestiche, riconciliato con figli e moglie, che solo adesso inizia a superare lo choc della nuova identità del marito. Il film è molto ben fatto, destinato ad un prevedibile successo di pubblico, ma notevolmente anonimo dello stile. Ricorda, modernizzati certi western in cui il pistolero, disgustato dalla violenza, è costretto dalla cattiveria degli altri a rimettere mano alla pistola. Si vede con gran piacere, ma si stentano ad individuare i quarti di nobiltà stilistici che ne hanno legittimato la presenza in concorso.
A proposito di Manderlay di Lars Von Trier si potrebbero riprendere, pari pari, le cose dette e scritte per Dogville (Palma d'Oro 2003), cosa comprensibile, visto che questo nuovo film è il seguito dichiarato di quello. Il procedimento stilistico - un grande capannone con pochi arredi scenici e segnati per terra i luoghi dell'azione - è lo stesso così com'è identico l'intento di denunciare con forza polemica gli orrori di cui si è resa responsabile l'America, simile l'approccio richiesto agli attori con una recitazione molto naturalistica, quasi sospesa nel vuoto dello spazio e nella dichiarata falsità dell'impianto scenico. Qui il capobanda e la figlia Grace, in cerca di nuove occasioni di profitto in una piantagione dell'Alabama ove vige ancora la segregazione razziale. La donna si scandalizza vedendo le condizioni in cui è tenuta la gente di colore e, con l'aiuto dei bravacci del padre, prende il posto della vecchia proprietaria e ne sottomette i fattori, il tutto con l'intento d'instaurare il regno della libertà e della democrazia. Le cose vanno diversamente, lasciati a se stessi gli ex-schiavi smettono di lavorare, litigano, muoiono di fame perché nessuno dice loro che cosa debbono fare. Alla fine sarà proprio la giovane idealista ad assumere toni dittatoriali e occupare il posto della vecchia padrona, fra il tripudio degli ex-schiavi che si ritrovano, finalmente, in una condizione nota e a loro confacente. La metafora sull'Iraq e l'esportazione della democrazia, teorizzata da George W. Busch, è palese e il metodo brechtiano adottato conferma la volontà, ad un tempo didascalica e militante, che muove il regista. Il tutto senza togliere un grammo alla sua verve poetica e stilistica. Certo, c'è meno innovazione rispetto all'opera precedente, di cui questa, stilisticamente parlando, appare più un perfezionamento che un passo avanti. Un difetto abbastanza marginale che non compromette il valore e la forza della proposta.
L'enfant, di Jean-Pierre e Luc Dardenne, è un ottimo film, senza arrivare ad essere un capolavoro. I due fratelli belgi, che hanno vinto la Palma d'Oro a Cannes del 1999 con Rosetta, ritornano sul mondo dei giovani, poveri ed emarginati, con la storia di una coppia che ha appena avuto un figlio. I due campano con gli esiti di e ricettazione e, forse anche per questa radicata abitudine mercantile, l'uomo decide di vendere il piccolo senza dire nulla alla compagna. Quando questa lo viene a sapere, va letteralmente in paranoia, lo denuncia e non vuole più vederlo. D'altro canto i compratori restituiscono il piccolo, ma voglio il doppio della cifra consegnata all'atto della cessione. Stretto fra la ripulsa della compagna e la violenta insistenza dei trafficanti, il giovane non trova via migliore se non quella di tentare uno scippo ai danni della cassiera di un grande negozio. La cosa va male e l'ultima immagine mostra la copia, piangente e, forse, riconciliata nel parlatorio del carcere. I due registi proseguono sulla strada di un cinema realista, attento ai problemi sociali, in particolar modo a quelli giovanili. Questa volta la confezione è più classica delle precedenti, con meno invenzioni stilistiche - la macchina da presa costantemente addosso a Rosetta, ad esempio - e con qualche concessione alla spettacolarizzazione del racconto. Ne emerge un buon film, ma meno originale e commuovente degli altri da loro firmati. E' come se un discorso vigoroso e importante cedesse, seppur di minima misura, alla maniera. In ogni caso un buon lavoro degno di grande attenzione.