Festival di Cannes 2005

Stampa
PDF
Indice
Festival di Cannes 2005
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Un Certain Regard
Pagina 7
Pagina 8
Pagina 9
Varie cose
Tutte le pagine

Festival di Cannes 2005: una buona, ordinaria amministrazione

sito ufficiale: http://www.festival-cannes.fr/
Image La cinquantottesima edizione del Festival si è svolta all'insegna di una tranquilla conferma di talenti già consolidati, nel senso che, se nessun film in programma ha indignato per bruttezza, non c'è stato neppure l'opera che ha primeggiato su tutte le altre in modo indiscutibile.
Il francese Lemming (nome di un piccolo roditore lappone) di Dominik Moll è un groviglio in cui s’intrecciano storie d’amore, fantasmi, torme d'animali migranti. Il senso dovrebbe essere quello della forza dei legami profondi, anche a costo di delitti, veri o sognati. Il risultato è un film oscuro, lungo e abbastanza pasticciato.
Bashing (L'emarginata) del giapponese Kobayashi Masahiro prende di petto un problema terribile. Tratto da un fatto di cronica racconta le vessazioni, la vera e propria emarginazione violenta a cui è sottoposta una volontaria andata in Iraq per dare un aiuto umanitario, rapita e liberata dopo grandi sforzi del governo nipponico. Al ritorno incontra una generale atmosfera d'odio, la licenziano, aggrediscono, colpiscono anche la sua famiglia, al punto che il padre si suicida. È un ritratto, di taglio quasi televisivo, su un’intolleranza che affonda le radici in antiche vocazioni imperiali e revansciste.
Klilometre Zero (chilometro zero) del curdo Hiner Saleem (Vodka Lemon, 2003) è un'opera più di pancia che di testa. Tutto è raccontato in flash back da una coppia di curdi emigrati a Parigi che stanno gioendo per la caduta di Saddam Hussein e ricordano le grottesche e drammatiche vicende che hanno dovuto attraversare durante la dittatura. L'asse del film è nel lungo viaggio che un giovane militare curdo, arruolato con la forza e la violenza, compie ritornando in patria per accompagnare, assieme ad un autista arabo, la salma di un suo connazionale ucciso al fronte. Il percorso è, ad un tempo, drammatico e grottesco con tanto di militari feroci, boriosi e stupidi, popolazioni martoriate, uccisioni immotivate. Sono i mesi della grande mattanza con i gas, perpetrata dagli uomini del dittatore di Bagdad ai danni di migliaia di civili inermi. Il film lascia perplessi per la forza polemica che non si piega ad alcuna seria riflessione. E' un manifesto, un grido di protesta e, come tale, non vuole sentire ragioni. Benedice la fine del sanguinoso tiranno, ma sembra quasi non preoccuparsi della macelleria che ne ha seguito la caduta. Più che comprensibile come urlo di dolore di un popolo, meno come quadro complesso di una realtà terribile.
Last Day è l'ultima fatica di Gus van Sant, vincitore con Elephant della Palma d'Oro 2003. La macchina da presa è puntata su Kurt Cobain, un musicista rock, morto in solitudine nel 1994, a soli 27 anni. Usando la solita imperturbabilità da entomologo, il regista segue le ultime giornate di vita di quest'artista. È un vero calvario fra deliri, fughe, sogni, lampi di genio musicale, il tutto immerso in un'atmosfera di droga e sesso. Il film convince meno del precedente, in quanto qui si sente ancor più il distacco fra il dramma e una qualsiasi situazione esterna al piccolo gruppo che s'autoisola e autodistrugge. La macchina da presa è mossa con bravura e, a tratti, freddezza chirurgica, anche se molti piani - sequenza sembrano persino compiaciuti nella loro lunghezza insistita.
Persino un autore mito per la cinefilia come Atom Egoyan ha fatto un passo indietro con Where The Truth Lies (Dov''è la verità), un buon prodotto da cinema americano degli anni cinquanta basato su un omicidio compiuto nel giro di un paio di famosi intrattenitori televisivi con qualche scheletro nell'armadio. Psicanalisi, suspence, girovagare fra i tempi e i personaggi, tutto è al servizio di un film solido, ben costruito, ma passabilmente non originale.
Election (Elezione) di Johnnie To segue la strada dei precedenti Breaking News (Edizione straordinaria) e Rudao Longhu Bang (visto a Venezia 2004): uno sguardo misurato quanto riguarda l'azione, almeno se rapportato ad altri film di genere, quanto quasi partecipe sulla società malavitosa. Qui siamo all'elezione, all'interno del consesso delle triadi di Hong Kong, di un nuovo capo. Due rivali si fronteggiano e la lotta sarà senza esclusione di colpi sino a che resterà un solo vincitore, quello che più confida nelle tradizioni e nel senso storico dell'organizzazione. È presuntuoso e inutile pretendere di valutare film come questo e gli atteggiamenti che sott'intendono (apparentante così simili a cere fascinazioni per i padrini) senza dominare abbastanza a fondo la cultura cinese. Partendo da questa confessione di relativa impotenza resta da apprezzare la forza professionale della costruzione, la misura delle sequenze che non eccedono mai nel senso di una sovrabbondanza d'effetti speciali e la capacità di costruire un racconto che emozionalmente tiene dal primo all'ultimo minuto. Un film che si vede con piacere, ma che lascia per pressi e fa venire voglia di saperne di più, il che non è poco.
Cachè (Niente da nascondere) segna il ritorno di Michael Haneke a quel cinema forte, perfetto nella confezione cui ha segnato gli anni inizi della sua carriera nel lungometraggio, dopo un lungo, fortunato periodo di lavoro nella televisione austriaca. Una fase aperta nel 1989 con Der Siebente Kontinent (Il settimo continente) e sostanzialmente conclusa con 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, 1994). Dopo questo periodo ha avuto la possibilità di lavorare su grandi coproduzioni europee che, se gli hanno offerto un campo d'ampio respiro, hanno anche insidiato la sua purezza stilistica. Con questo film ritorna alle origini, alle opere intessute di una violenza psicologica estrema - quasi mai una goccia di sangue ma atmosfere feroci che suonano condanna all'impotenza, all'indifferenza e alla grettezza che si nascondono sotto i panni perbenisti della società opulenta. I suoi personaggi appartengono, di solito, alla borghesia medio - alta, nascondono segreti inconfessabili, provano sensi di colpa nei confronti dei figli che, da parte loro, li contraccambiano con altrettanta indifferenza e odio. È la situazione in cui si viene a trovare anche Georges, raffinato giornalista televisivo, conduttore di uno stimato salotto letterario che, di colpo, si trova al centro di una vera e propria persecuzione: gli arrivano a casa con cadenza sempre più ravvicinata lunghi video che riprendono in campo fermo la sua casa, la fattoria in cui è nato, disegni dal taglio infantile grondanti sangue. Non sa da chi arrivano, né che cosa vuole il misterioso mittente. Lentamente le cose quasi arrivano a chiarirsi e tutto sembra fare capo ad un episodio accaduto nell'infanzia del protagonista, quando, nel pieno della guerra d'Algeria, la polizia parigina massacrò oltre duecento immigrati colpevoli solo di manifestare per l'indipendenza della loro patria d'origine. In quell'anno, il 1961, ancora bambino, diede a suo modo una mano alla repressione, impedendo l'adozione di un piccolo orfano di una coppia sparita nel vortice repressivo. Un gesto che condannò il piccolo ad una vita di miseria e di soggezione culturale. Quell'antica colpa chiede ora il suo risarcimento e ad esigerlo saranno proprio suo figlio e quello della vittima di allora. Il film ha una struttura compatta, intelligente che lascia allo spettatore ogni giudizio; persino il disvelamento finale degli autori della congiura ha i toni di una possibilità fra molte altre. Ciò che è chiaro è la denuncia della responsabilità di chi crede d'essere al riparo da tutto solo perché fortunato di nascita o di condizione sociale. Il tema della colpa per le sofferenze del mondo e le responsabilità verso gli emarginati è una sorta di filo rosso che ritorna nel lavoro di regista e rende grande e commuovente anche questo bel film.
Se sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana non ripete l'exploit de La bella gioventù, quello di fare convivere un film per il cinema con un dignitoso prodotto televisivo. Questa volta il piccolo schermo ha il sopravvento e, tranne le scene di mare, ci si adagia sul dramma sociale per il piccolo schermo in la denuncia non colpisce i nodi del problema, in sostanza tutti i personaggi sono angelici o hanno giustificazioni per il loro comportamento. Poliziotti, gestori di centri di prima accoglienza, giudici tutti sono comprensivi e buonissimi, così come lo sono, nella maggior parte dei casi gli immigrati. Neppure i padroncini bresciani riescono ad essere malvagi sino in fondo. La storia è quella di un ragazzino, figlio di un industrialotto bresciano, che cade in mare durante una crociera in barca. Tutti lo credono morto, in realtà è stato salvato da alcuni immigrati clandestini che stanno tentando di raggiungere l’Italia su un barcone della disperazione. Il film è diviso in tre parti, quasi altrettante opere in comunicanti: la vita a Brescia e sulla barca dei ricchi, il soggiorno sul barcone, il ritorno e la scoperta che chi lo ha salvato non potrà essere accolto subito, anzi si rivelerà alla lunga un delinquente o un poveraccio indotto a delinquere. Il film è girato piattamente, con ben poca fantasia e inventiva. Davvero una brutta sorpresa.
La batalla en el cielo (La battaglia in cielo) è l'opera seconda del messicano Carlos Reygadas che, con Japòn (2002) ha ottenuto un enorme eco in una parte della critica. Quei giudizi favorevoli gli sono stati indispensabili per ottenere i maggiori mezzi necessari a realizzare questo secondo film. La storia è semplice a scriversi, molto frammentata e intrecciata nello scorrere delle immagini. Un vigilante privato, che lavora presso il Ministero della Difesa, decide di rapire, complice sua moglie, il figlio di un vicino di casa. Lo fa anche perché perdutamente innamorato della figlia di un generale, suo superiore. La ragazza si prostituisce per diletto e lui spera di entrare nel giro dei fortunati. Il rapimento va male e il bimbo muore. Corroso dal rimorso si confessa alla giovane, lei fa l'amore con lui, ma lo convince a costituirsi. Prima di farlo la pugnala e va a morire, penitente, in chiesa. Il mondo che contorna questi personaggi ha perso qualsiasi connotato che non sia quello della materialità e della pura semplice sopravvivenza. Non a caso il film si apre e chiude con una fellazzio rappresentata in dettaglio. Crudele nelle scene, disperato della costruzione dei personaggi, il film ha qualche cosa di troppo costruito: sembra una macchina il cui primo obiettivo è disturbare gli spettatori, anziché volere raccontare una storia o descrivere una situazione. Da vedere, ma con cautela.
Chi si aspettava un David Cronenberg d'annata, pieno di fantasia barocca, mostri e atmosfere inquietanti, è rimasto deluso. A History of violence (Una storia di violenza) nasce dai fumetti omonimi di John Wagner e Vince Locke in cui si racconta il ritorno allo scontro cruento di un ex gangster che si è rifatto una vita sotto falso nome in una piccola cittadina dell'Indiana. Per un caso - ha sterminato un paio di pericolosi assassini che avevano tentato di rapinare il suo bar - finisce sulle reti televisive nazionali e attira l'attenzione della banda capeggiata da suo fratello, che ha con lui molti conti da regolare. Purtroppo per lodo, coloro che sono stati mandati ad ammazzarlo, devono sperimentare la sua abile e feroce violenza. Dopo aver sterminato una decina di gangster, compreso il fratello, potrà ritornare fra le tranquille mura domestiche, riconciliato con figli e moglie, che solo adesso inizia a superare lo choc della nuova identità del marito. Il film è molto ben fatto, destinato ad un prevedibile successo di pubblico, ma notevolmente anonimo dello stile. Ricorda, modernizzati certi western in cui il pistolero, disgustato dalla violenza, è costretto dalla cattiveria degli altri a rimettere mano alla pistola. Si vede con gran piacere, ma si stentano ad individuare i quarti di nobiltà stilistici che ne hanno legittimato la presenza in concorso.
A proposito di Manderlay di Lars Von Trier si potrebbero riprendere, pari pari, le cose dette e scritte per Dogville (Palma d'Oro 2003), cosa comprensibile, visto che questo nuovo film è il seguito dichiarato di quello. Il procedimento stilistico - un grande capannone con pochi arredi scenici e segnati per terra i luoghi dell'azione - è lo stesso così com'è identico l'intento di denunciare con forza polemica gli orrori di cui si è resa responsabile l'America, simile l'approccio richiesto agli attori con una recitazione molto naturalistica, quasi sospesa nel vuoto dello spazio e nella dichiarata falsità dell'impianto scenico. Qui il capobanda e la figlia Grace, in cerca di nuove occasioni di profitto in una piantagione dell'Alabama ove vige ancora la segregazione razziale. La donna si scandalizza vedendo le condizioni in cui è tenuta la gente di colore e, con l'aiuto dei bravacci del padre, prende il posto della vecchia proprietaria e ne sottomette i fattori, il tutto con l'intento d'instaurare il regno della libertà e della democrazia. Le cose vanno diversamente, lasciati a se stessi gli ex-schiavi smettono di lavorare, litigano, muoiono di fame perché nessuno dice loro che cosa debbono fare. Alla fine sarà proprio la giovane idealista ad assumere toni dittatoriali e occupare il posto della vecchia padrona, fra il tripudio degli ex-schiavi che si ritrovano, finalmente, in una condizione nota e a loro confacente. La metafora sull'Iraq e l'esportazione della democrazia, teorizzata da George W. Busch, è palese e il metodo brechtiano adottato conferma la volontà, ad un tempo didascalica e militante, che muove il regista. Il tutto senza togliere un grammo alla sua verve poetica e stilistica. Certo, c'è meno innovazione rispetto all'opera precedente, di cui questa, stilisticamente parlando, appare più un perfezionamento che un passo avanti. Un difetto abbastanza marginale che non compromette il valore e la forza della proposta.
L'enfant, di Jean-Pierre e Luc Dardenne, è un ottimo film, senza arrivare ad essere un capolavoro. I due fratelli belgi, che hanno vinto la Palma d'Oro a Cannes del 1999 con Rosetta, ritornano sul mondo dei giovani, poveri ed emarginati, con la storia di una coppia che ha appena avuto un figlio. I due campano con gli esiti di e ricettazione e, forse anche per questa radicata abitudine mercantile, l'uomo decide di vendere il piccolo senza dire nulla alla compagna. Quando questa lo viene a sapere, va letteralmente in paranoia, lo denuncia e non vuole più vederlo. D'altro canto i compratori restituiscono il piccolo, ma voglio il doppio della cifra consegnata all'atto della cessione. Stretto fra la ripulsa della compagna e la violenta insistenza dei trafficanti, il giovane non trova via migliore se non quella di tentare uno scippo ai danni della cassiera di un grande negozio. La cosa va male e l'ultima immagine mostra la copia, piangente e, forse, riconciliata nel parlatorio del carcere. I due registi proseguono sulla strada di un cinema realista, attento ai problemi sociali, in particolar modo a quelli giovanili. Questa volta la confezione è più classica delle precedenti, con meno invenzioni stilistiche - la macchina da presa costantemente addosso a Rosetta, ad esempio - e con qualche concessione alla spettacolarizzazione del racconto. Ne emerge un buon film, ma meno originale e commuovente degli altri da loro firmati. E' come se un discorso vigoroso e importante cedesse, seppur di minima misura, alla maniera. In ogni caso un buon lavoro degno di grande attenzione.
In Broken Flowers (Fiori appassiti), di Jim Jarmusch, un maturo Don Giovanni, ricco pensionato di un’azienda di computer, riceve una lettera in cui un’anonima ex- amante gli confessa di avere avuto un figlio da lui. Spinto da un vicino di casa, intrigante e con la mania del poliziotto dilettante, parte alla ricerca delle quattro donne che possono nascondersi dietro la missiva. È l’occasione per una riflessione sul passato e sull’attuale solitudine di una ricca borghesia americana, ma è anche un modo per riguardare le molte strade e i non pochi fallimenti cui è approdata la generazione dei fiori. Il titolo allude evidentemente a questo, e il film lo testimonia con l’approdo a cui sono giunte le varie donne che il maturo seduttore incontra: la sessualità trasformata in oggetto di consumo, il successo economico pagato con la castrazione della fantasia, l’approdo omosessuale unito a un lavoro stupido, l’emarginazione accettata come modello di vita. Il film non offre soluzioni; non sapremo, con certezza, chi ha scritto la lettera, se essa costituisce uno scherzo crudele o incarna un grido di dolore. Il regista costruisce l’opera attorno alla personalità di Bill Murray, qui più bravo che mai, come esempio di un’anzianità che scopre di aver sprecato la vita: ha ottenuto molte cose, ma nulla di veramente importante e duraturo. Usando l’abituale impasto di stranezza, ironia e violenza, Jim Jarmusch ci consegna un film straordinario, bello, commuovente e, cosa che non guasta, foriero di riflessioni e utili spunti amari.
Il cinema cinese continua ad indagare sul passato di quella grande nazione, sul dolore, l’oppressione, gli orrori cui è intessuto il maoismo e buona parte del regime attuale. Vegli anni settanta operai ed intellettuali che abitavano nelle grandi città furono spinti a trasferirsi nei centri periferici per formare quella che fu detta la terza linea. Fu loro promesso un rapido ritorno, ma, almeno sino alla metà degli anni ottanta, chi tornò lo fece clandestinamente. Qing hong (I sogni di Shanghai) di Wang Xiaoshaui racconta uno di questi drammi: la storia di una famiglia dall’ordinamento moralistico e rigido che, all’inizio degli anni ottanta, decide di ritornare, senza autorizzazione, a Shanghai. Attorno, c'è lo scontro fra i nuovi venuti e i locali, l’amore di un giovane operaio per la ragazza arrivata da fuori, i fermenti filoamericani dei giovani. È un quadro di povertà e violenza cruda e disperante, con il giovane innamorato che, disperato per gli ostacoli posti dal capofamiglia, aggredisce la ragazza e finisce condannato a morte per stupro e giustiziato. E' questa la giustificazione dei numerosi spari che, nel corso del film, ascoltiamo senza capirne la ragione: sono le continue esecuzioni con cui il regime tenta di sopire brutalmente ogni tentativo di ribellione. Un film di forte impatto stilistico, girato con tempi volutamente e necessariamente lenti, pieno di riferimenti sottili e di spunti polemici attualissimi. E' davvero una nuova, grande prova del momento di grazia attraversato dal cinema cinese.
Sin City (La città del peccato) di Frank Miller e Robert Rodriguez nasce dagli album a fumetti, pardon, dal romanzo grafico, come ora si usa dire, del primo. È un universo popolato d’omaccioni violenti, poliziotti tristi e indistruttibili, politici corrotti, preti diabolici, torturatori sadici e che più ne ha più ne metta. Il passaggio dal disegno al film è avvenuto in maniera tecnologicamente sorprendente, con l’uso di un bianco e nero punteggiato, qua e là, da macchie di colore e un montaggio forsennato, che modifica subitamente i piani: dai dettagli si passa ai campi lunghi, senza alcuna continuità linguistica di tipo classico. Detto tutto il bene possibile sul piano dell’invenzione tecnica, rimangono non pochi dubbi sul senso complessivo dell’operazione, compresa l'esagerata violenza che trasporta. Un conto è l’immagine grafica di un tipo che strappa i genitali ad un altro e un’altra è la sequenza cinematografica che contiene la stessa azione. Quentin Tarantino, gran patron del film, è solito sostenere che la violenza esasperata tipica delle opere di questo genere, appartiene al mondo delle favole e del gioco, per cui non dovrebbe destare sospetti. C’è da dubitarne, soprattutto quanto queste esibizioni di sangue, torture e macelli vari non si appoggiano a nessuna necessità espressiva, ma sono solo il frutto di un virtuosismo neppure nascostamente sadico.
Peidre ou faire l’amour (Dipingere o fare l’amore) dei fratelli Arnaud e Jean-Marie Larrieu è il classico film di qualità francese, vale a dire: buona sceneggiatura, storia sufficientemente originale, attori perfetti, confezione professionale d’alto livello. Una coppia borghese, benestante e felicemente sposata da oltre trent’anni: lui é un pensionato, ex funzionario dell’ufficio meteorologico, lei dirigente in una piccola industria ed è una pittrice dilettante. Dalla cittadina, vicina alle montagne pirenaiche, in cui vivono si trasferiscono in campagna, ristrutturando una vecchia fattoria, indicata loro dal sindaco cieco di un paesino. Tutto funziona tranquillamente, con le serate conviviali, la figlia che ha ottenuto una borsa di studio in architettura a Roma, le gite domenicali, la cura della casa. E' un mondo di tranquilla noia, improvvisamente interrotta dall’incendio della casa del sindaco non vedente, sposato con una donna bella e giovane. I due decidono di ospitare i senzatetto e, inizia così un gioco ambiguo che termina con uno scambio di coppia. Dopo un primo smarrimento, i due ci prendono gusto e, prima, seguono i partner in un’isola del Pacifico, poi ci riprovano, questa volta prendendo loro l’iniziativa, con una coppia di passaggio. La trasgressione, razionalmente impensabile, è servita a rinvigorire il legame di coppia e infiammare un amore che sessualmente sembrava quietamente estinto. La forza del film è nel proporre un’atmosfera, che potrebbe essere ricca d’ambiguità, con occhio limpido, senza moralismi o compiacimenti di sorta. La confezione è perfetta, così come gli attori. Ciò che guasta, in parte, il quadro è una meccanica costruita a tavolino, poco partecipata, per nulla pulsante. Persino le scene erotiche più intriganti appaiono come raggelate da una precisione tutta di testa, un volere mettere le brache della razionalità ad un tema e una storia che, forse, aveva bisogno più di sangue e autentica partecipazione.
Free Zone (Zona franca), d’Amos Gitai, riconferma la tendenza di questo regista ad affrontare i nodi della storia israeliana ricorrendo ad eventi simbolici, fatti quotidiani che diventano metafore di una realtà complessa e quasi inestricabile. Qui sono tre donne che s’incontrano per affari o in seguito ad una rottura sentimentale a rappresentare la litigiosità israleo – palestinese e l’impotenza – disinteresse degli altri, USA in testa, a voler arrestare una carneficina che dura da oltre cinquanta anni. Rebecca è un’americana che vive a Gerusalemme, rompe con il fidanzato e vuole abbandonare il paese. Hanna è un’israeliana che guida grossi taxi e deve andare in Giordania per recuperare 30.000 dollari, dovuti a lei e al marito, da un socio in affari. Leila è una palestinese che vive nella zona franca giordana e che dovrebbe, teoricamente, consegnare a Hanna i soldi che le vengono. Il film è in questo lungo viaggio, nelle chiacchiere che nascondono odi e incomprensioni, nella petulanza dell’americana a cercare ad ogni occasione risposte giuste e umanitarie. Il film termina in modo chiaramente simbolico, mentre l’israeliana e la palestinese ingaggiano un lunghissimo litigio, Rebecca fugge verso il confine, vanamente inseguita dai militari israeliani. La guerra continua e gli altri scappano via. Il film è girato, com’è nello stile di quest’autore, con lunghi primi piani il cui senso sarà chiaro solo alla fine. Ancora una volta un’opera che raffina e conferma una posizione estetica già nota: bella, ma poco originale.
Don’t Come Knocking (Non venire a bussare) di Wim Wenders si muove sulla linea degli altri autori importanti, visti in concorso. Lo fa nel senso che firma un’opera professionalmente dignitosa e abbastanza ben costruita, ma priva di qualsiasi nota d’autentica originalità e, per giunta, guastata dall’interpretazione del romanziere e co – soggettista Sam Shepard. La storia, troppo allungata, è quella di un attore sulla via del declino che fugge dal set dell’western in cui è impegnato, collocato a Moab, una sorta di copia della celeberrima Monument Valley. Si lascia tutto alle spalle e si rifugia nella casa di sua madre, che non vede da trent’anni. Qui scopre che, una ventina d’anni prima, una donna, con cui aveva avuto una relazione, lo aveva cercato per fargli sapere che stava per dare alla luce suo figlio. Partendo dalle poche tracce di cui dispone la rintraccia, ormai signora di mezza età, e scopre che di figli non ne ha uno, ma due. Mentre accade tutto questo, un agente della compagnia d’assicurazioni, che ha garantito il buon fine del film, gli dà la caccia, lo ritrova e lo riporta sul set. Tutto continua come se nulla fosse accaduto. L’asse dell’opera dovrebbe essere quello delle origini perdute, dei rapporti di parentela allentati, del mondo diventato una disumana macchina da soldi. Dovrebbe essere, ma il risultato stilistico è modesto, la storia arranca con troppe digressioni, l’interprete principale è troppo impegnato a riflettere sul proprio ombellico per curarsi di fare gioco di squadra per la riuscita del film.
Keuk Jang Jeon (Racconto di cinema) del sudcoreano Hong Sangsoo appartiene a quella categoria di film orientali che offrono allo spettatore tante chiavi di lettura da risultare misteriosi. La storia si divide, apparentemente, in due capitoli. Nel primo un giovane, con tendenze suicidatarie, incontra una ragazza e la convince ad uccidersi con lui. Al momento fatale lei si ribella e finisce in ospedale. Lui contribuisce a salvarla, poi torna a casa ove sua madre lo aggredisce verbalmente. L’ultima immagine, lo mostra sul cornicione di casa. Salterà o si ritirerà ancora una volta? Il secondo episodio ha al centro un regista velleitario e squattrinato che incontra un’attrice di successo ad una retrospettiva in cui è presentato il film che racconta il primo episodio. Le dice di amarla, si fa dare del denaro e la disgusta definitivamente (o forse no). L’intreccio dei piani narrativi è così stretto che lo stesso regista, nel presentare il film, suggerisce almeno tre possibili letture. Alla resa dei conti, oltre le immagini bellissime e l’intreccio millimetrico delle storie, emerge un senso di meccanicità e di lavoro puramente di testa, che gela l’intera proposta.
The Three Burials of Melquiades Estrada (I tre funerali di Melquiades Estrada), opera prima dell’attore Tommy Lee Jones, muove dall’uccisione, per spirito razzista e incapacità professionale, di un bracciante messicano da parte di un agente della polizia di frontiera. Siamo nella zona di confine fra Texas e Messico, un paesaggio solitario punteggiato da minuscoli paesini in cui la noia e il caldo la fanno da padroni. Pete Prekins, il migliore amico del morto, decide di vendicarlo e, dopo avere inutilmente tentato le strade della legge, cattura l’assassino, lo obbliga a dissotterrare la salma e ad accompagnarlo in un lungo viaggio sulle montagne sino al paese di provenienza del bracciante e, qui, dargli degna sepoltura. Il film ha il taglio di un western morale, sfrutta in modo magnifico il paesaggio e i silenzi della natura e dei personaggi. E’ una grande prova di capacità di racconto cinematografico, sicuramente legato ad un modo classico di concepire il film, ma che ci consegna un’opera da gustarsi dalla prima all’ultima immagine.
Huo Hsiao Hsien è, forse, il maggior poeta dell’amore nel cinema moderno. Questo regista taiwanese è un vero maestro nel descrivere i sentimenti e le relazioni sessualmente anche calde, mantenendo sempre un pudore d’immagini davvero esemplare. Con Three Times (Tre tempi) racconta altrettante storie d’amore usando gli stessi interpreti e collocandole in epoche diverse, non cronologicamente conseguenti. S’inizia con il 1966 con due innamorati - lei un’intrattenitrice in una sala da biliardo, lui un giovane che sta per andare a fare il servizio militare – che si scoprono tali e, lentamente si dichiarano. Si prosegue, meglio si torna indietro, al 1911, il film diventa muto, con tanto di cartelloni su cui sono scritti i dialoghi, e racconta di un intellettuale rivoluzionario che partecipa ai moti nazionalisti per liberare l’isola dal dominio giapponese. Generoso con gli altri, ma troppo preso nella sua missione, trascura la cortigiana a cui ha promesso un matrimonio, seppur di secondo, grado come spetta alle concubine legali. L’ultima parte è ambientata a Taipei, nei nostri giorni e racconta di una ragazza, affetta da crisi epilettiche, contesa fra un fidanzato focoso e una ragazza con cui ha stabilito un forte legame affettivo e sessuale, tanto che sentendosi abbandonata, annuncia che si ucciderà. Sono tre momenti in cui l’amore si sviluppa o reprime, causa vittime o trionfa. Il film racconta queste storie con pudore, partecipazione, grandissima perfezione formale.

Festival di Cannes 2005: Un Certain Regard

Cos’ com’è avvenuto per la sezione principale, anche Un Certain Regard ha presentato vari buoni film, ma, tranne che in un caso, nessun rimarchevole per originalità e forza. Facciamo una radiografia di questa parte del cartellone procedendo per raggruppamenti geografici.
Asia
Il cinema asiatico ha presentato alcuni titoli di ottimo rilievo, ad iniziare da Hwal (L’arco) del sudcoreano Kim Ki-duk. L’opera conferma l’interesse di quest’autore per le storie sentimentali, anche in direzione mistica (Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom – Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera, 2003) o di un amore che riesce a sopravvive, magari in modo tortuoso, all’interno di rapporti mercenari (Samaria – La samaritana, 2004). Nel titolo presentato quest’anno a Cannes troviamo molti elementi cari al regista, come l’acqua e gli spazi limitati circondati dal vuoto (Seom – L’isola, 2002). Un sessantenne raccoglie una bambina di sei anni e la porta a vivere con se un barcone, ancorato poco distante dalla riva e usato da pescatori dilettanti, che lo stesso anziano traghetta. Con il passare del tempo, l’uomo s’innamora della ragazza, che si sta facendo donna, e decide di sposarla, quando compirà diciassette anni. A sconvolgere il progetto è un giovane studente, capitato per caso sul natante, di cui la ragazza s’innamora. Stravolto dalla gelosia l’anziano distrugge i piccoli regali che il giovane le ha fatto, innestando in lei una rabbia profonda. Quando l’uomo si presenta con le prove che i genitori della fanciulla non hanno mai smesso di cercarla, il vecchio compie un gesto estremo: si lega una corda attorno al collo e tenta così di fermare, a prezzo della propria vita, la barca che la sta portando via. La ragazzina, commossa, decise di sposarlo quale ultimo gesto di riconoscenza. Compiuta la cerimonia, l’anziano si uccide, non prima di aver scagliato verso il cielo una freccia, usando l’arco che utilizza anche come strumento musicale. Ricadendo a terra il dardo deflora simbolicamente la ragazza; ora ogni debito è pagato e i due giovani possono allontanarsi in pace. Il film ha molti punti di grande rilievo: un utilizzo straordinario del paesaggio e degli spazi in cui s’inseriscono le figure umane, spesso in silenzio. La passione dell’anziano, anche innaturale, è vista con affetto e compassione. E’ un’opera dai toni lenti e bellissimi, respiro poetico e riflessione umanissima.
Con Yek shab (Una notte) l’attrice iraniana Niki Rarimi esordisce nel lungometraggio. Lo fa con un fortemente ispirato a Ten (2002) di Abbas Kiarostami. Un’impiegata vent’enne è messa fuori casa dalla madre, che sta aspettando l’amante. Dovrà stare lontana il più a lungo possibile, meglio l’intera notte. La cosa non facile, visto che, a Teheran, una ragazza che cammina sola dopo il tramonto, è facilmente trattata come una prostituta, controllata dalla polizia, insultata di ragazzi. E' un piccolo calvario in cui la giovane sperimenta sulla propria pelle il peso d’essere donna in una società maschilista e bigotta. Neppure i tre uomini che incontra, e che le danno un passaggio in macchina, la aiutano molto. Il primo, un intrallazzatore amico di pezzi grossi, la tratta da meretrice e le offre denaro in cambio di prestazioni sessuali. Il secondo, un medico in crisi, non sa darle alcun vero aiuto. Il terzo, un marito abbandonato dalla moglie, rischia di metterla ancora più in difficoltà. Si è ricordato che il cinema iraniano continua ad interpretare al meglio i problemi della società. Questa volta il catalogo delle questioni riguarda l’emarginazione femminile, anche se non manca un eccesso di didascalismo e zoppica la costruzione stilistica.
Sulanga enu pinisa (La terra abbandonata) di Vimukthi Jayasundara viene dallo Sri Lanka, ma vuole essere un racconto e una denuncia applicabili a molti paesi e a numerosissime situazioni. In una terra desolata, continuamente percorsa da mezzi da guerra e su cui spadroneggiano i militari, vive una piccola famiglia all’interno della quale si svolge la più classica delle tragedie rusticane: la moglie tradisce il marito e la cosa getta nella vergogna e spinge al suicidio la cognata. Saranno i soldati ad obbligare ingannato a vendicarsi sull’amante della donna uccidendolo a bastonate. Gli ingredienti, fra neorealismo e melodramma, sono tipici di molta produzione di paesi poveri, con l’aggiunta di tempi narrativi lunghi, in omaggio, sia ad una certa moda cinematografica sia, cosa ben più importante, ai ritmi tipici della narrazione orientale.
Europa
Sono venuti dal cinema europeo, particolarmente presente in guasta sezione, alcuni fra i titoli più interessanti visti quest’anno. Tra questi l’unico vero film straordinario contenuto in questa parte della manifestazione ufficiale: Mortea domnului Lazarescu (La morte del signor Lazarescu) di Cristi Puiu. Il film registra, con taglio apparentemente documentario, la morte di un anziano pensionato, col debole della bottiglia. L’anziano si sente male un sabato sera e, fra diagnosi sbagliate, vicini impiccioni e incompetenti, soccorsi in ritardo, spira qualche ora dopo. È una cronaca apparentemente banale, in realtà ricca di notazioni e dure accuse alla disgregazione morale e materiale di una società passata da una feroce dittatura ad un liberalismo selvaggio. La macchina da presa segue con lievità e discrezione il calvario del vecchio e lo fa sino a quasi rendersi impercettibile, lasciando spazio alla tragedia quotidiana che si consuma sotto i nostri occhi. Ci mostra il malato, alcolizzato per solitudine e abbandono, che scende, passo dopo passo, nell’inferno della sanità incompetente o impotente. Un film molto bello e di solida costruzione.
Un’altra bella sorpresa l’ha regalata il francese François Ozon, anche lui impegnato nella descrizione degli ultimi giorni di vita di un malato terminare. Le temps qui reste (il tempo che rimane) racconta, con occhio lucido e straziato, le ultime settimane di vita di un promettente fotografo trentunenne a cui è stato diagnosticato un tumore inoperabile. Il moribondo rifiuta qualsiasi cura e affronta serenamente la morte. La sequenza finale, con lui che si addormenta serenamente sulla spiaggia ove ha trascorso l’infanzia, è da antologia. Prima di questo ha preso congedo da coloro che hanno contato nella sua vita: i genitori, la sorella, il giovane amante a cui è profondamente legato, la nonna. Di questa figura Jeanne Moreau offre un cammeo indimenticabile. Si potrebbe obiettare che il tema si presta facilmente alla commozione e alla solidarietà; forse è anche così, ma la lucidità con cui il regista manovra la macchina da presa e descrive sensazioni e sentimenti, sono davvero magistrali.
Assai meno interessanti altri due prodotti d’area francese visti in questa sezione. Le Filmeur (L’uomo che filma) d’Alain Cavalier è uno di quei film che tanto mandano in visibilio i cinefili estremi. Vi sono raccolti gli appunti videofilmati raccolti nel corso di molti anni dal regista, uno dei più schivi e rigorosi del panorama attuale. Davanti ai nostri occhi scorrono sequenze sgranate di malattie, creazione, scene d’amore, immagini di morte. Un prodotto singolare e non privo di una certa dose di morbosità o, se si preferisce, d’egocentrismo.
Zim and Co. (Zim e compagni) di Pierre Jolivet è una commedia giovanilista a lieto fine aggiornata ai temi d’oggi: droga, piccoli furti, vita al margine della legge, violenza poliziesca razzista. Un film piacevole e astuto, ma nulla più. Una sorta de Il tempo delle mele (1981) di Claude Pinoteau, versione anni 2000.
Johanna dell’ungherese Kornél Mundruczó è un’opera più originale. Inizia come la ripresa di un’esercitazione di salvataggio da un qualche disastro ambientale, ma subito si ferma, passa dalla recitazione al canto e diventa una sorta d’opera lirica cinematografica su un’ex – drogata, che rischia di morire, ma esce dal coma così carica di bontà, da guarire anche gli ammalati più gravi facendo l’amore con loro. Questa sua particolare capacità (dopo tanti rapporti sessuali è ancora vergine. Vi viene in mente qualche cosa?) suscita l’invidia e le ire dell’apparato sanitario che, prima, tenta di portarla dalla parte delle istituzioni, poi, quando lei rifiuta, la uccide, salvo santificarla dopo morta (anche questo non vi ricorda niente?). Il tutto girato con colori marci, in ambienti sotterranei e fatiscenti, secondo le preferenze estetiche del grande Béla Tarr, che qui funziona da coproduttore. Siamo dalle parti di una delle migliori e più origani traduzioni del cinema magiaro contemporaneo. Dalle parti, appunto, visto che il film raggiunge ben poco dell’opera dell’autore cui s’ispira, rimanendo un esempio di talento, non del tutto messo a buon frutto, e di sicura, ma algida, abilità tecnica.
Sul versante del cinema tedesco Falscher Bekenner (Basso profilo) di Christoph Hochhausler c’è la conferma dell’interesse per i problemi sociali, unito ad una scarsa capacità d’affrontarli in modo davvero originale. Qui si parla di adolescenti disadattati e preda di un malessere indicibile che li rode e spinge sino alla delinquenza o al delitto. Un ragazzino di buona famiglia, ma del tutto incapace di inserirsi correttamente nella società, arriva sino a darsi a praticare il sesso orale – pare intendere senza neppure un corrispettivo in denaro – a beneficio dei motociclisti che circolano in una vicina autostrada. Uno spiraglio sembra arrivare dall’innamoramento con una giovane conosciuta casualmente, ma anche questo barlume si spegne, quando scopre che la ragazza è già fidanzata. Roso dalla gelosia e dal proprio disadattamento arriva al delitto. Il giovane attore al centro del film regge bene la parte, ma il personaggio che sceneggiatura e regia gli fanno indossare è appesantito da troppa prevedibilità e già visto. E' un film senza infamia e senza noia, ma scompare subito nel lago delle decine d’opere viste prima, con gli stessi temi e, quasi, le medesime figura.
Valutazione analoga per Schläfer (L’agente in sonno) del tedesco Benjamin Heisenberg racconta, nella sostanza, una storia d’amore a tre, con due ricercatori dell’Università di Monaco che si contendono una bella cameriera. Del tutto pretestuoso appare, invece la grossa macchinazione antirepressiva sbandierata all’inizio e alla fine: uno dei due è un professore arabo sospettato di complicità con gli estremisti islamici. È un film piatto, banale privo di qualsiasi originalità stilistica e, nella sostanza, sottilmente ipocrita.
In modo molto simile l'islandese Dagur Kàri ha confezionato, con Voksne Mennesker (Il cavallo nero) il classico film pseudo sperimentale e pseudo indipendente, ricco d’immagini sgranate in bianco e nero virato, personaggi strani, sbeffeggiamenti alle autorità e via dicendo. Un repertorio visto molte volte e ben poco originale. La storia è quella di un giovane ribelle che mette incinta una ragazza con tendenze allo sballo. Inizialmente fugge dalla e responsabilità, poi ritorna e mette su una bella famigliola. Unica nota divertente, ma sino ad un certo punto, un personaggio di contorno, grassissimo, che vuole fare a tutti i costi, l’arbitro di calcio, tanto che gira sempre in divisa da gara. E’ un film bizzarro, ma inutile.
America Latina
Il cinema dell’America Latina sta mostrando particolare vivacità in due zone: Messico e Brasile. Così è stato anche in questa edizione del Festival. Sangre del messicano Amat Escalante è il ritratto di un impiegatuccio ministeriale assillato da una seconda moglie vogliosa e travagliato dal rimorso di aver abbandonato la giovane figlia, finita nel giro della droga. E’ uno di quei film in cui accadono poche cose, dominano i silenzi e i personaggi stanno spesso zitti. Questo grumo d’inattività e silenzio organizzato costruiscono meglio di molte parole la dimensione vuota e terribile di un’esistenza che va alla deriva senza alcuna speranza. Un film non grandissimo, ma segnato da striature d’originalità e precorso da un autentico dolore.
Citade Baixa (Città bassa) del brasiliano Sérgio Machado racconta un triangolo amoroso tra una spogliarellista e due uomini, un bianco e un nero, proprietari di un battello da carico. Lo sfondo è quello dei quartieri malfamati di Bahia, in particolare le stanze di un night club d’infimo ordine che funziona da anticamera per il bordello soprastante. Atmosfera sordida e violenta, per una storia d’amore in cui nessuno riesce a vivere senza gli altri, ma non accetta neppure di condividere lo stesso oggetto d’amore. Ci sono molte cose già viste, nell’ambientazione e nelle situazioni. La fotografia cita ampiamente altri esempi di cinema latinoamericano, fra lo sperimentale e il documentaristico. Difetti che non compromettono in modo irreparabile il bilancio di un film passionale e sincero.
Cinema, Aspirinas e Ururus (Cinema, Aspirina e avvoltoi) di un altro brasiliano, Marcelo Gomes, è ambientato nel deserto del serto nei mesi in cui il governo di Rio, 1942, decide si entrare in guerra al fianco degli Stati Uniti, contro la Germania hitleriana. Un giovane tedesco, arrivato lì proprio per sfuggire all’arruolamento, percorre quelle lande inospitali vendendo Aspirina e proiettando un documentario propagandistico su quel farmaco miracoloso. Lo aiuta un poveraccio del luogo, assoldato per occasione. Improvvisamente arriva l’ordine di scegliere fra rientrare in patria o essere internato. Lui decide di bruciare i documenti e partire per l'Amazzionia. Una fuga che è un netto rifiuto della carneficina che si sta consumando nel mondo. Il film è piacevole, abbastanza ben costruito, ma poco di più. Sin dalle prime immagini – solarizzate e artificialmente invecchiate – s’intuisce dove il regista vuole andare e lo sviluppo della storia non fa che confermate le previsioni.
Il cinema argentino attraversa una fase particolarmente fortunata, ma i selezionatori de Un Certain Regard non hanno trovato di meglio che proporre Nordeste di Juan Solanas. Il film racconta le vicende intrecciate di una povera donna, madre solitaria e nuovamente incinta, e di una manager francese che va in Argentina per comprarsi un bambino. Non tutte le interconnessioni funzionano a dovere e, per buona parte, il film scorre su binari paralleli e quasi incomunicabili. Il finale tragico e aperto odora più di voglia di chiudere il racconto che non di soluzione funzionale all’intero assunto.
USA
Il cinema statunitense, particolarmente quello non totalmente inserito nel meccanismi produttivi hollywoodiani propone spesso testi piuttosto interessanti, comunque quasi sempre di ottima fattura professionale. E’ il caso di Down in the valley (Giù nella valle) di David Jacobson che mette assieme fascino dei western classici con la solitudine miserabile delle moderne periferie. Una famiglia abbastanza ordinata, anche se condotta dal solo padre, è sconvolta dall’arrivo casuale di uno strano, tipo vestito da cow boy, che parla come nei film degli anni cinquanta. La figlia maggiore s’innamora di lui, contro la volontà di suo fratello. Finirà in tragedia con la ragazza moribonda e il ragazzo inseguito a cavallo dal genitore. È un film con alcuni aspetti originali e che scivola quietamente dalla quasi farsa alla tragedia. La costruzione è solida, gli attori molto bravi, anche se disturba un mito esasperato per il vecchio cinema e una scarsa puntualizzazione delle regioni profonde del dramma.
Situazione simile in The King (Il re) di James Marsch che ruota attorno ad un ex-marinaio, figlio illegittimo di un ricco predicatore. L’ex militare, appena congedato, va alla ricerca del padre, ma questi lo scaccia. La sorellastra s’innamora di lui, senza immaginare il legame che li lega. Sviluppo tragico, con l’uccisione del fratellastro, perchè si oppone alla relazione, e finale con massacro. L’asse del discorso sembra muovere in due direzioni: il sostegno al figlio della colpa e la denuncia del fanatismo religioso. Nessuno dei due temi è debitamente approfondito e il film naviga a mezz’aria fra il melodrammone e il quadro sociale della provincia profonda americana, meglio texana, delle sue fobie e miserie.
Australia, Africa, Cuba
Come in tutte le selezioni, c’erano, poi alcuni film spersi, nessuno dei quali memorabile. Yellow Fella (Il giallo) d’Ivan Sen è un mediometraggio australiano su un aborigeno apparso, nel 1978, nel film The Chant of Jimmy Blacksmith (La ballata di Jimmy Blacksmith) di Fred Schepisi. Vi si racconta la dura esperienza di quest’attore preso dalla strada, la ricerca di un posto nella società australiana, l’affannosa ricerca del padre, un gallese che si è unito ad un’aborigena. E' un bel documento sulla condizione di un’anima a metà del guado in una società forzatamente multietnica, ma non per questo meno razzista.
Jewboy (Ragazzo ebreo) di Tony Krawitz è il ritratto di un giovane ebreo appartenente ad una comunità australiana ortodossa. I legami con la stretta osservanza gli lo soffocano, il non poter neppure sfiorare una ragazza mette a dura prova i suoi ormoni in ebollizione. Si ribellerà, ma non riuscirà a tagliare sino in fondo i legami con la tradizione che lo ha partorito. E’ un bel servizio televisivo, intelligente e preciso, ma poco di più. I film africani si dividono almeno in tre filoni: quelli di tipo magico realista, quelli sui gravi problemi sociali e quelli che imitano il cinema occidentale.
Marock (Marocco, ma il giogo delle parole e fra Ma e Rock) di Laïla Marrakchi appartiene all’ultima categoria e racconta i turbamenti sessuali e le piccole ribellioni di un gruppo di ragazzi e ragazze della buona borghesia marocchina. Ci sono anche accenni al maschilismo e al fondamentalismo, ma sono le classiche spezie con cui si tenta, senza riuscirci, di insaporire una pietanza scipita.
Da qualche tempo il cinema cubano lascia filtrare qualche spirito critico sulla società, parla di balseros (coloro che abbandonano l’isola su imbarcazioni di fortuna) e di traffici più o meno leciti, ma lo fa a patto che, alla fine, tutto ritorni nell’ordine. E’ il caso di Habana Blues di Benito Zambiano, in cui la lotta di un gruppo originale, portatore di musica realmente nuova, è dilaniato fra l’emigrare clandestinamente, mettendosi nelle mani di un’azienda discografica che minaccia di spolparli sino all’osso, o rimanere nell’isola e continuare a battersi per farsi strada. Una dilemma importante, ma che qui serve solo a sorreggere un film coloratissimo, quanto vecchio.
Kiss Kiss, Bang Bang di Shane Black racconta, come fosse un giallo popolare o un fumetto, la complicata storia dell’uccisione di un’erede scomoda da parte del padre miliardario, il tutto visto attraverso gli occhi di un attore mancato che si trova, di colpo, ad aver a che fare con killer e delinquenti. Si ride abbastanza e l’azione ha un ritmo davvero frenetico.
Star War –Episode III- Revenge of the Sith (Star War – Terzo episodio- La rivincita dei Sith) di George Lucas conferma le linee su cui si sono assestati gli ultimi episodi della serie: progressiva seriosità e aumento della magnificenza tecnologica. Da questa punto di vista, non solo, non si riesce più a distinguere gli elaborati al computer, dalle riprese reali, ma non ci si meraviglia di nulla. In quest’ultimo capitolo, con vari e ambigui riferimenti all’America di George W. Bush, si racconta il tradimento del promettente jedi che abbiamo conosciuto come l’eletto e che passa alle forze del male, mal incogliendogliene. Niente di sostanzialmente nuovo, un grosso divertimento pieno di rumori e spari più fine a se stessi che funzionali ad un preciso racconto.
Michel Piccoli, produttore Paolo Branco, firma un film che sembra un distillato della scuola di Manoel De Oliveira. C’est pas tout a fait la vie dont j’avais reve (Non è per niente la vita che avevo sognato) mette in scena una commedia borghese basata su un ricco marito, con moglie e amante. Nessuna delle due è una venere, ma è con la seconda che lui soddisfa le sue voglie più intime. Tuttavia, quando la moglie muore, abbandona anche l’amante e si ritira, forse, in una triste vedovanza. Forse, perché la strizzata d’occhio che chiude il film, rivolta allo spettatore, fa supporre che abbia approfittato della disgrazia per uscire da una situazione divenuta pesante. Gli interni sono di gusto raffinato, la storia presenta un po’ troppe ripetizioni, ma nel complesso si tratta di un film interessante.

Festival Festival di Cannes 2005: Varie cose